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Father and Son

Father and Son

di Hirokazu Koreeda. Drammatico, durata 120 min. – Giappone 2013. -italia aprile 2014

father

INDICE:

  1. Trama
  2. recensione : Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
  3. recensione: il senso della paternità
  4. Trailer

Trama

Un giorno, Nonomiya Ryota, uomo ricco ed egoista, riceve una telefonata dall’ospedale in cui gli viene rivelato di non essere il padre biologico di suo figlio, un bambino di sei anni. Infatti, al momento della nascita il piccolo è stato scambiato nella culla con il figlio di un’altra coppia. Ryota e sua moglie, sconvolti dalla notizia, si troveranno di fronte a una difficile scelta: riprendersi il figlio biologico o continuare ad allevare il bambino che hanno cresciuto finora.
Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
Marianna Cappi mymovie.it

Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni?
Il giapponese Kore-Eda conferma le qualità artistiche di cui ha sempre dato prova con questa esplorazione splendidamente misurata di un dilemma che mira dritto al cuore dell’uomo. Con la leggerezza della grande scrittura, l’abilità di costruire un’architettura perfetta nel bilanciare il peso di azioni e reazioni tra i due nuclei familiari coinvolti (il regista ha affermato di essere partito con questo film per un viaggio dentro se stesso, riconoscendosi nelle questioni personali di Ryota, che nella finzione è appunto un architetto) e con un cast in grado di conferire all’opera un valore aggiunto altissimo, Kore-Eda non si lascia mai tentare dal richiamo del melodramma, che è nelle corde del soggetto ma non nelle sue, e mantiene un registro contenuto ma attento ai particolari e ai piccoli incidenti del vivere, nel quale le belle idee sono silenziosamente numerose e nulla è mai di troppo. In particolare, nonostante il film racconti la maturazione di Ryota rispetto al suo essere padre, che passa forzatamente dal suo essere stato figlio a sua volta di un certo padre, sorprende la verità con la quale il regista coglie le reazioni dei due bambini, bloccati tra la fiducia che ripongono nei genitori, la volontà di ottenere la loro ammirazione e il disagio dell’incomprensione.
Non sono poche le barriere culturali che ci impediscono di non trovare mostruoso il comportamento del protagonista o colpevolmente remissivo quello della moglie, ma è il film stesso, probabilmente, ad accrescerli leggermente nella prima parte (come fa d’altronde con la presentazione, quasi in chiave di commedia, delle differenze di comportamento tra le due famiglie) per poi superare le premesse e farsi toccante, nella scoperta del sentimento. E non poteva che essere attraverso uno strumento eminentemente visivo come una macchina fotografica, che Ryota impara che è suo figlio, il suo sguardo e il suo amore, che fanno di lui un padre, non un esercizio di volontà né il gruppo sanguigno.
Father and Son, infine, è anche e soprattutto una riflessione sul tempo, su ciò che crea, che divora, che può e non può mutare.

 

 

 

 il senso della paternità 
Scritto da Yahoo! Notizie

Del cineasta pressoché sconosciuto in Occidente Kore-eda Hirozaku giunge nelle sale italiane dal 3 aprile un ottimo film intitolato “Father And Son”, già vincitore del Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Seppur partendo da un presupposto narrativo che non è certo inedito per il pubblico di casa nostra (tre film molto diversi tra loro ricordano lo scambio tra figli in culla in ospedale al momento della nascita: il comico “Il 7 e e l’8” con Ficarra & Picone, il certo più valido il franco-israeliano “Il figlio dell’altra” e il deludente “I figli della mezzanotte” ), “Father And Son” si merita tutte le attenzioni per la straordinaria sensibilità narrativa attraverso dialoghi e immagini, per l’eccellente costruzione dei personaggi e infine per l’ottima interpretazione del cast. Difficile vedere difetti in quest’opera che, nei suoi 120 minuti di durata, non sembra indugiare mai su una ripetizione inutile o, considerato il tema, su facili sentimentalismi. La storia è quella di un padre, Ryota (Fukuyama Masaharu), architetto di successo e carrierista determinato, ossessionato dall’autoaffermazione e da una certa rigidità educativa nei confronti del piccolo figlio di sei anni Keita. La casa in cui Ryota vive col piccolo e con la moglie Midorino (Ono Machiko) è una sorta di perfetta operazione matematica, le cui cifre sono l’ordine, la disciplina, il benessere. Anaffettivo e razionale, Ryota è convinto che conti la qualità del tempo passato col piccolo, più che la quantità. L’equilibrio della famiglia viene sconvolto dalla notizia che Keita non è il vero figlio di sangue della coppia: per un criminale scambio di pargoli nella culla in ospedale, il vero figlio è finito nella casa di Yudai (Lily Franky), disordinato bottegaio certo non benestante che, con la moglie Yukari (Maki Yoko), alleva tre figli in un modo totalmente opposto a quello di Ryota: tanto affetto, molta istintività. Il progetto dell’ospedale e delle famiglie prevede (per quanto sia difficile da comprendere per noi occidentali…) lo scambio graduale dei figli, frequentandosi nei week end. Ma il problema è che il piccolo Keita si ambienta facilmente nella giocosa casa di Yudai, mentre il figlio naturale di Ryota non ne vuole sapere di adattarsi al regime asettico e militaresco del nuovo papà manager. Conta più il sangue o il tempo passato insieme?
Kore-eda Hirokazu sposa concetti e immagini con grande maestria, contrapponendo spazi differenti (il quartiere popolare della famiglia disordinata, col suo negozio ad altezza strada, opposta al claustrofobico appartamento dei “ricchi”, relegato ad un’altezza da cui si può osservare, ma senza toccare, la brulicante metropoli) e gesti differenti (la postura controllata e la ricerca di comunicazione di Ryota col figlio “attraverso” gli oggetti da una parte, il contatto fisico senza pudore alcuno di Yudai con la propria prole). Il regista e sceneggiatore giapponese riesce anche, in modo mirabile, a raccontarci di un complesso e articolato gruppo di persone, consegnando ad ognuna di esse la giusta attenzione drammaturgica e un profilo umano vero, multidimensionale, nobile e mediocre a un tempo. E contemporaneamente, rende chiaro che il centro della storia, il reale protagonista, è l’anaffettivo padre Ryota: è in lui che deve avvenire la trasformazione interiore, è lui che combatte da solo contro sé stesso e le proprie ferite autobiografiche. Lo sguardo di Kore-eda è di una purezza, di una misura e di un rispetto per i personaggi che poche volte è dato vedere al cinema.
Ferruccio Gattuso

 

TRAILER

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L’impossibile innocenza del lavoro sociale e la contaminazione con la vita

 

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Le professioni di aiuto, per superare il rischio di diventare professioni disabilitanti, sono chiamate a lavorare affinché i destinatari degli interventi – cittadini, famiglie, ragazzi, bambini – non rimangano semplici fruitori delle scelte di operatori ed esperti, ma diventino protagonisti attivi, soggetti che, affrancandosi dalla dipendenza dai servizi, diano vita al proprio racconto personale e sociale.

Una riflessione sul lavoro sociale e su etica e giustizia ad esso connesse per trarre indicazioni operative utili nella definizione dei processi di aiuto.

L’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia ha riconosciuto 10 CREDITI, di cui 5 per la formazione continua e 5 deontologici.
Sono riconosciuti 8 CREDITI ECM per Psicologi, Educatori, Operatori Sanitari.

All’indirizzo http://sulletraccedelsociale.wordpress.com è aperto il blog di discussione dove vengono proposti articoli tratti dalle riviste “Lavoro Sociale ” e “Animazione sociale” e dove i relatori propongono spunti e pensieri per aprire la riflessione e il dibattito sui temi del convegno. Tutti i partecipanti potranno scrivere e confrontarsi.

Per valorizzare l’iniziativa di formazione come occasione di riflessione e di incontro tra gli operatori, per ogni due iscritti di uno stesso Ente, pubblico o del privato sociale, è prevista la partecipazione gratuita di un terzo collaboratore.

Clicca qui per il programma completo

Per informazioni e iscrizioni inviare mail a: formazionecoopcasa@virgilio.it .

Cooperativa Sociale La casa davanti al sole soc. coop. arl
via Cavour, 24 – 21040 Venegono Inferiore (VA)
tel. 0331 864041
www.lacasadavantialsole.org

A Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

hbofamilyA Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

Documentario, durata 41′

Regia diAmy Schatz
Con Rosie O’Donnell, Ziggy Marley, Elizabeth Mitchell

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Le testimonianze di diversi bambini offrono riflessioni toccanti, profonde e spesso divertenti, su cosa significa per loro la famiglia. Tra i bambini, ve ne sono alcuni con situazioni familiari particolari, come chi ha due padri o due madri, una ragazza adottata dai genitori in Cina o tre fratelli che vivono con la madre e la nonna. Alle loro riflessioni si affiancano gli interventi di Rosie O’Donnell (che parla della propria famiglia con la figlia Vivienne Rose) e diversi intermezzi musicali, alcuni dei quali di Ziggy Marley (che canta con la madre e la sorella) e della musicista folk Elizabeth Mitchell (che canta con il marito e la figlia di sette anni).

IL PROGRAMMAZIONE SU LAEFFE

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    LUNEDÌ 1 LUGLIO ALLE 21:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    MERCOLEDÌ 3 LUGLIO ALLE 22:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    SABATO 6 LUGLIO ALLE 20:05

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    DOMENICA 7 LUGLIO ALLE 23:10

Ernest & Celestine (Aubier 2012, )

Ernest & Celestine (2012)

 E’ un film di genere animazione della durata di .

diretto da: Aubier,  Patar, Renner .

Sacher Distribuzione – .

 

 

 

Sinossi

Intervista a Daniel Pennac

Video

 

Sinossi
Questa è la storia di Ernest e Celestine, un orso grande e grosso che sogna di fare l’artista e di una topolina che non vuole fare la dentista.

Nel convenzionale mondo degli orsi, fare amicizia con un topo non è certo cosa ben vista. Nonostante questo, Ernest, un orso che vive ai margini della società facendo il clown e il musicista, accoglie in casa sua la piccola topolina Celestine, orfanella fuggita dal mondo sotterraneo dei roditori. Questi due esseri solitari cercando sostegno e conforto uno nell’altra sfidano le regole dei loro rispettivi mondi e scompigliano così l’ordine stabilito…

Intervista a Daniel Pennac

Il film d’animazione Ernest e Celestine di Stéphane Aubier, Vincent Patar, Benjamin Renner (presentato a Cannes 65 nella sezione  Quinzaine des Réalisateurs, ottenendo una mezione speciale) e sceneggiato dal grande scrittore francese Daniel Pennac che era qui a Roma a presentare il film insieme al doppiatore italiano di Ernest, ossia Claudio Bisio.


L’animazione di questo film ha richiesto più di 4 anni di lavoro, come e quando è stato coinvolto? Lo considera una vacanza dal suo lavoro di scrittore?

 

La storia è lunga, ma ve la faccio breve. Nel 1983 una scrittrice belga, Monique Martan (in arte Gabrielle Vincent), scrisse un libro che mi piacque moltissimo. Così è nata una corrispondenza epistolare durata 10 anni, parlavamo di molte cose, ma non ci siamo mai nè incontrati nè sentiti per telefono.  Poi purtroppo Monique morì e 10 anni dopo i produttori di questo film mi hanno chiamato per scrivere una sceneggiatura tratta dalla serie di Ernest e Celestine scritta ovviamente da lei. Loro pensavano che nemmeno conoscessi queste opere che in fondo in Francia non erano così famose. Io ovviamente ho accettato e ho scritto sia la sceneggiatura che un romanzo che spazia un po’ con questi personaggi.
L’universo tipico di Pennac sembra gettare qualche ombra sui personaggi originali di Gabrielle Vincent, è vero?

Gli originali Ernest e Celestine disegnavano un mondo ideale, attraverso piccoli momenti di quotidianità nella relazione adulto/bambino. Racconti che tra l’altro mi hanno ricordato il mio stesso rapporto con mia figlia. Ma sarebbe stato impossibile trarre un film solo da quei brevi momenti paradisiaci. Io volevo raccontare una storia che raggiungesse quel Paradiso partendo però dall’Inferno per quei personaggi.
Tu Claudio hai già portato a teatro qui in Italia due spettacoli tratti da Pennac, è una felice collaborazione?

 

Bisio: Non solo ho fatto quei due spettacoli, ma conosco interamente e approfonditamente tutta l’opera di Daniel. E concordo che in questo caso la firma di Pennac si sente molto nella differenza culturale tra orsi e topi nel film: la multietnicità è una chiave fondamentale delle sue opere. Ho tentato per tanto tempo di portare al cinema uno dei suoi romanzi, ma non voglio fare il passo più lungo della gamba, sono romanzi molto difficili da immaginare e non si è mai trovata la chiave giusta per una trasposizione soddisfacente. In più so bene quanto lui sia esigente.

 

Pennac: Io ho visto solo 15 minuti di film doppiato in italiano. Ma mi sarebbe piaciuto vederne di più, per apprezzare il lavoro di Claudio. Una volta l’ho ascoltato a teatro su uno dei miei testi, è stato grandissimo! In Francia i doppiatori sono Lambert Wilson e Pauline Brunnier che ha confessato di essere molto affezionata aErnest e Celestine perchè suo padre le leggeva i racconti da piccola prima di andare a dormire.
Il tema della paura entra qui sin dalla primissima sequenza, mi sembra fonadamentale, come l’hai affrontato?

Pennac: La paura è una delle passioni della mia vita. Perchè da scrittore è interessante pensare che le cose peggiori che succedono derivano unicamente da quella. Mi interessa sempre la paura come la passione. Io poi non voglio mai dare dei messaggi, voglio essere me stesso, detesterei un film o un romanzo che si proponesse di demandare un semplice messaggio. Al di là della sceneggiatura che ho scritto che può essere interpretata in vari modi, la bellezza del film sta nella pittura ad acquerello che è magnifica.

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Il ragazzo con la bicicletta ( Dardenne 2011)

di J.Dardenne, L. Dardenne.  Titolo originale Le Gamin Au Vélo., Ratings: Kids+13 , 87 min. – Belgio, Francia, Italia 2011.

 

 

INDICE

1)RECENSIONE: un film sull’affidamento

2)RECENSIONE: RACCONTARE L’INFANZIA INCOMPRESA

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

4)TRAILER – SCENE FILM



1)RECENSIONE: un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore

Cyril, dodici anni, vive in comunità. È alla disperata ricerca del padre che ha cambiato casa e numero di telefono e non si fa vivo da diverso tempo. Non si capacita del fatto che sia sparito nel nulla e non gli abbia nemmeno lasciato la bicicletta cui teneva molto. Gli educatori cercano in tutti i modi di convincerlo a desistere dalla sua ricerca, ma Cyril è testardo, non ascolta nessuno e un giorno scappa dalla comunità per raggiungere in autobus la vecchia casa del genitore e scoprirla ormai disabitata. Quando arrivano anche gli educatori, il ragazzo cerca ancora di fuggire, rifugiandosi in un vicino studio medico. Qui, come ultimo e disperato gesto di resistenza, si aggrappa al corpo di una giovane signora e la abbraccia con tutta la forza che ha.

È in questo primo e provvisorio abbraccio che prende senso e valore l’ultimo film dei fratelli Dardenne. Il Cyril de Il ragazzo con la bicicletta è fratello minore dei tanti adolescenti o giovani che hanno attraversato nel corso degli ultimi quindici anni il cinema dei due registi belgi dall’Igor de La promesse (1996) alla giovane Rosetta (1999), dal Francis de Il figlio(2002) ai poco più grandi Bruno de L’enfant – una storia d’amore (2005) e Lorna de Il matrimonio di Lorna (2008). Con loro condivide l’ostinazione nel perseguire un sogno o un progetto, un’autonomia obbligata da un mondo adulto assente o infantile che lo circonda, il desiderio represso e soffocato di costruire relazioni e affetti, la fatica di sopravvivere a eventi o tragedie inattese, l’accesso quasi inevitabile al mondo della criminalità. A distanziarlo da loro (e a rendere meno cupo il film), giunge però già nelle prime battute della storia questo gesto di improvvisa e gratuita vicinanza con un altro essere umano. Una vicinanza che Cyril non sa ancora elaborare, ma che di fatto diventerà la sua vera ancora di salvezza, la direttrice di senso che lo sosterrà anche nei momenti più difficili. La donna che abbraccia si chiama Samantha, è una parrucchiera senza figli che si dimostra subito attenta alle sorti del ragazzo: riesce a recuperargli la bicicletta, accetta di ospitarlo a casa sua durante i weekend, lo aiuta nella ricerca disperata del padre. Quando finalmente i due trovano il giovane uomo e scoprono che non ha nessuna intenzione di prendersi cura di Cyril è Samantha la persona che sta accanto al dodicenne e assiste all’unico vero sfogo rabbioso del ragazzo, trattenendolo da gesti autolesionisti con un secondo e ancor più significativo abbraccio. La condizione di Cyril non migliora immediatamente, anzi i “quattrocento colpi” che egli, come quasi ogni ragazzo della sua età, è disposto a sperimentare, lo condurranno nelle braccia di un piccolo delinquente e da qui al coinvolgimento in un’arruffata e tragica rapina. E tuttavia, grazie all’intermediazione della donna e al suo modo di porsi non autoritario ma deciso e presente, Cyril troverà qualcuno disposto ad accompagnarlo nei suoi giri in bicicletta e, fuor di metafora, di offrirgli quell’affetto di cui ha bisogno.
Il ragazzo con la bicicletta è insomma un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore da parte di un adulto, un film su una vocazione all’accoglienza e sulla difficoltà di riconoscerla questa accoglienza da parte di chi ha bisogno. Ma è anche un film che riflette su una genitorialità che sembra sempre più allontanarsi dai vincoli di sangue, specie in situazioni di disagio e degrado, di povertà e assenza di prospettive. I Dardenne, da questo punto di vista, proseguono con coerenza e testardaggine – la stessa dei loro personaggi – un discorso sull’essere umano, sulle condizioni di povertà che la società contemporanea gli costruisce attorno e sulle possibilità di riscatto a cui può accedere attraverso un gesto, uno sguardo, un sentimento gratuito. E se in quest’ultimo film si possono riscontrare alcune debolezze sul piano della sceneggiatura e un minor rigore sul piano della rappresentazione visiva (viene meno per esempio l’uso frenetico della camera a spalla, la grana della pellicola è più pastosa segno di un abbandono forse definitivo al 16mm) è altrettanto vero che pochi altri cineasti avrebbero saputo trattare una materia pluricodificata – a partire dal titolo che allude a Ladri di biciclette di De Sica e ad una prima parte del film che ricorda molto il capolavoro di Truffaut I quattrocento colpi – con una certa originalità di tocco e di scrittura. “Affidarsi” ai Dardenne, anche in questo caso, significa mettersi nelle mani di cineasti che intendono indagare il reale e i suoi anfratti più oscuri e drammatici per elevarli a possibili territori di riscatto. Come avveniva nel cinema di Robert Bresson a cui i fratelli belgi sembrano guardare con sempre più sentita adesione.

Marco Dalla Gassa MINORI.IT
2)RECENSIONE:

Raccontare l’infanzia incompresa    

Di Marzia Gandolfi   –    mymovie.it

 

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’Enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore.

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

Autore: Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Dov’era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell’israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall’istituto e una volta fuori, montare sull’unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L’immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l’amore del padre, l’amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l’ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l’unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano. È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L’enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell’estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un’ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s’illumina del sorriso dell’infanzia.

4)TRAILER

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Mi dici che ti prende?

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Miracolo a Le Havre ( Kaurismäki, 2011)

 

 

Miracolo a Le Havre

Un film di Aki Kaurismäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo.

Titolo originale Le Havredurata 93 min

  • Il nuovo film di Aki Kaurismäki, mago finlandese delle emozioni, è una favola dai toni lievi e delicati, che tocca uno degli argomenti più attuali: l’immigrazione. Per noi Le Havre rappresenta solo una cittadina portuale, famosa per i suoi intensi scambi commerciali. Ma per i clandestini è una meta agognata, dalla quale imbarcarsi per l’Inghilterra mediante un piccolo tragitto sulla Manica. Quelle navi merci che per noi sono simbolo di ricchezza e di commercio, per gli immigrati sono un nascondiglio per raggiungere la “terra promessa”. È questa la storia di Idrissa, un ragazzino che arriva dall’Africa, perennemente inseguito dalla polizia e con il grande sogno di ricongiungersi con la famiglia che si trova a Londra. Incontra un angelo custode, l’anziano Michel, un lustrascarpe dall’animo sensibile e artistico, il quale cercherà di aiutarlo in tutti i modi. In Le Havre ci sono i tipici personaggi di Kaurismäki sospesi tra Chaplin, l’estetica degli anni cinquanta, una dimessa eleganza e un’icastica bontà, come già in quel Nuvole in viaggio che nel ’96, con le sue battute glaciali e i colori da modernariato ante litteram, sedusse la Croisette e portò finalmente fuori dalla Finlandia il nome di Kaurismäki. Una favola realistica e ironica, popolata di personaggi ritratti in tutta la loro umanità e i loro sentimenti. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes.
  • La scelta di Kaurismäki fa sì che la riflessione sulla condizione dei minori migranti da lui avanzata si allontani dalle logiche dello spettacolo o dell’intrattenimento fine a se stesso, rinunci alla fatica di confrontarsi da una parte con lo stereotipo dello straniero da abbattere e dall’altra con il dispiegarsi di un fenomeno che il cinema deve certo raccontare, ma che non ha i mezzi per rappresentare in tutta la sua ampiezza e complessità. E sappia collocarsi piuttosto in mezzo o meglio ancora fuori e oltre i discorsi comuni, scegliendo una narrazione che va dritta al cuore dei principi e dei valori, dei diritti e dei bisogni dell’uomo. Quelli che alcuni chiamerebbero “non negoziabili”. Ma la macchina da presa del regista non si prende sul serio, non fa sermoni, non ha verità precostituite. Si accontenta di mettere in scena il miracolo di un concerto rock d’altri tempi, di una guarigione inaspettata, di un ciliegio che fiorisce nel giardino di casa.Marco Dalla Gassa  minori.   Marco Dalla Gassa  minori.it

 

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Valentin (Agresti, 2002)

INDICE
SINOSSI
SCHEDA
TRAILER

SINOSSI
Valentin è un bambino di 9 anni che vive insieme al padre e alla nonna, che ha perso la voglia di vivere dopo la morte del marito. Con la speranza di ritrovare la madre che l’ha abbandonato all’età di tre anni, insieme al suo amico del cuore decide di voler diventare astronauta. Affronteranno insieme una dura preparazione per un’ipotetica spedizione nello spazio. Il film del regista spagnolo Alejandro Agresti, già autore di Una notte con Sabrina Love e che interpreta il ruolo del padre di Valentin, è un’opera fortemente autobiografica che ci fa vedere attraverso gli enormi occhiali del bambino l’Argentina degli anni’60.

Nella Buenos Aires degli anni ’60, Valentin, 8 anni, abbandonato dalla mamma, con un padre (interpretato dal regista stesso) sempre via, vive con una nonna brontolona e pessimista. Valentin è molto solo, sogna di fare l’astronauta e vorrebbe sapere perché sua madre se ne è andata. Fa amicizia con un dirimpettaio pianista che, ascoltandolo, gli si affeziona. Dopo la morte della nonna, Valentin cerca da solo le risposte alle sue domande. Incentrato sul personaggio di un ragazzino molto speciale, interpretato dal piccolo, buffo, bravissimo Noya, accattivante fino all’inverosimile, è una simpatica e commovente tranche de vie raccontata dal punto di vista di un personaggio piccolo piccolo ma incredibilmente forte.

SCHEDA

Un dolce, toccante “viaggio” autobiografico che ha i sapori e i colori di un’età irripetibile, una malinconica rievocazione, un atto d’amore per il cinema visto come mezzo per scavare dentro sé stessi e tirar fuori storie semplici ma in grado di coinvolgere ed emozionare lo spettatore: questo è Valentin, l’ultimo film di Alejandro Agresti, uno dei più importanti cineasti argentini contemporanei (di lui abbiamo potuto vedere la commedia L’ultimo cinema del mondo, del 1998).
Ambientato nella Buenos Aires del 1969, il film segue le vicende del piccolo Valentin, di nove anni, praticamente lasciato solo da una madre che è fuggita quando lui aveva due anni, e da un padre donnaiolo e poco attento, sempre in giro per lavoro o a rincorrere ragazze. Il bambino vive con la nonna, donna malinconica e debole, che è rimasta distrutta dalla perdita, anni orsono, di suo marito. Il piccolo protagonista, pur nell’estrema difficoltà della sua situazione familiare, non rinuncia all’ottimismo, alla fiducia nella possibilità che suo padre trovi la donna giusta, una persona che possa finalmente sostituire quella madre di cui Valentin sente fortemente la mancanza. Così, l’incontro del padre con la bella Leticia, a cui subito il bambino si affeziona, darà nuova linfa alla fiducia di Valentin; ma purtroppo, le cose non saranno così facili come il bambino sperava.

Quello di Agresti è un film che si può senz’altro definire “a misura di bambino”: lo sguardo con il quale seguiamo la vicenda è quello sognante, a volte confuso ma energico e inguaribilmente fiducioso del piccolo protagonista. Il mondo degli adulti appare lontano, poco comprensibile e pieno di piccole meschinità, contrapposto alla realtà “pulita”, ricca di speranza, di piccoli e grandi sogni di Valentin. Il tocco del regista è leggero, il tono, per gran parte del film, è da commedia, la regia si “nasconde” volutamente dietro le quinte di una narrazione che coinvolge in virtù della semplicità e dell’universalità dei temi trattati. La sceneggiatura si caratterizza principalmente per la sua freschezza, e delinea personaggi assolutamente credibili a cui lo spettatore non può fare a meno di affezionarsi. Colpisce l’empatia dimostrata da Valentin verso caratteri ugualmente toccati, feriti dalla solitudine: sua nonna, preda di ricordi che la tormentano, e che a sua volta si appoggia disperatamente al bambino; il pianista Rufo, solitario e malinconico, perso tra notti che sanno di alcool e sigarette, che stabilisce una sorta di affinità elettiva con il piccolo protagonista; Leticia, da subito colpita dall’intelligenza e dalla forza di Valentin, che finisce per affezionarsi al bambino anche al di là della sua relazione con il padre. Un’intrecciarsi di vicende dal quale Valentin esce meglio di tutti, proprio in virtù della sua capacità di reagire alle avversità, di mantenere i sogni anche quando la vita sembra fare di tutto per strapparglieli. E il film, in generale, sembra essere proprio un invito a recuperare lo sguardo semplice e lineare dell’infanzia, unito a quella capacità propria dei bambini di reagire con energia e fiducia anche alle situazioni più difficili. E’ da sottolineare anche che, pur in un film sostanzialmente incentrato sulla sfera privata di un gruppo di persone, non mancano riferimenti all’attualità del periodo, che comunque aiutano a comprendere lo “sfondo” in cui la vicenda si svolge: è da ricordare a questo proposito la sequenza (ispirata ad un episodio reale, ha svelato il regista) della messa in cui il prete cita la figura di Ernesto “Che” Guevara, e la costante presenza di un antisemitismo strisciante, inculcato al giovane protagonista da suo padre, e da cui egli solo alla fine riuscirà a liberarsi.
Gli attori riescono a tratteggiare i personaggi loro affidati in modo eccellente: al giovane Rodrigo Noya, espressivo e pressoché perfetto nel ruolo di Valentin, si affiancano una Carmen Maura credibile e malinconica, a cui la differenza di età con il suo personaggio non ha nuociuto minimamente, e lo stesso regista, efficace e sgradevole come richiesto dal copione, nel ruolo del padre di Valentin (che è poi in realtà il ruolo di suo padre, confesserà Agresti: una parte che a suo dire non è stato piacevole interpretare).

“Meglio tardi che mai”, viene da pensare guardando la data di produzione di questo film (2002), e considerando che si tratta di una pellicola di assoluto valore, un piccolo gioiello che non ha nulla da invidiare alle uscite più blasonate, soprattutto provenienti da oltreoceano, in una stagione che comunque, finora, si è caratterizzata per un livello qualitativo decisamente alto. Cinema che riscopre la sua funzione di narrazione di storie, e che fa della semplicità, unita all’onestà, il mezzo per veicolare emozioni autentiche, che non hanno bisogno di enfasi o artifici per giungere dritte al cuore di chi guarda.

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Dopo il matrimonio (Bier, 2006)

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SINOSSI
Da molti anni il danese Jacob lavora in India come volontario in un orfanotrofio che rischia di chiudere per difficoltà finanziarie, quando riceve da Jörge, milionario suo compatriota, la promessa di 4 milioni di euro a condizione di incontrarlo personalmente alla vigilia del matrimonio di sua figlia. Perché? Perplesso, Jacob accetta l’invito.

SCHEDA
Quando Jakob, che in India dirige un orfanotrofio sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, riceve dalla natia Danimarca una generosa proposta di aiuto con l’unica clausola di un viaggio in patria, non può certo rifiutare. Ma una volta a Copenhagen le cose si complicano. Partecipando alle nozze della figlia del misterioso benefattore, infatti, Jakob reincontra la sua fidanzata di un tempo, che è poi la madre della sposa. E mentre Jakob viene posto di fronte ad una scelta dolorosa (accettare la donazione e rimanere in Danimarca ad amministrarla oppure rifiutarla e veder chiudere la sua opera benefica), un segreto che riguarda il passato (e uno che getta un ombra sul futuro) costringe tutti i personaggi a fare i conti con sé stessi e a riscoprire i legami che li uniscono.

Quando al matrimonio del titolo la sposa si alza per fare un brindisi e la madre si inquieta per le possibili rivelazioni, lo spettatore potrebbe temere di trovarsi di fronte all’ennesimo film danese pronto a gettare una palata di terra sulle istituzioni familiari o a mostrarne la corrotta natura tra morbosità e desiderio di vendetta. Invece, per una volta, anche se dietro al ritrovarsi di due amanti di un tempo c’è un segreto e il protagonista è costretto a mettere a nudo sé stesso prima di poter giungere alla fine del suo percorso, la regista Susanne Bier (Non desiderare la donna d’altri), coadiuvata dallo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (autore anche de Le mele di Adamo) decide di raccontare una vicenda in cui i legami familiari escono rafforzati dalla prova del dolore, della verità e della morte.

Costretto a scegliere tra un’astratta benché benintenzionata forma di carità (che non a caso ha più volte conosciuto il fallimento) e il concreto bisogno del suo prossimo, il protagonista viene messo di fronte alla necessità di esercitare una forma di amore molto più stringente e difficile.

Allo stesso tempo il suo «antagonista», il ricco uomo d’affari Jorgen, affronta un percorso altrettanto doloroso, che lo porta a spogliarsi di tutto prima di affrontare la morte. Anche lui, tuttavia, prima della fine, deve ritrovare la certezza dell’amore dei suoi cari, che forse si era appannata nella preoccupazione e nel desiderio di «mettere tutto a posto».

È un insolito gruppo di personaggi quello che popola la pellicola della Bier, per certi versi segnati da un passato di dolore che sembra destinato a ripetersi, per altri fortunatamente non determinati da esso, ma messi di fronte a una seconda possibilità che si fonda sull’amore e sul riconoscimento delle proprie responsabilità. Fa piacere per una volta che la famiglia, lungi dall’essere rappresentata come luogo di corruzione e disperazione, sia vista come possibilità di realizzazione e compimento, anche quando nella vita entrano il dolore, il tradimento e infine la morte.

Manca, è vero, un ultimo salto di qualità che permetta di andare oltre l’immanenza di una laica carità per aprirsi a una dimensione soprannaturale, ma resta apprezzabile la volontà di indicare una positività umana fondata sulla solidarietà reciproca, sull’apertura all’altro e sul perdono.

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