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Julietta

Risultati immagini per julieta filmUn film di Pedro Almodóvar – Titolo originale Silencio –

Drammatico, Ratings: Kids+13 – durata 99 min. – Spagna 2016.

INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. TRAILER

 

 

 

1) TRAMA
La protagonista del film è Julieta, una professoressa di mezza età che, dopo aver compiuto cinquantacinque anni, decide di scrivere una confessione autobiografica dei suoi ultimi trent’anni di vita. Un compito oneroso, ma con un nobile fine: quello di recapitare questo testo a sua figlia Antia, scappata quando aveva diciotto anni dal nido materno, e farle così conoscere la verità su sua madre, raccontarle tutto quello che – in 12 anni di silenzio – non è stato possibile condividere.

 

2) RECENSIONI

JULIETA DI PEDRO ALMODÓVAR

Pedro è tornato. Tornato al Suo cinema, alle donne, al dramma, ai sentimenti, al destino, alla colpa, ai figli, alle madri. Tornato a Tutto su mia madre, a Volver, a un mondo dove il décor è il racconto e il racconto è l’anima della messa in scena.
Tutto è misura in Julieta, non meccanicità ma misura. Il dramma si costruisce, si articola nel tempo, nel suo racconto in flashback, nelle tappe che lo fanno avanzare mentre emerge dal passato fino a oggi attraverso gli ambienti, gli abiti, gli oggetti. Senza mai spingersi un millimetro più in là del punto in cui fermarsi è la scelta giusta. Perfino al di qua della lacrima, dell’incontro, della conciliazione, del confronto.

Un dramma che si fonda nel silenzio, nel rifiuto della parola, non può che trovare compimento nel suo stesso dire, senza bisogno di altro.

La vita di Julieta inizia su un treno proprio nel momento in cui rifiuta di parlare a un uomo che sembra molestarla. Quell’uomo, dopo pochi istanti, si suicida segnando per sempre con il marchio della colpa l’esistenza della donna. Quella stessa notte, su quello stesso treno, Julieta conosce però anche l’uomo della sua vita e concepisce sua figlia. Che il destino le farà perdere nuovamente, entrambi, nel silenzio di un confronto rifuggito.

Quando Julieta individua come unica possibilità di uscire dalla colpa il ripercorrere la propria esistenza, capisce che l’unico modo è cercare, finalmente, di raccontare la sua storia e i segreti custoditi dal silenzio.

Abbandona la casa bianca in cui i ricordi sono stati rimossi, sostituiti dalla fredda pulizia della somma di tutti colori e torna alla complessità della carta da parati. Girali e arabeschi che invadono lo spazio e si alternano a colori densi pieni dei segni del tempo e del peso della memoria. Questo è lo sfondo che Julieta sceglie per riprendere la sua vita in mano scrivendo seduta all’unico mobile che occupa l’ultima delle case della sua vita. Quella scelta per raccontare, replica vuota e invecchiata dell’appartamento in cui insieme le due cercavano di sopravvivere alla tragedia.

Per la prima volta, come sanno fare le donne del cinema di Almodóvar, come Manuela, come Raimunda, come tante grandi donne del cinema classico, Julieta non subisce più il destino ma fa la sua scelta: rinuncia alla possibilità di una nuova vita fondata sulla rimozione, per ripercorrere e narrare il passato. Senza soluzione. Perché la soluzione è il racconto stesso. Chiara Borroni CINEFORUM.IT

 


Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda

Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l’uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L’incontro casuale con Beatriz, amica d’infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c’è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l’illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l’autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l’afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un’ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell’Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L’una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l’altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e ‘giudicata’ tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall’uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all’avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all’eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno ‘delitto’ e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l’amore per scongiurare la morte, da Matador l’autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l’impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della ‘prima moglie’ che piomba sul dramma l’ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.

Marzia Gandolfi MYMOVIE

 

 

3)VIDEO

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Il passato

il passato

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Il passato

Un film di Asghar Farhadi.

Con Bérénice Bejo, Tahar Rahim,

 Titolo originale Le passé.
Drammatico, durata 130 min. –
Francia, Italia 2013. –
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RECENSIONE
mymovies, Giancarlo Zappoli

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma.
Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti.
Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa.
Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.

(clicca sopra)
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TRAILER

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Monsieur Lazhar (Falardeau 2011)

Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau.

Titolo originale

Bachir LazharDrammatico, 

durata 94 min. –

Canada 2011. –

Officine Ubu uscita venerdì 31 agosto 2012. 

 

 

INDICE

trama

Recensioni

– Vivere con un fardello

– L’elaborazione del lutto

Trailer

 

 

Trama
Bachir Lazhar, immigrato a Montréal dall’Algeria, si presenta un giorno per il posto di sostituto insegnante in una classe sconvolta dalla sparizione macabra e improvvisa della maestra. E non è un caso se Bachir ha fatto letteralmente carte false per avere quel posto: anche nel suo passato c’è un lutto terribile, con il quale, da solo, non riesce a fare i conti. Malgrado il divario culturale che lo separa dai suoi alunni, Bachir impara ad amarli e a farsi amare e l’anno scolastico si trasforma in un’elaborazione comune del dolore e della perdita e in una riscoperta del valore dei legami e dell’incontro.
Il film è un racconto semplice, sia dal punto di vista della struttura che dell’estetica, assolutamente naturalistica, ma suscita emozioni forti perché sembra uscito da un passato più autentico, incarnato dal personaggio del titolo, che delle nuove locuzioni per l’analisi logica non sa nulla ma conosce la sostanza, quella che non muta. Un passato, soprattutto, in cui l’insegnamento era anche iniziazione e cioè trasmissione di una passione prima che di un sapere e in cui l’abbraccio tra maestro e bambino, così come lo scappellotto, non era proibito ma faceva parte di un relazione profonda, che non poteva non contemplare anche le manifestazioni fisiche. Monsieur Lazhar è dunque un film commovente, non pietistico né moraleggiante, che riflette sulla perdita ma fa riflettere anche noi su cosa ci siamo persi per strada.
Le istanze sociali, quali il rischio di espulsione del maestro dal paese o la solitudine famigliare di molti bambini, contribuiscono al clima del film ma non sgomitano per emergere là dove non servono. Il cuore del film resta la relazione tra i bambini –Alice (Sophie Nelisse) in particolare- e il maestro, ovvero l’incontro con l’altro, la scoperta reciproca delle storie personali che stanno dietro un nome e un cognome sul registro, da una parte e dall’altra della cattedra. È questa simmetria, infatti, che, se inizialmente può suonare un po’ meccanica, diviene poi responsabile della forza e della bellezza del film, specie perché il regista e sceneggiatore Philippe Falardeau non pone tanto l’adulto al livello dei bambini quanto il contrario. Posti di fronte alla necessità di superare un trauma che alla loro età non era previsto che si trovassero sulla strada, gli alunni di Bachir sperimentano il senso di colpa, la depressione e la paura esattamente come accade all’uomo, nel suo intimo.
Insegnando ai bambini e a se stesso a non scappare dalla morte, Lazhar (si) restituisce la vita. (Cappi mymovies.it)

 

Recensioni

Vivere con un fardello
In una Montreal di incolore luminosità, una giovane insegnante si suicida nella sua classe. Panico fra colleghi, dirigenti, genitori. Mentre si cerca di tornare alla normalità e di fronteggiare i possibili danni riportati dai bambini, alla Preside in crisi si presenta Monsieur Lazhar, un garbato signore sulla cinquantina, di origine algerina e dal francese impeccabile, proponendosi come sostituto per la classe colpita dal lutto. Ha i suoi metodi, un po’ particolari, e se trova sintonia con alcuni alunni e colleghi, con altri il rapporto genera frizioni, mettendolo in rotta di collisione con l’autorità scolastica. Lazhar del resto sotto la scorza affabile anche se riservata, nasconde la sua tragedia personale: è infatti un sans papier ancora in attesa che la sua posizione di rifugiato politico sia accettata, dopo essere fuggito dall’Algeria dove sono morte la moglie e le due figlie, in seguito a un attentato durante la lunga guerra civile che è costata al paese migliaia di morti.

Inoltre non è nemmeno un insegnante, solo un uomo colto e sensibile, che sta cercando di sopravvivere con i pochi strumenti a sua disposizione. Monsieur Lazhar è un bellissimo esempio di film che, senza comporre manifesti, senza enunciare tesi, riesce a comunicare svariate sensazioni e riflessioni (e a commuovere), sorprendendo quasi lo spettatore per l’intensità della sua reazione. Il tema dominante è quello del dolore, dell’elaborazione del lutto, da parte degli adulti, ma soprattutto da parte dei bambini, dei quali il film traccia alcuni ritratti di grande delicatezza. Amore è protezione. Ma quando non funziona? Non sarà con ipocrite menzogne né con rigide regole formali (come se l’elaborazione del lutto passasse attraverso una serie di istruzioni per l’uso) che gli adulti calmeranno il tumulto nei cuori dei loro figli. Monsieur Lazhar ci prova con metodi dettati dalla sua umanità, forgiata dai fatti tragici della sua esistenza, che naturalmente finiscono per cozzare contro il formalismo con il quale autorità e famiglie si affannano a “proteggere” i bambini, ma soprattutto se stessi, dalla responsabilità di spiegare, di far accettare. Quando si può parlare a un bambino come a un adulto, qual è quel momento che si tende sempre a rimandare, lasciandoli nel frattempo soli nel guado tragico di certi eventi? Così che gli adulti genitori sono ben contenti di scaricare sugli adulti “stipendiati” quello che dovrebbe essere un loro compito. Ma guai a uscire dalle regole. E così con un sottile parallelo, altrettanto difficile sarà la comunicazione della tragedia più intima di un emigrato con l’algida e impersonale burocrazia che dovrebbe accettarlo, proteggerlo. La sceneggiatura infatti descrive con pochi tocchi efficaci anche i rapporti fra gli adulti, fra Lazhar e il resto del mondo, un mondo dove il “politicamente corretto” sta diventando un ostacolo alla reciproca conoscenza e comprensione, dove la discrezione è scusa per evitare coinvolgimenti. In un mondo fondamentalmente chiuso e cattivo, c’è ancora la possibilità che la semplice bontà, la generosità d’animo, facciano la differenza? Presentato a Locarno con gran successo l’anno scorso, il film, diretto daPhilippe Falardeu, è pronto per raccogliere soddisfazioni ai Golden Globe e anche agli Oscar. Grandi interpreti, fra gli adulti e i ragazzini. Si impone la bravura del protagonista Mohamed Fellag, attore e scrittore algerino, già interprete del lavoro teatrale di Evelyne de la Chenelière da cui è tratto il film. Ma vanno segnalati anche i due giovanissimi protagonisti Sophie Nélisse e Émilien Néron. Monsieur Lazhar racchiude fra un inizio e una fine di rara, toccante efficacia una vicenda che resterà nel ricordo dello spettatore più sensibile. (Molteni moviesushi.it)
l’elaborazione del lutto

Fu Elizabeth Kübler Ross a trattare, nel 1970, il sistema di elaborazione del lutto attraverso le cinque fasi del dolore. Philippe Falardeau eredita il modello per portare al cinema il romanzoBachir Lazhar di Evelyne De La Chenelière che tenta di descrivere la parabola di crescita emotiva di un gruppo di studenti sulla soglia dell’esistenza, testimoni di un gesto estremo, egoistico e plateale, che rimane sospeso nel regno dell’incomprensibile. Candidato ai premi Oscar come miglior film straniero, Monsieur Lazhar è la vicenda dell’evoluzione di esseri umani per troppo tempo intrappolati nel proprio corpo e nel proprio status, in una sorta di dimensione di mezzo: una situazione pericolosamente simile a quella della crisalide raccontata da Balzac prima, e poi dallo stesso Lazhar.In una scuola del Canada francese, il piccolo Simon (Émilien Néron) si reca in aula con un cesto di latte. Trovando la porta chiusa, il ragazzino spia dal vetro: lo scenario che si apre davanti ai suoi occhi è sconcertante. Il corpo di Martine, l’insegnante tanto amata dalla classe, pende con un cappio stretto al collo. Il suicidio della docente spinge l’intero consiglio scolastico a fronteggiare il lutto del gruppo di bambini traumatizzati. Seguendo le direttive del ministero, la preside (Danielle Proulx) decide di affiancare una psicologa alla classe e, nel frattempo, assume Bachir Lazhar (Mohamed Fellag), che si offre volontario per prendere il posto di Martine. Cittadino clandestino scappato dall’Algeria, Bachir si improvvisa maestro e, nel tentativo di salvare il proprio posto di lavoro, finirà con l’affezionarsi alla classe, in particolar modo ad Alice (Sophie Nélisse), bambina molto matura che, a differenza dei compagni, è l’unica a parlare apertamente del suicidio di Martine e delle ferite che il tragico evento ha lasciato nella sua giovane anima.È la negazione la prima reazione dell’essere umano di fronte alla perdita di una persona cara; proprio il rifiuto della tragedia avvenuta nell’aula scolastica spinge la politicamente corretta signora Vaillancourt a stendere un velo di silenzi sull’improvvisa scomparsa dell’insegnante. Una morte che il regista Falardelau mostra solo per brevi istanti, quasi carezzando e rifuggendo l’immagine statica di una vita che si spegne e che, nel frattempo, rimane impressa negli occhi di un bambino. Su questa sequenza fuggevole e al tempo stesso impossibile da dimenticare si basa tutta la drammaturgia di Monsieur Lazhar, pellicola che si fa forte di una sceneggiatura saldamente ancorata a un’idea coraggiosa e ben sviluppata, che fa emergere i personaggi senza bisogno di rincorrere facili artifizi. Descritta in pochi, eccelsi minuti di cinema, la morte di Martine è una presenza che emerge grazie ad un forte senso di assenza: di spiegazioni razionali, di capacità di elaborare il lutto, di comunicazione volta a superare il trauma. E che grava sulla mente dei bambini, costretti giorno dopo giorno a rientrare nel teatro della tragedia, a vivere nel luogo della non-vita. In questo senso Falardelau dimostra una magistrale capacità di raccontare una storia non solo attraverso la trama, ma tramite un uso consapevole del mezzo cinematografico snudato da artifizi inconsistenti, che mostra la crudeltà di un mondo pieno di indifferenza, dove i bambini spesso vengono lasciati in balìa di se stessi.Grazie ad una messa in scena asettica come l’aula in cui si svolge gran parte della diegesi,Monsieur Lazhar commuove e affascina per la sua disarmante semplicità nel descrivere la quotidianità della società contemporanea. Attraverso la dialettica maestro-alunni, il regista racconta la disperata ricerca dei piccoli protagonisti di una valvola di sfogo. Trattati con condiscendenza, come se non capissero quello che accade intorno a loro, i bambini rincorrono al contrario un modo per esprimere il proprio lutto e, insieme, il proprio trauma. Bachir Lazhar è l’unico disposto ad offrir loro quello di cui hanno veramente bisogno: maestro improvvisato per scacciare i propri fantasmi personali, l’insegnante algerino non rimane veicolato ad alcuna circolare ministeriale e si rapporta con i propri alunni attraverso un atteggiamento quasi paritario, pur non rinunciando alla propria posizione di autorevolezza. Eppure anche questa autorità alla fine decade, nella struggente scena finale, dove alunno e insegnante si fondono, in un continuo e reciproco arricchimento. Forte di un ottimo cast capitanato dall’eccelso Mohamed Fellag, Monsieur Lazhar è un film che parla alle corde più intime di un’umanità da sempre spaventata dall’idea della morte e del suo superamento. Senza retorica o clichè, il film di Falardeau è il ritratto sentito di un’infanzia violata, che trova nella cultura e nella comunicazione l’unico modo per sperare in un domani in cui la crisalide della favola possa dispiegare le ali di una splendida farfalla. ( Pomella silenzio-in-sala.com)

Trailer

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Cosa dico ai miei figli?

21_Cosa_dico

 

 

Cosa dire, come comportarsi con un bambino, un adolescente, quando il malato di tumore è la madre o il padre?

Come comportarsi nella vita quotidiana?

Quanto è giusto che il bambino sappia, soprattutto quando la malattia non sembra rispondere al trattamento, o peggio, si ha la certezza del fallimento?

A questa domanda cerca di dare una risposta  il libro COSA DICO AI MIEI FIGLI?  

scaricabile gratuitamente dal sito dell’AIMaC  Associazione Italiana Malati di Cancro.

 

 

 

Tratto dal libro (leggi tutti il libro sul sito AIMaC):

Perché è utile informare i bambini

  • I bambini hanno il diritto di conoscere tutto ciò che accade in famiglia, quindi anche di sapere che il padre o la madre ha una malattia seria come un tumore. Tenerli all’oscuro è una mancanza di fiducia nei loro confronti.
  • I bambini riescono ad intuire che qualcosa non va in famiglia. Tacere per proteggerli potrebbe indurli a sviluppare paure peggiori della realtà e a pensare che ciò sia un argomento troppo drammatico da affrontare. I bambini tollerano meglio la verità, anche se dolorosa, piuttosto che l’ansia derivante dall’incertezza del non sapere. Non si può evitare di rattristarli, ma se condividerete con loro i vostri sentimenti e li informerete di ciò che sta accadendo, potrete evitare che si sentano soli nella loro tristezza.
  • I bambini potrebbero venire a sapere la verità da qualcun altro oppure ottenere informazioni errate dalla televisione o da altre fonti.
  • I bambini possono sentirsi isolati se non sono informati. Potrebbero pensare di non essere abbastanza importanti da essere coinvolti in una ‘questione di famiglia’.
  • I bambini percepiscono ciò che succede intorno a loro, anche se non capiscono il vero significato di tali avvenimenti. Per esempio potrebbero pensare: “Mi arrabbiavo con la mamma quando mi diceva di raccogliere i giochi e metterli a posto. Poi si è ammalata. Forse l’ho fatta ammalare io.”
  • I bambini che conoscono la situazione possono contribuire ad allentare la tensione e a creare un clima di autenticità.

Condividere le emozioni e l’impegno della malattia può essere l’occasione per imparare a conoscere i sentimenti e la forza dello spirito umano nei momenti difficili.

IL CASTELLO NEL CIELO (animazione, età dai 6 anni)

Il castello nel cielo
Un film di Hayao Miyazaki. Titolo originale Tenku no shiro Rapyuta. Animazione, Ratings: Kids, durata 124 min. – Giappone 1986.

Indice: TramaRecensioniTrailer

Trama

La storia inizia con una bambina, Sheeta, che, per scappare da un gruppo di pirati intenzionati a catturarla, scivola dalla sua aeronave e cade dal cielo su un villaggio. Durante la caduta una misteriosa luce avvolge la piccola, che improvvisamente inizia a galleggiare nell’aria, fino ad atterrare dolcemente nelle braccia di un ragazzo orfano, Pazu, di ritorno alla fine del suo turno in miniera.

Dopo averla soccorsa, Pazu la porta nella sua casa. La mattina, appena svegli i due fanno subito amicizia, e durante la conversazione Pazu scopre che Sheeta è una discendente del popolo di Laputa, un leggendario castello volante che viaggia nel cielo nascosto dalle nuvole da centinaia di anni. In pochi credono alla sua esistenza, ma Pazu ne è convinto grazie al fatto che suo padre, anni addietro fotografò parte della imponente struttura. Pazu racconta che persino nel romanzo I viaggi di Gulliver diJonathan Swift vi è una descrizione del castello. Il ragazzo decide quindi di aiutarla a ritornare nella sua città e insieme intraprendono una lunga avventura, costantemente inseguiti dai pirati e dall’esercito.

Recensioni

Repubblica

Corriere della sera

luckyred

Mereghetti

Trailer

 

 

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L’AMORE CHE RESTA – Restless (Van Sant 2011)

INDICE:
SCHEDA
RECENSIONE
TRAILER

SCHEDA
Un film di Gus Van Sant. Con Henry Hopper, Mia Wasikowska, Ryo Kase, Schuyler Fisk, Jane Adams.
continua»
Titolo originale Restless. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 95 min. – USA2011

TRAMA DEL FILM L’AMORE CHE RESTA:
Annabel Cotton è una bella e dolce malata terminale di cancro che ama intensamente la vita e il mondo della natura. Enoch Brae è un ragazzo che si è isolato dal mondo da quando ha perso i genitori in un incidente. Quando i due si incontrano a una cerimonia funebre, scoprono di condividere molto nella loro personale esperienza del mondo.

USCITA CINEMA: 07/10/2011
REGIA: Gus Van Sant
SCENEGGIATURA: Jason Lew
ATTORI: Mia Wasikowska, Henry Hopper, Schuyler Fisk, Jane Adams, Ryo Kase,Lusia Strus, Chin Han, Jesse Henderson, Victor Morris, Colton Lasater
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Harris Savides
MONTAGGIO: Elliot Graham
MUSICHE: Danny Elfman
PRODUZIONE: Imagine Entertainment
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Pictures Italia
PAESE: USA 2011
GENERE: Drammatico
DURATA: 95 Min
FORMATO: Colore
Sito Ufficiale

SOGGETTO:
Dalla piece teatrale “Of Winter and Water Birds”, di Jason Lew.

RECENSIONE

Il funerale di uno sconosciuto. Due sguardi che si incrociano, incontrano, riconoscono. Quello sorridente, di lei. Quello schivo, di lui. Un incontro fugace, la scintilla che, inaspettatamente, farà sbocciare una storia d’amore. La storia d’amore di una vita, una storia d’amore di tre mesi che si srotola, leggera come il volo di un uccello marino, lungo un malinconico autunno. È questo il tempo che è concesso ad Annabel (Mia Wasikowska) ed Enoch(Henry Hopper), due giovani sedicenni toccati da vicino dalla morte. Alle spalle di lui, la morte dei genitori in un incidente stradale ed un coma di tre mesi. Di fronte a lei, la certezza della morte: cancro, è il verdetto.

Sono questi lo spazio ed il tempo in cui si sviluppaL’amore che resta, ultimo film di Gus Van Sant, il geniale regista di Paranoid Park, Elephant, Milk e Will Hunting.Una dolce, struggente, nostalgica storia d’amore tra due anime perse, che si trovano per accompagnarsi lungo un tratto della propria vita: quella di lei, che ha imparato a sorridere alla vita nonostante l’imminenza della morte, quella di lui, che la fugge, trascorrendola in compagnia di un improbabile amico immaginario, un giovane kamikaze giapponese, che altro non è se non il simbolo dell’accettazione della caducità della vita.

Una storia d’amore, quella tratteggiata da Van Sant, in cui non smette mai di riecheggiare quell’anelito alla vita che illumina il viso di Annabel ogni volta che racconta ad Enoch dei suoi tanto amati uccelli marini. E che spinge il ragazzo, seppur cinicamente arrabbiato e disilluso, a porgere la mano a quell’efebica ragazza che pare non curarsi del poco tempo che le resta. Un film di formazione, anche, L’amore che resta, in cui Enoch, attraverso un percorso difficile, che si concluderà solo con l’ineluttabile perdita di Annabel, riuscirà ad affrontare la vita proprio attraverso l’accettazione della morte. Quella dei suoi genitori, quella della ragazza che tanto intensamente ha amato, quella di se stesso: una morte durata pochi minuti, che gli ha lasciato un’eterna sensazione di nulla.

Un film difficile, anche, L’amore che resta, in cui a rappresentare la malinconica dolcezza di queste due giovani anime perse contribuiscono le tonalità cromatiche dei colori e delle luci: i due personaggi, spesso agghindati con bizzarri, quanto assurdi abiti anni cinquanta, vivono la propria storia in un eterno autunno. E come le foglie, che restano pervicacemente attaccate al proprio ramo, così Annabel ed Enoch attraversano il tramonto della propria vita rimanendo abbracciati l’uno all’altra. In attesa che arrivi l’inverno.

Una storia d’amore romantica e complicata, resa più facile proprio dall’ineluttabilità di un destino che ha già deciso del futuro di Annabel e che ha già lasciato un segno indelebile, una profonda cicatrice nel passato di Enoch. Una sfida persa in partenza, quindi, che nel suo essere contiene insita la soluzione alla vita: vivi quel che c’è, vivilo con tutto te stesso, sembra sussurrare Gus Van Sant attraverso il sorriso di Annabel. Con coraggio, dando tutto te stesso, senza curarti del domani. Perché il domani non è dell’uomo: a lui spetta solo il presente. Un presente che deve essere vissuto. Matteo Trombacco rubric.it

TRAILER

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Il grinta (Coen 2010)

INDICE
SINOSSI
SCHEDA
RECENSIONE
TRAILER

SINOSSI
Un film di Ethan Coen, Joel Coen. Con Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Hailee Steinfeld, Barry Pepper.
continua» Titolo originale True Grit. Western, Ratings: Kids+16, durata 110 min. – USA 2010

Dopo che il padre è stato ucciso da un pistolero di nome Tom Chaney, la 14enne Mattie Ross decide di avere la sua vendetta. Per avere aiuto, assolda il più duro dei Marshall del west, Reuben J. ‘Rooster’ Cogburn, un uomo ruvido e dal carattere difficile che accetta con riluttanza che Mattie lo accompagni nella caccia all’uomo di cui è stato incaricato. A loro si unisce poi un Texas Ranger di nome LaBoeuf, da tempo sulle tracce di Chaney.

SCHEDA

Ispirato alle centosettantacinque pagine del libro di Charles Portis, Il Grinta dei fratelli Coen non è il remake dell’omonimo film di Henry Hathaway interpretato da un autunnale John Wayne. Ambientato in Arkansas e girato tra il New Mexico e il Texas, realizza pienamente le suggestioni western di Non è un paese per vecchi, trattando la vendetta e la giustizia in un interregno sospeso tra barbarie e leggi per garantire un ordine necessario a una rassicurante convivenza civile. Intenzionalmente distanti dall’epica solare e dall’avventura benevola di Hathaway, i registi si misurano direttamente con un classico della letteratura americana, aderendo fedelmente ai dialoghi ma intervenendo significativamente sul tessuto narrativo. Interventi, i loro, che hanno liquidato le divagazioni ed esagerato il separarsi e il ritrovarsi dei protagonisti, enfatizzato la cavalcata finale dello sceriffo Cogburn e convertito il realismo letterario in parentesi surreali (l’atmosfera allucinatoria della galoppata notturna), ridimensionato il ruolo del Texas Ranger LaBoeuf col corrispondente incremento delle qualità ‘grintose’ e battagliere della giovane Mattie Ross, che invoca avvocati e ricorsi legali, impugna pistole e predica il Vecchio Testamento.

Fedele al testo è pure la cornice soggettiva del racconto, dichiarata dalla voce over di Mattie che apre e chiude il film, e la triplice prospettiva portisiana: tre personaggi, tre sguardi e tre caratteri dell’America portatori rispettivamente di uno zelo protestante (Mattie), di uno spirito anarchico (Cogburn) e di un’anima repubblicana (LaBoeuf ).

Il raffinato Grinta dei Coen restituisce al western quella centralità nell’immaginario quotidiano che da troppo tempo non deteneva.

Quarantadue anni dopo Il Grinta di Henry Hathaway, i fratelli Coen recuperano lo sceriffo anarchico e sbronzo di whisky di Charles Portise ne restituiscono una lettura fedele al romanzo e conforme al loro cinema. Jeff Bridges, faccia da duro e modi da duro, impugna il fucile e sfida John Wayne, interprete marmoreo del cinema epico-avventuroso, e il ruolo che gli valse il solo Oscar della carriera e un remake nel 1975 con Katharine Hepburn.

Coinvolti loro malgrado in uno scontro a fuoco mediatico, i contendenti incarnano e portano a termine la stessa avventura: accompagnare la vendetta di un’adolescente protestante e ostinata nella terra indiana di Choctaw, dove si nasconde il pavido assassino di suo padre.

Stessa grinta, stessi peccati, stessi morti sulla coscienza, stessa voglia di whisky, stessa benda nera (ma diverso occhio chiuso), Wayne e Bridges producono sullo schermo una discorde eco emotiva ma esibiscono la medesima natura classica.

Le loro performance distanti per ‘corpo’, tenace e atletico il primo, pigro e gravato il secondo, rivelano tracce di emozioni precedenti e di stagioni cavalcate e differenti del cinema americano, dentro il quale condividono John Huston, la malinconia crepuscolare, lunghi anni di gavetta e lo spirito da ‘fondisti’.

A distinguere le interpretazioni corpose sono piuttosto i film che le comprendono e le svolgono. Se il vecchio maresciallo dell’esercito interpretato da John Wayne era protagonista dell’avventura disneyana e paterna di Hathaway, lo sceriffo bevitore di Jeff Bridges è spettatore ravvicinato di un mistero in gonnella che riuscirà comunque a risolvere, trascinandosi dentro un western sospeso e osservando quello che gli accade intorno per poi dare il colpo di grazia con una cavalcata finale fulminante. (Marzia Gandolfi )

RECENSIONE

Mattie Ross è una quattordicenne fermamente intenzionata a portare dinanzi al giudice, perché venga condannato alla pena capitale, Tom Chaney l’uomo che ha brutalmente assassinato suo padre. Per far ciò ingaggia lo sceriffo Rooster Cogburn non più giovane e alcolizzato ma ritenuto da tutti un uomo duro. Cogburn non vuole la ragazzina tra i piedi ma lei gli si impone. Così come, in un certo qual modo, gli verrà imposta la presenza del ranger texano LaBoeuf. I tre si mettono sulle tracce di Chaney che, nel frattempo, si è unito a una pericolosa banda.

“I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”. Con questo passo dal Libro dei Proverbi si apre il film che rappresenta l’ennesima sfida dei Coen. Questa volta i due registi decidono di confrontarsi al contempo con un genere che hanno (seppure a modo loro) già esplorato (il western) e con un’icona del cinema di nome John Wayne. Non era un’impresa facile realizzare un remake del film di Henry Hathaway che fece vincere l’Oscar al suo protagonista. Ma, come sempre, i Coen riescono a costruire un’opera totalmente personale pur rispettando (più dell’originale) lo spirito del romanzo di Charles Portis a cui la sceneggiatura si ispira.
Già la citazione biblica ne è un segno. Mattie è spinta a cercare giustizia da un carattere assolutamente determinato e lontano dall’iconografia della donna del West (Calamity Jane, Vienna/Joan Crawford e pochi altri esempi a parte) ma anche da un fondamentalismo che ha radici religiose. I Coen eliminano visivamente il prologo proponendo la vicenda come un flashback della memoria della donna Mattie. Una donna divenuta troppo precocemente tale perché nata in un mondo in cui dominano l’ignoranza (“Mia madre sa a malapena fare lo spelling della parola cat”) e la morte.
È un film sul distacco, sulla perdita, sulla separazione Il Grinta. Mattie non bacerà il cadavere del padre (per quanto sollecitata) ma assisterà all’impiccagione di tre condannati due dei quali potranno esprimere il loro pentimento o la loro rabbia. Il terzo non potrà farlo: è un nativo pellerossa. La stessa Mattie però dormirà nella stanza mortuaria accanto ai cadaveri degli impiccati. Da quel momento avrà inizio un lungo percorso in cui Rooster Cogburn, detto Il Grinta, sarà una sorta di disincantato ma al contempo dolente Virgilio pronto a raccontare di sé e del suo confronto quotidiano con una morte inferta o subita. Mattie lo vedrà per la prima volta non mentre arriva in città con i malfattori catturati (come nel film del 1969) ma emergere progressivamente alla visione mentre in tribunale gli viene chiesto conto degli omicidi (a favore della Legge certo ma sempre omicidi) compiuti. Jeff Bridges è perfetto nel rendere quasi tangibile questa figura di uomo della frontiera cinematograficamente in bilico tra la classicità e lo spaghetti-western.
Si lascia The Duke Wayne alle spalle e affronta un viaggio in un genere destinato a proporre, incontro dopo incontro e scontro dopo scontro, una riflessione su un modo di concepire il confronto sociale non poi troppo distante da quello in atto in questi nostri difficili tempi. Perché, non dimentichiamolo, anche il più apparentemente astratto film dei Coen morde sempre (e con grande lucidità) sul presente. (Giancarlo Zappoli )

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This is England (Meadows, 2006)

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SCENA FINALE

SINOSSI
Luglio 1983. Shaun ha 12 dodici anni, vive con sua mamma, suo padre è morto nella guerra delle Falkland. A scuola è vittima del bullismo ed è considerato da tutti un perdente, proprio in questo periodo turbolento, Shaun si trova sempre più isolato dal resto dei giovani ragazzi e passa le giornate alla spiaggia praticamente solo. Dopo l’ennesimo litigio a scuola, dovuto al suo abbigliamento da sfigato con i pantaloni a zampa di elefante, Shaun incontra un gruppo di skinheads che sembrano non curarsi dei suoi vestiti. Grazie a loro troverà degli amici veri che lo faranno sentire parte di qualcosa e il coraggio che gli è sempre mancato, riuscendo a respingere la timidezza per conoscere Smell, una ragazza più grande di lui.

Il gruppo è molto coeso nonostante sia formato da ragazzi e ragazze appartenenti a diverse sottoculture del periodo. Il gruppo è formato da Woody (skinhead), Lol (skingirl/sort), Smell (new romantic), Gadget (skinhead), Milky (skinhead original), Pukey (street skinhead), Kelly (skingirl), Pob (rude girl), Meggy (herbert) e Trev (skingirl).

Durante una festa a casa di Gadget, torna in città Combo, che è stato in prigione per 3 anni, per riprendersi il posto di capo banda portandosi dietro Banjo, un suo compagno di galera; purtroppo quando era dentro Combo ha frequentato alcuni naziskinheads che lo hanno convinto ad accogliere l’idea razzista e nazionalista del National Front inglese. Combo inizia immediatamente ad istigare i giovani del gruppo al razzismo dando brevi lezioni di vita e pronunciando discorsi sulla supremazia dei bianchi rispetto agli altri popoli, specialmente i neri. Milky, di origine giamaicana, si sente offeso e questo porta alla divisione del gruppo, nonostante i tentativi di Lol e Woody di mantenere uniti gli amici cercando di allontanare alcuni di loro, i più giovani soprattutto, dalle ideologie nazionaliste di Combo.

Una volta diviso il gruppo, Combo inizia l’indottrinamento di Shaun seguito da Gadget, Banjo, Meggy e Pukey. Quest’ultimo, dopo un discorso tenuto da un rappresentante del National Front, ha un violento diverbio con Combo a causa della sua impossibilità a condividere idee razziste. Quindi Pukey abbandona il gruppo di Naziskinheads tornando tra i vecchi amici.

Ma Combo non demorde, oltre a riappropriarsi della leadership degli skinhead cittadini vuole riavere il suo vecchio amore, Lol, che dopo la carcerazione di Combo è diventata la fidanzata di Woody. Nel frattempo Combo organizza anche dei raid contro gli immigrati, pakistani in particolare. La vita di Combo crolla dopo l’ennesimo rifiuto di Lol, invita tutti i suoi amici e poi con lo stratagemma di voler comprare della marijuana da Milky lo fa entrare in casa sua. Qui Combo capisce che la sua vita è un totale fallimento, soprattutto dopo che Milky gli descrive il suo rapporto coi familiari e le feste passate in famiglia. Combo perde la testa, aggredisce brutalmente Milky e lo riduce in fin di vita. Nella stessa occasione picchia anche il suo compare Banjo e caccia in malo modo Meggy, Smell, Gadget. L’unico che rimane nell’appartamento è il piccolo Shaun, che assiste a tutta la scena in lacrime.

In seguito vediamo la madre che rincuora Shaun sulle condizioni di Milky, fortunatamente non morto. Le immagini alla TV fanno intuire la fine della guerra delle Falkland. Shaun torna sulla spiaggia dove passava i pomeriggi da solo e getta nel mare la bandiera con la Croce di San Giorgio regalatagli da Combo.

SCHEDA
Il film descrive a meraviglia la sociologia di gruppo fra giovani marginali assistiti dal welfare inglese, senz’ombra di futuro. Ognuno, anche in questi gruppi che sembrano contrastare programmaticamente la fissità gerarchica della cosiddetta società borghese, ha una sua collocazione ed un suo ruolo ben preciso e non derogabile. C’è l’aggressivo mitomane, il testimone che segue comunque la maggioranza, l’astenico, la vittima, il ciccione. Le ragazze del gruppo sono sempre in seconda fila. Non partecipano ai giochi ma si limitano a vederli. Hanno la fissità inespressiva delle bambole di plastica.

A loro modo, sono pure dei bravi ragazzi (anche se questa valutazione può sembrare sorprendente; ma non per chi ha visto questo film). Il merito del regista è appunto quello di non avere costruito un film a tesi ma di aver realizzato il ritratto fedele di un tempo e di un gruppo. L’uno e l’altro, avvicinati con stupore e voglia di ritrarre, senza giudizi di merito, se non molto impliciti. Questo è un film per capire, non per giudicare.

In ogni caso, tutti (anche quelli che, nel gruppo, fanno un grande casino) sono degli sconfitti. Alcuni si rifugiano nel razzismo e nel nazionalismo. Ma anche queste sono stampelle che, oltretutto, non convincono tutti. Il collante di tutta la storia, l’unico che, nella sua apparente innocenza, può permettersi di infrangere le regole di questi sregolati ed attraversare i recinti che separano i vari componenti del gruppo, è il ragazzino che, recitando, esprime paura, coraggio, lucidità, aggressività e sottomissione. Una gamma di sentimenti amplissima, riflessa in un viso improbabile e, tutto sommato, anche inespressivo perché fisso. Il ragazzino infatti recita con i suoi occhi mobilissimi che si agitano in una faccia immobile che sembra essere quella di un manichino.

La vicenda si snoda su immagini sfocate di cronaca di quegli anni, rese con un color pastello sbiadito e sottolineate da una colonna sonora con le calde canzoni di quel tempo e con le improvvise e sconvolgente vibrazioni, fatte con poche note, estratte da chitarre pizzicate che emettono suoni appuntiti e roventi che ti entrano nel fisico, prima ancora che nella testa. di Pierluigi Magnaschi

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SCENA FINALE

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Dopo il matrimonio (Bier, 2006)

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SINOSSI
Da molti anni il danese Jacob lavora in India come volontario in un orfanotrofio che rischia di chiudere per difficoltà finanziarie, quando riceve da Jörge, milionario suo compatriota, la promessa di 4 milioni di euro a condizione di incontrarlo personalmente alla vigilia del matrimonio di sua figlia. Perché? Perplesso, Jacob accetta l’invito.

SCHEDA
Quando Jakob, che in India dirige un orfanotrofio sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, riceve dalla natia Danimarca una generosa proposta di aiuto con l’unica clausola di un viaggio in patria, non può certo rifiutare. Ma una volta a Copenhagen le cose si complicano. Partecipando alle nozze della figlia del misterioso benefattore, infatti, Jakob reincontra la sua fidanzata di un tempo, che è poi la madre della sposa. E mentre Jakob viene posto di fronte ad una scelta dolorosa (accettare la donazione e rimanere in Danimarca ad amministrarla oppure rifiutarla e veder chiudere la sua opera benefica), un segreto che riguarda il passato (e uno che getta un ombra sul futuro) costringe tutti i personaggi a fare i conti con sé stessi e a riscoprire i legami che li uniscono.

Quando al matrimonio del titolo la sposa si alza per fare un brindisi e la madre si inquieta per le possibili rivelazioni, lo spettatore potrebbe temere di trovarsi di fronte all’ennesimo film danese pronto a gettare una palata di terra sulle istituzioni familiari o a mostrarne la corrotta natura tra morbosità e desiderio di vendetta. Invece, per una volta, anche se dietro al ritrovarsi di due amanti di un tempo c’è un segreto e il protagonista è costretto a mettere a nudo sé stesso prima di poter giungere alla fine del suo percorso, la regista Susanne Bier (Non desiderare la donna d’altri), coadiuvata dallo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (autore anche de Le mele di Adamo) decide di raccontare una vicenda in cui i legami familiari escono rafforzati dalla prova del dolore, della verità e della morte.

Costretto a scegliere tra un’astratta benché benintenzionata forma di carità (che non a caso ha più volte conosciuto il fallimento) e il concreto bisogno del suo prossimo, il protagonista viene messo di fronte alla necessità di esercitare una forma di amore molto più stringente e difficile.

Allo stesso tempo il suo «antagonista», il ricco uomo d’affari Jorgen, affronta un percorso altrettanto doloroso, che lo porta a spogliarsi di tutto prima di affrontare la morte. Anche lui, tuttavia, prima della fine, deve ritrovare la certezza dell’amore dei suoi cari, che forse si era appannata nella preoccupazione e nel desiderio di «mettere tutto a posto».

È un insolito gruppo di personaggi quello che popola la pellicola della Bier, per certi versi segnati da un passato di dolore che sembra destinato a ripetersi, per altri fortunatamente non determinati da esso, ma messi di fronte a una seconda possibilità che si fonda sull’amore e sul riconoscimento delle proprie responsabilità. Fa piacere per una volta che la famiglia, lungi dall’essere rappresentata come luogo di corruzione e disperazione, sia vista come possibilità di realizzazione e compimento, anche quando nella vita entrano il dolore, il tradimento e infine la morte.

Manca, è vero, un ultimo salto di qualità che permetta di andare oltre l’immanenza di una laica carità per aprirsi a una dimensione soprannaturale, ma resta apprezzabile la volontà di indicare una positività umana fondata sulla solidarietà reciproca, sull’apertura all’altro e sul perdono.

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