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Father and Son

Father and Son

di Hirokazu Koreeda. Drammatico, durata 120 min. – Giappone 2013. -italia aprile 2014

father

INDICE:

  1. Trama
  2. recensione : Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
  3. recensione: il senso della paternità
  4. Trailer

Trama

Un giorno, Nonomiya Ryota, uomo ricco ed egoista, riceve una telefonata dall’ospedale in cui gli viene rivelato di non essere il padre biologico di suo figlio, un bambino di sei anni. Infatti, al momento della nascita il piccolo è stato scambiato nella culla con il figlio di un’altra coppia. Ryota e sua moglie, sconvolti dalla notizia, si troveranno di fronte a una difficile scelta: riprendersi il figlio biologico o continuare ad allevare il bambino che hanno cresciuto finora.
Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
Marianna Cappi mymovie.it

Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni?
Il giapponese Kore-Eda conferma le qualità artistiche di cui ha sempre dato prova con questa esplorazione splendidamente misurata di un dilemma che mira dritto al cuore dell’uomo. Con la leggerezza della grande scrittura, l’abilità di costruire un’architettura perfetta nel bilanciare il peso di azioni e reazioni tra i due nuclei familiari coinvolti (il regista ha affermato di essere partito con questo film per un viaggio dentro se stesso, riconoscendosi nelle questioni personali di Ryota, che nella finzione è appunto un architetto) e con un cast in grado di conferire all’opera un valore aggiunto altissimo, Kore-Eda non si lascia mai tentare dal richiamo del melodramma, che è nelle corde del soggetto ma non nelle sue, e mantiene un registro contenuto ma attento ai particolari e ai piccoli incidenti del vivere, nel quale le belle idee sono silenziosamente numerose e nulla è mai di troppo. In particolare, nonostante il film racconti la maturazione di Ryota rispetto al suo essere padre, che passa forzatamente dal suo essere stato figlio a sua volta di un certo padre, sorprende la verità con la quale il regista coglie le reazioni dei due bambini, bloccati tra la fiducia che ripongono nei genitori, la volontà di ottenere la loro ammirazione e il disagio dell’incomprensione.
Non sono poche le barriere culturali che ci impediscono di non trovare mostruoso il comportamento del protagonista o colpevolmente remissivo quello della moglie, ma è il film stesso, probabilmente, ad accrescerli leggermente nella prima parte (come fa d’altronde con la presentazione, quasi in chiave di commedia, delle differenze di comportamento tra le due famiglie) per poi superare le premesse e farsi toccante, nella scoperta del sentimento. E non poteva che essere attraverso uno strumento eminentemente visivo come una macchina fotografica, che Ryota impara che è suo figlio, il suo sguardo e il suo amore, che fanno di lui un padre, non un esercizio di volontà né il gruppo sanguigno.
Father and Son, infine, è anche e soprattutto una riflessione sul tempo, su ciò che crea, che divora, che può e non può mutare.

 

 

 

 il senso della paternità 
Scritto da Yahoo! Notizie

Del cineasta pressoché sconosciuto in Occidente Kore-eda Hirozaku giunge nelle sale italiane dal 3 aprile un ottimo film intitolato “Father And Son”, già vincitore del Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Seppur partendo da un presupposto narrativo che non è certo inedito per il pubblico di casa nostra (tre film molto diversi tra loro ricordano lo scambio tra figli in culla in ospedale al momento della nascita: il comico “Il 7 e e l’8” con Ficarra & Picone, il certo più valido il franco-israeliano “Il figlio dell’altra” e il deludente “I figli della mezzanotte” ), “Father And Son” si merita tutte le attenzioni per la straordinaria sensibilità narrativa attraverso dialoghi e immagini, per l’eccellente costruzione dei personaggi e infine per l’ottima interpretazione del cast. Difficile vedere difetti in quest’opera che, nei suoi 120 minuti di durata, non sembra indugiare mai su una ripetizione inutile o, considerato il tema, su facili sentimentalismi. La storia è quella di un padre, Ryota (Fukuyama Masaharu), architetto di successo e carrierista determinato, ossessionato dall’autoaffermazione e da una certa rigidità educativa nei confronti del piccolo figlio di sei anni Keita. La casa in cui Ryota vive col piccolo e con la moglie Midorino (Ono Machiko) è una sorta di perfetta operazione matematica, le cui cifre sono l’ordine, la disciplina, il benessere. Anaffettivo e razionale, Ryota è convinto che conti la qualità del tempo passato col piccolo, più che la quantità. L’equilibrio della famiglia viene sconvolto dalla notizia che Keita non è il vero figlio di sangue della coppia: per un criminale scambio di pargoli nella culla in ospedale, il vero figlio è finito nella casa di Yudai (Lily Franky), disordinato bottegaio certo non benestante che, con la moglie Yukari (Maki Yoko), alleva tre figli in un modo totalmente opposto a quello di Ryota: tanto affetto, molta istintività. Il progetto dell’ospedale e delle famiglie prevede (per quanto sia difficile da comprendere per noi occidentali…) lo scambio graduale dei figli, frequentandosi nei week end. Ma il problema è che il piccolo Keita si ambienta facilmente nella giocosa casa di Yudai, mentre il figlio naturale di Ryota non ne vuole sapere di adattarsi al regime asettico e militaresco del nuovo papà manager. Conta più il sangue o il tempo passato insieme?
Kore-eda Hirokazu sposa concetti e immagini con grande maestria, contrapponendo spazi differenti (il quartiere popolare della famiglia disordinata, col suo negozio ad altezza strada, opposta al claustrofobico appartamento dei “ricchi”, relegato ad un’altezza da cui si può osservare, ma senza toccare, la brulicante metropoli) e gesti differenti (la postura controllata e la ricerca di comunicazione di Ryota col figlio “attraverso” gli oggetti da una parte, il contatto fisico senza pudore alcuno di Yudai con la propria prole). Il regista e sceneggiatore giapponese riesce anche, in modo mirabile, a raccontarci di un complesso e articolato gruppo di persone, consegnando ad ognuna di esse la giusta attenzione drammaturgica e un profilo umano vero, multidimensionale, nobile e mediocre a un tempo. E contemporaneamente, rende chiaro che il centro della storia, il reale protagonista, è l’anaffettivo padre Ryota: è in lui che deve avvenire la trasformazione interiore, è lui che combatte da solo contro sé stesso e le proprie ferite autobiografiche. Lo sguardo di Kore-eda è di una purezza, di una misura e di un rispetto per i personaggi che poche volte è dato vedere al cinema.
Ferruccio Gattuso

 

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Le parole di Bianca sono farfalle

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Autore/i: Chiara Lorenzoni
Illustratore/i: Sophie Fatus
Editore: Giralangolo
Anno: 2013
Numero di pagine: 30
Prezzo: 13,50 €

  • Età consigliata: da 6 anni

 

1) SINOSSI

2) RECENSIONE

3) IMMAGINI

 

 

 

Sinossi

Bianca non parla, ma vede cose che gli altri non vedono. Vede quando i sorrisi dicono le bugie e quando gli occhi parlano anche se la bocca riposa. Vede l’imbarazzo che si nasconde sul bordo delle orecchie e la rabbia silenziosa che si infila nelle vene della fronte. Bianca non sente, ma vede i suoni. Quelli scintillanti e appuntiti dello schiocco dei baci sulla guancia. Quelli lisci e lenti delle mani tra i capelli. Quelli tondi e soffici che le rimbalzano addosso il momento prima di addormentarsi. Bianca non sente e non parla, ma le sue mani sono farfalle che danzano nell’aria e raccontano tutte le storie e tutti i suoni del mondo. Un racconto intenso e poetico accompagnato dai disegni lievi e divertiti di Sophie Fatus. .

 

RECENSIONE

Bianca è speciale perché non parla e non sente, ma vede cose che gli altri non vedono:  “vede l’imbarazzo che si nasconde sul bordo delle orecchie e la rabbia silenziosa che si infila nelle vene della fronte”. È capace di vedere un mare nel tappeto blu del salotto e la sua mamma, anche se è inverno, non si vergogna di indossare con lei grandi cappelli di paglia e occhiali da sole. Ma che cosa più di tutto gli altri non vedono? I suoni, e Bianca li vede: possono essere arrotolati come quello di una risata o scintillanti come quello di un bacio sulla guancia. “Bianca non sente e non parla, ma le sue mani sono farfalle che danzano nell’aria”, sono le sue mani le sue parole, sono le sue mani che raccontano per lei…
Le parole di Bianca sono farfalle è un albo che descrive con una certa immediatezza e scorrevolezza la vita quotidiana di una bambina che non sente e non parla. Per lei, tutto il mondo è territorio dell’immaginazione: non solo nei giochi Bianca visualizza, trasfigurandoli con associazioni creative, gli oggetti e i personaggi della sua vita; ma anche nel quotidiano il suo interpretare il mondo è vedere, il suo parlare è far vedere. Sono visioni fantasiose e colorate come i disegni di Sophie Fatus, realizzati in questo caso con tecnica mista che include l’utilizzo di ritagli accanto al disegno. Anche il testo si colora, accompagnando le immagini a volte solo per riproporne i toni, a volte per completarne il senso. L’interazione reciproca fra le diverse parti del libro – disegno, testo, e perfino il titolo – è forse l’aspetto più riuscito dell’albo. Certamente rimane la curiosità di vedere come un’illustrazione meno simbolica è più realistica avrebbe valorizzato il linguaggio delle espressioni, che Bianca riconosce ed interpreta, ma di certo questa scelta permette di abbassare l’età di lettura e di agevolare l’accesso ad una non comune declinazione di diversità anche tra bambini più piccoli. Le coloratissime figure e il grande formato hanno anche il pregio di stimolare la fantasia in maniera del tutto autonoma dalla necessità di affrontare uno specifico tema. L’attenzione alla visualizzazione/ascolto, forse, è anche uno stimolo al contatto con quanto non si può descrivere se non con paragoni, come i sentimenti. Che cos’è “il suono delle ciglia di papà” se non un’emozione? E infatti ecco “la tenerezza che le stringe il petto per i baci del suo papà”. Quella di Bianca, in fondo, è la storia di moltissimi bambini, che amano stare con i genitori, giocare con loro e osservare il mondo rendendolo fantastico e imprevedibile anche nelle sue manifestazioni più quotidiane. (Scarpa mangialibri.com)

RECENSIONE 2

Bianca non parla; Bianca non sente. Ma per Bianca i colori sono suoni e le mani parole. Con la mamma disegna polpi e stelle marine, immerge i piedi nel tappeto blu e sente il mare; con le mani disegna parole nell’aria, come farfalle che raccontano emozioni e sensazioni. Le parole di Bianca sono farfalle è il nuovo Picture Book di Giralangolo.

Ci sono tutti i suoni e le parole del mondo, in quei gesti e in quelle farfalle ballerine: le risate arrotolate come la coda di un maialino e lo schiocco del bacio della buonanotte, la gioia per le linee attorno agli occhi della mamma che sorride e il freddo del naso del suo cane quando le annusa le caviglie. Le mani di Bianca danzano e disegnano cerchi, trame, tentacoli, e così anche senza parole lei racconta tutto quello che sente addosso.
Chiara Lorenzoni tocca con leggerezza e profondità un tema difficile come quello della condizione sordomuta: Bianca è una bambina felice, vive giornate piene d’amore e di giochi con i genitori, ne amplifica i sentimenti imparando a leggerli solo con lo sguardo. Ogni gesto, ogni mossa, ogni piccola variazione nel mondo intorno è per lei un input continuo che le solletica l’immaginazione, trasformando in immagine quel che prova. Tutto intorno a lei diventa visibile e comunica; ecco perché, tra le tante delicate illustrazioni di Sophie Fatus, salta subito all’occhio la scelta dell’artista per il collage, con cui rappresenta steli, vasi o animali: tutto diventa improvvisamente composto da sfilacci di parole, che chiunque sfogli il libro cercherà di interpretare e ricostruire. Così come Bianca, che legge le cose che non può sentire e le tramuta in gesti a forma di farfalle.

 

IMMAGINI

 

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Nebraska

NEBRASKA-Official-Film-Clip-Remember-Me-YouTubeNebraska

Un film di Alexander Payne.

Drammatico, durata 115 min. – USA 2013. – Lucky Red

uscita giovedì 16 gennaio 2014.

– Trama

– Recensione

– Trailer

TRAMA

Woody Grant è un vecchio padre di famiglia alcolizzato che crede di aver vinto un milione di dollari grazie ad un concorso della Mega Sweepstakes Marketing. Decide così di mettersi in viaggio, dal Montana al Nebraska, a piedi. Suo figlio David, dopo vari tentativi di dissuaderlo, decide di accompagnarlo in macchina, lasciandogli credere che il fruttuoso premio sia reale. Sua moglie Kate è contraria al viaggio, ma accetterà di venire nella cittadina in cui viveva prima dove il marito e il figlio hanno fatto sosta prima di raggiungere la città di Lincoln. Per l’occasione ci sarà una rimpatriata di famiglia. Dopo che la falsa notizia della vincita si è diffusa, i vecchi amici e alcuni parenti inizieranno a pretendere dei soldi da Woody, ma quando scopriranno che la vincita è fasulla lasceranno perdere. Arrivato a Lincoln, Woody chiede di riscattare il premio ma verrà confermato che non è lui il vincitore, e quindi tornerà a casa con David, che gli compra un furgone nuovo (come il padre desiderava). Dopo il viaggio il rapporto tra il padre e il figlio è notevolmente rafforzato Recensione 1: Woody Grant ha tanti  anni, qualche debito e la certezza di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Ostinato a ritirare la vincita in un ufficio del Nebraska, Woody si avvia a piedi dalle strade del Montana. Fermato dalla polizia, viene ‘recuperato’ da David, figlio minore occupato in un negozio di elettrodomestici. Sensibile al desiderio paterno e dopo aver cercato senza successo di dissuaderlo, decide di accompagnarlo a Lincoln. Contro il parere della madre e del fratello Ross, David intraprende il viaggio col padre, assecondando i suoi capricci e tuffandosi nel suo passato. Nel percorso, interrotto da soste e intermezzi nella cittadina natale di Woody, David scoprirà i piccoli sogni del padre, le speranze svanite, gli amori mai dimenticati, i nemici mai battuti, che adesso chiedono il conto. Molte birre dopo arriveranno a destinazione più ‘ricchi’ di quando sono partiti. Autore indipendente e scrittore dotato, Alexander Payne realizza una nuova commedia ‘laterale’ come le strade battute dai suoi personaggi, che si lasciano indietro lo Stato del Montana per raggiungere il Nebraska in bianco e nero di Bruce Springsteen. E dell’artista americano il film di Payne mette in schermo la scrittura ‘visiva’, conducendo un padre e un figlio lungo un viaggio e attraverso un territorio che intrattiene un rapporto simbolico col loro mondo interiore. Oscillando tra dramma e commedia, Nebraska, versione acustica di Sideways, coinvolge lo spettatore in un flusso empatico coi protagonisti, persone vere dentro storie comuni e particolari da cui si ricava una situazione universale. Ambientato nella provincia e lungo le strade che la raccordano al mondo, Nebraska frequenta una dimensione umana marginale e fuori mano rispetto all’immaginario hollywoodiano, prendendosi alla maniera del protagonista tutto il tempo del mondo per arrivare a destinazione. Una destinazione dove si realizza un passaggio che non può mai avvenire come effetto di una retorica pedagogica ma si fonda sull’impossibile, l’impossibilità di governare il mistero assoluto della vita e della morte. Non è per sé che il protagonista di Bruce Dern sogna quel milione di dollari, a lui basta un pick-up per percorrere gli ultimi chilometri di una vita spesa a bere e a rimpiangere quello che non è stato. La vincita della sedicente lotteria a Woody Grant occorre per i suoi ragazzi, per lasciare loro ‘qualcosa’ con cui vivere e per cui ricordarlo. Ma David, sensibile e affettuoso, è figlio profondamente umanizzato, testimonianza incarnata di un’eredità più preziosa del denaro. È il figlio ‘bello’ di chi è stato e di cui perpetua adesso il valore. Nebraska è una ballata folk che accomoda allora la bellezza e l’amore, quella di un figlio per il proprio genitore, che prima di lasciare andare torna a guardare dal basso, in una prospettiva infantile e accoccolata ai suoi grandi piedi e al suo piccolo sogno. Intorno a loro scorre l’America lost and found insieme a una storia sincera che battendo vecchie strade, la struttura da road movie che diventa pretesto di ‘formazione’ (Sideways), ne infila una nuova. Nebraska è una spoglia poesia di chiaroscuri, un’indicazione lirica verso le radici, verso i padri, davanti ai dilemmi di tempi paradossali e senza guida. Diversamente dagli antieroi springsteeniani, il protagonista di Payne non cerca terre promesse e non corre sulle strade di “un effimero sogno americano”, decidendo per la lentezza, l’impegno, il rispetto e il senso di responsabilità. L’amabile David di Will Forte è il “giusto erede” di un genitore vulnerabile che Payne non presenta come esemplare ma come testimonianza eccentrica e irripetibile della possibilità di stare al mondo con qualche passione. E quella di Woody è l’amore, lingua franca di un viaggio che contempla le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino. Su quel padre incerto David ritrova il proprio senso e riprende la strada.Marzia Gandolfi mymovie.it

 

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Il passato

il passato

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Il passato

Un film di Asghar Farhadi.

Con Bérénice Bejo, Tahar Rahim,

 Titolo originale Le passé.
Drammatico, durata 130 min. –
Francia, Italia 2013. –
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RECENSIONE
mymovies, Giancarlo Zappoli

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma.
Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti.
Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa.
Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.

(clicca sopra)
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La prima neve

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La prima neve

Un film di Andrea Segre. Con Jean-Christophe FollyMatteo MarchelAnita CaprioliPeter MitterrutznerGiuseppe Battiston.

 Drammatico, durata 105 min. – Italia 2013

 

SINOSSI

La prima neve è quella che tutti in valle aspettano. È quella che trasforma i colori, le forme, i contorni.

Dani però non ha mai visto la neve. Dani è nato in Togo, ed è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia.

È ospite di una casa accoglienza a Pergine, paesino nelle montagne del Trentino, ai piedi della Val dei Mocheni.

Ha una figlia di un anno, di cui però non riesce a occuparsi. C’è qualcosa che lo blocca. Un dolore profondo.

Dani viene invitato a lavorare nel laboratorio di Pietro, un vecchio falegname e apicoltore della Val dei Mocheni, che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa e al nipote  Michele, un ragazzino di 10 anni la cui irrequietezza colpisce subito Dani. Il padre di Michele è morto da poco, lasciando un grande vuoto nella vita del ragazzino, che

vive con conflitto e tensione il rapporto con la madre e cerca invece supporto e amicizia nello zio Fabio.

La neve prima o poi arriverà e non rimane molto tempo per riparare le arnie e raccogliere la legna.  Un tempo breve e necessario, che permette a dolori e silenzi di diventare occasioni per capire e conoscere. Un tempo per lasciare che le foglie, gli alberi e i boschi si preparino a cambiare.

In quel tempo e in quei boschi, prima della neve, Dani e Michele potranno imparare ad ascoltarsi.

 

NOTE DI REGIA

La luce entra nel bosco insieme alle ombre. Si alternano, si incrociano, giocano come vuoti e

pieni, come spazi di vita tra silenzio e rumore. Gli alberi sembrano voler scappare dal bosco.

Ma non possono. Crescono a cercare la luce, si allungano per superare gli altri, ma rimangono

tutti ancorati lì, uno affianco all’altro, in file regolari che segnano le prospettive.

È il bosco il luogo centrale dell’incontro tra Dani e Michele; è in quello spazio che i due si

seguono, si cercano, si respingono, si conoscono. È uno spazio in cui la natura diventa teatro.

Dove la realtà diventa luogo dell’anima e ospita significati e metafore che la trascendono.

Pronta a diventare sogno.

Come nel mio primo film Io Sono Li, anche La prima neve è costruito nel dialogo costante

tra regia documentaria e finzione, tra il rapporto denso e diretto con la realtà e la scelta di

momenti più intimi costruiti con attenzione ai dettagli della messa in scena. Così è anche

nel lavoro con gli attori: persone del luogo e attori professionisti interagiscono tra loro, in

un processo di contaminazione tra realtà e recitazione. Con il privilegio, in questo secondo

film, di aver finalmente potuto lavorare con l’energia e l’imprevedibilità di bambini e giovani

ragazzi.

ANDREA SEGRE

SITO FILM

TRAILER

 

 

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STOP CAMBIAMO IL FUTURO

STOP CAMBIAMO IL FUTURO

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I bambini usano i disegni per insegnare agli adulti come rispettare il mondo. Per realizzare il carto

ne animato, Stop, cambiamo il futuro il regista ha usato i lavori di 732 bambini delle scuole elementari di tutta la Liguria. “Si tratta di un progetto di educazione ambientale che vede i bambini diventare educatori di tutti”, spiega l’assessore regionale all’ambiente Renata Briano. “I più piccoli hanno una sensibilità notevolissima e il video mette in evidenza come l’uomo, modificando l’ambiente, crea problematiche. In questo caso i bimbi diventano motori di coscienza anche di noi adulti” (nel video un estratto del cartoon.

LEGGI IL PROGETTO E SCARICA GRATUITAMENTE IL FILM AL LINK: CLICCA QUI

 

ANTEPRIMA

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A Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

hbofamilyA Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

Documentario, durata 41′

Regia diAmy Schatz
Con Rosie O’Donnell, Ziggy Marley, Elizabeth Mitchell

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Le testimonianze di diversi bambini offrono riflessioni toccanti, profonde e spesso divertenti, su cosa significa per loro la famiglia. Tra i bambini, ve ne sono alcuni con situazioni familiari particolari, come chi ha due padri o due madri, una ragazza adottata dai genitori in Cina o tre fratelli che vivono con la madre e la nonna. Alle loro riflessioni si affiancano gli interventi di Rosie O’Donnell (che parla della propria famiglia con la figlia Vivienne Rose) e diversi intermezzi musicali, alcuni dei quali di Ziggy Marley (che canta con la madre e la sorella) e della musicista folk Elizabeth Mitchell (che canta con il marito e la figlia di sette anni).

IL PROGRAMMAZIONE SU LAEFFE

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    LUNEDÌ 1 LUGLIO ALLE 21:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    MERCOLEDÌ 3 LUGLIO ALLE 22:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    SABATO 6 LUGLIO ALLE 20:05

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    DOMENICA 7 LUGLIO ALLE 23:10

lo scafandro e la farfalla

Lo scafandro e la farfalla 3Lo scafandro e la farfalla

Un film di Julian Schnabel. Francia 2007

durata 112 min. Kids+13,

Indice

Trama

Recensioni

Video

…….

TRAMA

Il film è basato sull’omonima monografia di Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla, in cui Bauby descrive la sua vita dopo aver avuto un ictus all’età di 43 anni, che lo ha ridotto in uno stato di sindrome locked-in, lasciandogli come unico mezzo di comunicazione con il mondo il battito della palpebra sinistra. Il protagonista si risveglia su un letto d’ospedale, dopo 3 settimane di coma, impossibilitato a comunicare. Dopo un iniziale abbattimento morale, prende coraggio per continuare a andare avanti. Nei momenti di abbattimento, evade dalla realtà che lo circonda usando semplicemente la sua immaginazione e la sua memoria, ricordando i momenti del suo passato più felici, le cose che avrebbe voluto fare, le persone che ha trascurato cui ora si pente di non aver trascorso più tempo con loro, fino al litigio con suo padre.

 

RECENSIONI 

Una prova di grande umanità in un film di elevato livello artistico
Giancarlo Zappoli     mymovie.it

Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. È il caporedattore di ‘Elle’ e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film.
Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi handicap (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentrodi Alejandro Amenábar con l’interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l’attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico.
L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l’orrore della condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d’ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie ‘vere’. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell’eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé.

Lo scafandro e la farfalla: recensione

Se non l’avete visto, o se non l’avete mai sentito, fatevi un regalo e andatevi a vedere Lo scafandro e la farfalla. Che non sarà magari, almeno per la campagna di marketing e per il tipo di cinema che rappresenta, un film per le grandi masse, ma metterei la mano sul fuoco che alla fine potrebbe conquistare un po’ chiunque, anche i più scettici.

Certo, all’inizio può spaventare: si apre con una lunga sequenza in soggettiva. Lo spettatore si trova a guardare ciò che vede il protagonista Jean-Dominique Bauby, direttore di Elle, che si risveglia dopo tre settimane di coma dovuto ad un improvviso ictus. Il primo passo dopo il coma è lungo, e lo spettatore si trova a vedere tutto offuscato, ombre di persone, suoni appena accennati.

E’ l’inizio, meraviglioso, di un meraviglioso film. Che sfida le regole del cinema e riesce a raggiungere lo spettatore fin sotto la pelle e a restarci per molto tempo. E’ un progetto rischioso, che può sembrare anche furbo per chi il cinema lo guarda con la malizia e con l’occhio puramente tecnico. E così facendo, si potrà riscontrare un’assoluta perfezione delle immagini e dei suoni: ma c’è chi potrà pensare che il tutto sia fin troppo calcolato.

Julian Schnabel è invece un abile autore, che sa regalare la tecnica alle sue profondissime idee: hai detto poco. Lo scafandro e la farfalla non è solo la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico di Bauby, che scrisse e “dettò” (poteva comunicare solo col battito della palpebra sinistra) la sua biografia ad una redattrice lettera per lettera e morì tredici giorni dopo averlo pubblicato.

Il film di Schabel è un intelligente viaggio interiore all’interno di uno scafandro (il corpo paralizzato) in cui lo spettatore può immedesimarsi totalmente nel pensiero, grazie ad una voce-off che non diventa mai superflua ma spesso è capace di grande intensità e di notevole ironia, del protagonista e così vivere una vera e propria esperienza, di delicatezza ed umanità rare, e trovare così una farfalla.

Non la malattia, non il dolore, non la famiglia (che anche in questo film è divisa, con una bellissima moglie da cui si è separati e figli che non si vorrebbe vedere solo per non farli soffrire). O almeno non solo questo: Lo scafandro e la farfalla è un film sulla sfida, sulla pazienza, sulla persistenza. E poi, giustamente, un film sul cinema e sulla visione: non è un caso che il montaggio spesso coincida col battere delle palpebre di Bauby.

Standing ovation per Mathieu Amalric, che sotto una smorfia raggelata dagli eventi dimostra finalmente a chi ancora non l’ha capito cosa voglia dire recitare sul serio con gli occhi. E applausi a scena aperta alla fotografia, ai flash-back non inopportuni, ai personaggi di contorno che non sembrano mai superflui, alla ricca colonna sonora, che si apre e si chiude con la sempreverde La mer di Trenet. E applausi per Schnabel: che c’ha creduto, che c’ha provato, che c’è riuscito e ci ha fatto scorrere sincere lacrime. Scritto da:  -cineblog.it

 

RECENSIONE 2

Se è vero che ogni spettatore che scrive di cinema, per lavoro o per semplice passione, dovrebbe comunque conservare sempre uno spirito che sappia andare oltre i meriti meramente artistici della pellicola di turno, in alcune circostanze il fattore “cuore” si pone obbligatoriamente al di sopra della ragione stessa.

La storia è già di per sé di quelle straordinarie: Jean-Dominique Bauby fu un giornalista francese, redattore capo della nota rivista “Elle”. Colpito da un ictus nel dicembre del ’95 a 43 anni, quando si risvegliò 20 giorni dopo l’incidente si accorse che il suo corpo aveva del tutto perso sensibilità e poteva controllare soltanto la sua palpebra sinistra: si tratta di una rarissima condizione chiamata Locked-In syndrome.

Nelle suddette condizioni riuscì, incredibilmente e con impensabili modalità, a dettare pensieri ed emozioni così “scrivendo” il libro “Lo scafandro e la farfalla”. Morì nel ’97 per un arresto cardiaco, due giorni dopo la pubblicazione del libro.

Il film parla di tutto ciò, spingendosi perennemente oltre, addentrandosi il più possibile nella mente (attraverso una voce-off d’obbligo, comunque mai produttrice di verbosità) di Bauby (Mathieu Amalric, ottimo), quando non nel corpo: la spiazzante e lunga parte iniziale parte dalla soggettiva dell’occhio a fuoco/non a fuoco, quasi a mettere da subito lo spettatore davanti a una realtà terribile. Ma sorprende il modo in cui si evitano con molta puntualità patetismi e ricatti che pure ci si aspetterebbe di trovare (da confrontare con il meno bello e più scontato “Mare dentro” di Amenàbar): innanzitutto lo fa grazie a un uso sottile e mai invadente di un’ironia pure essa spiazzante, che contribuisce a spazzare via ogni facile pietismo.

Julian Schnabel non indulge sul volto devastato dell’uomo, preferendo ciò che resta allo stesso: i ricordi e l’immaginazione, mescolando la fanciullezza dei figli e momenti di intimità amorosa con viaggi immaginari dove la fantasia si pone tra acque e piante, invase da una farfalla splendida, ma comunque incapace di svettare in volo. E l’onnipresente presenza femminile che aleggia come massima espressione di quel raggiungimento di felicità andata perduta.

“Lo scafandro e la farfalla” è un film frammentario, fin sconnesso, fragilissimo ed incerto che quasi mette in discussione la sua evidente ricerca visiva. Per fortuna l’autore si muove con la consapevolezza dell’impossibilità di rappresentare l’irrappresentabile, e il film diventa al contempo, non necessariamente con volontà e premeditazione, una metafora del cinema stesso, su le possibilità che una visione può scaturire, sull’impossibilità di appagamento totale della stessa. Tuttavia si farebbe un torto al film nell’inquadrarlo come formato audiovisivo per riflettere sulla forma filmica, così come situarlo di fianco a una tavolozza di pittura neoespressionista, propria di Schnabel, da sempre più famoso come pittore che come regista.

Possiamo banalmente dire che “Lo scafandro e la farfalla” è un film sulla libertà interiore, capace di traiettorie di inaudita bellezza. E’ quindi un film che ci parla di un essere umano, dell’essere umano, semplicemente. E credeteci: commuove.

di Diego Capuano ondacinema.it

 

VIDEO

 

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KIKI – Consegne a domicilio (animazione a partire dai 7 anni)

 

KIKI – Consegne a domicilio

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Anno 1989

Durata 102 min

Genere animazione

Regia Hayao Miyazaki

INDICE

– Trama

– recensioni

– Video
 

TRAMA

« Il sangue della strega, il sangue del pittore, il sangue del panettiere… Come dei poteri donatici da Dio o chi per lui, ma per questi doni possiamo anche soffrire… »
(Ursula)

Kiki è una giovane strega che come da tradizione, compiuti i 13 anni parte da casa sulla sua scopa in compagnia soltanto di Jiji, il suo gatto nero, per l’anno di noviziato da svolgere in un’altra città. Dopo aver superato una tempesta ed aver incontrato un’altra giovane strega ormai al termine del suo tirocinio, Kiki raggiunge una caratteristica cittadina di mare, meta prefissata nell’immaginario della ragazzina fin dalla sua partenza.

Le prime esperienze in città, per lei che dopotutto è una ragazza di campagna, non sono però positive e Kiki, scossa dall’accoglienza piuttosto fredda e deludente del luogo, si rende conto che forse aveva fin troppo idealizzato quell’avventura tanto attesa da piccola e che probabilmente quella città non era il posto giusto in cui fermarsi. Fortunatamente si imbatte nella gentile Osomo, una giovane fornaia che in cambio di un aiuto nel suo negozio le offre un alloggio in cui abitare. Kiki può finalmente mettere a frutto l’unica arte magica che possiede, quella di saper volare sulla scopa, e apre una piccola attività di consegne volanti di pacchi.

Kiki comincia quindi ad inserirsi nel tessuto della cittadina e impara lentamente a distinguere il lato buono che in fondo c’è in tutte le persone. Durante questa sua lenta maturazione, Kiki è talvolta euforica e talvolta depressa con repentini sbalzi di umore, e ne fa le spese il povero Tombo, un ragazzo di città affascinato dal volo, suo coetaneo e suo primo vero amico, che non sempre riesce a capire il carattere difficile della ragazza.

Un giorno però accade un evento apparentemente inspiegabile: la capacità di volare che Kiki possedeva fin da bambina, sembra svanita. Kiki è disperata e solo allora comincia a rendersi conto di cosa veramente rappresenti l’anno di noviziato: riuscire a trasformare le proprie attitudini e il proprio talento di bambina nell’attività da svolgere da adulti. Qualora avesse fallito, lei non avrebbe avuto più alcun valore. Con l’aiuto di Ursula, una sua amica pittrice, capisce però che la perdita dell’ispirazione o la paura di non essere in grado di svolgere il proprio compito, è una cosa naturale e che solo riuscendo a superare questi momenti di sconforto si può crescere e maturare.

Improvvisamente per televisione viene trasmesso un servizio in diretta: un dirigibile ancorato presso la cittadina ha rotto gli ormeggi a causa del forte vento ed è in balia della tempesta. Kiki si rende conto che il suo amico Tombo era salito proprio su quel dirigibile ed ora era rimasto aggrappato ad una fune fuoribordo. Mentre il dirigibile viaggia senza controllo sui tetti della città, Kiki riesce a superare il blocco psicologico che non le permetteva più di volare e a cavallo di uno spazzolone finalmente si libra nell’aria per salvare il suo amico.

RECENSIONI

Pur non nascondendo mai la sua natura di opera minore nell’ambito del corpus miyazakiano, Kiki – Consegne a domicilio è quantomai indicativo per comprendere le tematiche fondanti della poetica dell’autore nipponico. È spesso dalle opere minori, inclini alle semplificazioni e talvolta allo stereotipo, che si coglie con maggiore esattezza l’essenza di un grande artista e dei suoi topoi: Kiki non fa eccezione in questo senso.
Nella parabola della streghetta dagli umili abiti rivive il consueto viaggio iniziatico di Miyazaki, spesso condotto tra i cieli (in precedenza ne Il castello nel cielo, mentre Porco rosso innalzerà ai massimi livelli il feeling eroico con l’aria) e spesso con una ragazzina come protagonista. Kiki raggiunge la fatidica età di passaggio, quella dei quattordici anni, per abbandonare la dimora natia e scoprire la vecchia Europa, ancora una volta coacervo ideale di stilemi miyazakiani. Modellata su Stoccolma e Lisbona, la città in cui Kiki approda a cavallo della sua scopa volante è il luogo dello smarrimento e dell’emancipazione, in cui l’eroina è da un lato costretta ben presto a una necessaria e dura introspezione, ma può anche sentirsi accettata nonostante la sua diversità; il luogo in cui, attraverso il duro lavoro, conquistare la propria matura autonomia.
Terzo film dello Studio Ghibli e primo successo commerciale – sarà ugualmente il primo ad essere doppiato e distribuito dalla Disney – diretto da Hayao Miyazaki, Kiki mostra il lato più verista del Miyazaki-pensiero, limitando la sfera del magico a un ruolo di contrappunto nel percorso di crescita, totalmente umano, della protagonista. La perdita dei poteri magici, che comporta passaggi anche narrativamente traumatici – Jiji, gatto nero parlante e inseparabile compagno di Kiki, ritorna a essere un gatto qualsiasi, privando il film di un elemento caratterizzante – è del tutto assimilabile, in tutt’altra epoca e contesto, a quella che colpisce in Spider-man 2 il supereroe della Marvel. Pubertà come chiusura di una breve epoca felice di magia e ingresso nel mondo, meno accattivante ma capace di gratificare concretamente, delle responsabilità e dell’autonomia.
Forse è proprio l’eccesso di chiarezza nei segni disseminati da Miyazaki il principale punctum dolens di Kiki – Consegne a domicilio, quello sfiorare l’apologo che ha reso il film un prodotto più esportabile di altre opere del sensei, ma lontano dai vertici – non a caso oscuri ed ermetici, quasi esoterici, nelle loro allegorie – de Il castello errante di Howl o La città incantata. Emanuele Sacchi MyMovie.it

 

Recensione
Piccole streghe crescono
Come ogni strega che si rispetti, compiuti i 13 anni Kiki è chiamata a lasciare la casa dei propri genitori per andarsi a cercare un paese a cui offrire i propri servizi magici. Impacciata e un po’ arruffona, Kiki, oltre che sulla sua forza di volontà e sul supporto del simpatico gatto nero Jiji, potrà contare solo sulla sua capacità di volare sulla scopa, arte magica basilare per tutte le altre streghe. Atterrerà in una città caotica in cui la tradizione stregonesca è molto meno conosciuta e rispettata, ma grazie al buon cuore di una panettiera riuscirà a trovare una stanza e ad aprire una piccola attività di svolazzanti consegne a domicilio. Si nasconde però dietro l’angolo lo spettro della solitudine, delle insicurezze nelle relazioni coi coetanei e, come loro conseguenza, l’indebolirsi dei suoi poteri di stregoneria.Un classico per tutti, ventiquattro anni dopo
Nei cinque anni che oramai ci separano dall’uscita di Ponyo sulla scogliera, a tutt’oggi ultimo film firmato da Hayao Miyazaki, la distribuzione italiana ha fatto ammenda e ha trovato modo di concedere una ritardataria fiducia ai capolavori dello Studio Ghibli, colpevolmente ignorati per decenni (per intendersi, il primo film di Miyazaki distribuito dalle sale italiane è stato, con “soli” tre anni di ritardo, La Principessa Mononoke nel 2000, a 16 anni di distanza da Nausicaa nella Valle del Vento, primo lungometraggio a se stante del grande animatore, che tuttora conta solo alcuni passaggi televisivi). Dopo i recuperi de Il mio vicino Totoro e Porco Rosso, Lucky Red tributa il meritato esordio in sala anche a questo film del 1989, tratto da una serie di racconti giapponesi per ragazze ma rivoluzionato in fase di sceneggiatura, guadagnando la consueta innervatura tematica dello Studio Ghibli, fatta di sognanti malinconie nei confronti del mondo rurale e degli elementi naturali, sofferti passaggi all’età adulta e una concezione sfumata e matura del fantastico, utilizzato per indagare gli aspetti intimi dell’esperienza umana e dell’adolescenza in particolare. Kiki, perfetto archetipo di protagonista Miyaziakiana, non dovrà combattere con nemesi o incarnazioni del male, ma più semplicemente con le complessità dell’autodeterminazione e dei rapporti tra esseri umani. I suoi poteri da strega rappresentano la sublimazione fantastica dell’eredità famigliare e delle capacità di cui ognuno dispone, strumenti che bisogna imparare a padroneggiare affacciandosi all’indipendenza, al lavoro e agli approcci con l’altro sesso. Il concetto di volo, unico talento magico e mezzo di sussistenza di Kiki, pervade tematicamente tutto il film e viene investito con naturalezza del valore di metafora dell’appropriarsi della fiducia in se stessi: anche il buffo ammiratore di Kiki ne conquisterà la fiducia per i suoi tentativi cocciuti e appassionati di librarsi in aria, in lotta coi propri sogni e la propria autodeterminazione proprio come la streghetta. Dopo quasi un quarto di secolo, Kiki – Consegne a Domicilio rivela una freschezza inattacabile sotto tutti i suoi aspetti: una trama che conserva la sua portata universale e la capacità di parlare a pubblici di ogni età; tempi comici e drammatici ancora perfettamente funzionanti e coinvolgenti; soprattuto, un tratto limpido ed essenziale che tiene testa anche in spettacolarità ai suoi attuali concorrenti 100% digitali, capace di generare magoni e incanti anche solo con il distendersi di panorami nostalgici, cittadine colorate, coste luccicanti, foreste brulicanti, cieli da attraversare in dirigibile. Li attraverserà nella scena finale anche Kiki, a bordo di uno scopettone, in una prova di amicizia e fiducia in se stessa che decreterà una volta per tutte la sua appartenenza alla città che ha scelto e al suo avvenire da strega. Insomma, Benedetto sia l’Oscar a La città incantata e tutto quello che ne è scaturito negli anni seguenti in termini di valorizzazione dei lavori dello Studio Ghibli. La scoperta tardiva da parte della distribuzione di un’opera semplice e magistrale è l’occasione di regalarci e di regalare ai più piccoli un’esperienza visiva ed emotiva che il passare del tempo sembravano averci negato. Alfonso Mastrantonio – del 24/04/2013
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KIKI Consegne a domicilio – Jiji, aiutante gatto

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KIKI Consegne a domicilio – Una nuova casa

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