Archivi autore: Walter Brandani

GREEN BORDER

Regia di Agnieszka Holland

– durata 147 min.

– Polonia, Germania, Francia, Belgio 2023

– Età dai 14 anni

TRAMA

Nelle gelide foreste che ricoprono il confine tra la Bielorussia e la Polonia, teatro dal 2021 della crisi migratoria istigata dal governo bielorusso, si incrociano le vicende di una famiglia di rifugiati siriani che lotta per attraversare il confine, della loro compagna di viaggio afghana, di una giovane guardia di frontiera polacca che sta per avere un bambino e di un gruppo di attivisti che aiuta i migranti respinti al confine.

RECENSIONE

Annalisa Camilli, internazionale.it
“Ho cominciato a girare Green border pochi mesi dopo che il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko aprisse una specie di corridoio per i profughi verso la Polonia. È stata la prima volta che la violenza e i respingimenti al confine polacco sono stati tollerati in questa forma in Europa”, afferma Agnieszka Holland, regista e sceneggiatrice del film, nelle sale italiane dall’8 febbraio. La contatto su Zoom, mentre è a Parigi e sta lavorando al suo nuovo progetto.

“Ovviamente respingimenti di questo tipo ai confini europei si verificavano anche prima: in Grecia, Croazia, Italia e Francia. Ma questa volta mi è sembrato che ci fosse un accordo generale sul fatto di permetterli, sono stati ‘normalizzati’. Il piano di Lukašenko era molto chiaro: voleva usare i profughi come un’arma di pressione, lo aveva già fatto in passato per minacciare la stabilità e l’integrità dell’Europa. E ci è riuscito”, continua la regista.

Holland, 75 anni, è forse la più famosa tra i registi polacchi e nel suo ultimo film ha usato il linguaggio cinematografico per mostrare la realtà, come non erano riusciti a fare i giornalisti e i documentaristi che hanno provato a raccontare la stessa vicenda: migliaia di famiglie condotte con l’inganno in Bielorussia dalla Siria e dall’Iraq con dei voli di stato e poi abbandonate al confine con la Polonia, nella foresta di Białowieża, nell’inverno 2021.


Il film che ha fatto infuriare il governo polacco
“Il cinema è il mio linguaggio, così ho immediatamente trasformato in finzione la realtà. È il mio lavoro: trovare un aspetto universale nelle questioni particolari e soggettive”, spiega la regista, che con Green border ha vinto il Gran premio della giuria all’ottantesima mostra del cinema di Venezia. “Quasi tutti i miei film sono basati su storie vere, è quello che faccio da sempre. Il mio sforzo è di non perdere la soggettività, provando a trasformare una storia in qualcosa di più universale”.

“In questo caso l’operazione è stata più difficile – sia per quanto riguarda la sceneggiatura sia per la regia – perché non avevo la distanza storica, non vedevo e non potevo vedere tutto l’arco della storia, i fatti stavano succedendo in quel momento. Ma allo stesso tempo ho pensato che il film avrebbe avuto un calore unico. È il primo che si occupa di questa frontiera, così mi è sembrato ancora più importante che fosse autentico”, racconta la regista, che in passato si era già occupata dell’idea di Europa e della sua ambiguità in Europa, Europa, la storia di due fratelli ebrei ambientata durante le persecuzioni naziste.


“Uno dei protagonisti del film e uno dei principali protagonisti di tutta la storia è la foresta, la natura è così potente che non riesci a pensare che sia un confine”, spiega Holland, che ha girato il film nella foresta di Białowieża, l’ultimo lembo della foresta vergine che un tempo ricopriva l’intero continente europeo. Il territorio è rimasto com’era perché era usato come riserva di caccia dello zar. Ora ricopre una parte della Polonia, della Bielorussia e dell’Ucraina.

“Attraversare la foresta e starci dentro è qualcosa che è connesso con le origini stesse dell’Europa e della storia del continente, la foresta porta con sé un’infinità di significati: è insieme pericolo e meraviglia. Anche dal punto di vista cinematografico è uno strumento molto espressivo, interpreta bene l’ambiguità dell’Europa. Da una parte il continente è la culla dei diritti umani, della democrazia, ma d’altra parte è stato ed è autore di crimini contro l’umanità”.

Per realizzare un film così direttamente legato alla realtà, Holland si è servita di attori che hanno davvero un background migratorio: sono attori professionisti, ma sono anche rifugiati. Jalal Altawil, che interpreta il ruolo del padre nella famiglia di profughi siriani (Bashir) che è al centro del film, ha vissuto per anni in un campo profughi in Europa. Mentre Maja Ostaszewska, che interpreta l’attivista Julia, uno dei personaggi principali del film, è una famosa attrice polacca, ma è anche un’attivista e interpreta se stessa.

Nel film Julia è una delle tante volontarie che pattugliavano la foresta per cercare i profughi e aiutarli con il gruppo Grupa granica. Nella realtà è stata una delle portavoce del gruppo: gli attivisti hanno di fatto sfidato il governo polacco e hanno agito al limite di quello che era consentito, rischiando di finire in carcere.

“Gli attori sono stati anche dei consulenti durante le riprese: per questo sono credibili. Hanno saputo portare nel film le loro conoscenze”, spiega la regista. “È stato un film realizzato in tempi record: ho cominciato a scriverlo nell’ottobre 2021, quando la crisi al confine era cominciata da qualche mese. Abbiamo cominciato le riprese solo nel marzo 2023, e sei mesi dopo eravamo a Venezia. La post-produzione è stata molto veloce, anche se il materiale era tanto, abbiamo dovuto correre per partecipare alla Mostra del cinema di Venezia”, continua Holland.

Fin dal principio la scelta è stata quella di girare in bianco e nero: “Ci ha aiutato a risolvere alcuni problemi dovuti al fatto che abbiamo girato in diversi mesi dell’anno. Ma la vera ragione è artistica: volevo uno stile crudo, diretto, come quello di un documentario”. Inoltre, l’ha aiutata a trovare un collegamento con il passato: “Volevo qualcosa che ricordasse l’immaginario della seconda guerra mondiale, che è ancora molto forte in quella foresta”.

Holland è una dei tre registi europei che quest’anno hanno girato film importanti sulla migrazione, quasi in contemporanea. Io capitano di Matteo Garrone mostra l’origine del viaggio, il desiderio di partire di due ragazzi del Senegal. Ken Loach nel suo The Old Oak racconta invece cosa succede a chi è già arrivato in Europa, dopo avere attraversato la frontiera. Holland rimane sulla frontiera, anzi usa il cinema per mostrare quello che nella realtà è vietato documentare, la ferocia delle recinzioni costruite per segregare chi non è europeo da chi invece lo è. I tre film, visti insieme, sembrano quasi una trilogia su uno dei temi più importanti del presente.

“Le leggi internazionali e nazionali che avevamo scritto dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo le tragedie del nazismo e dell’olocausto, sembra che siano state dimenticate. Parliamo di immigrazione, ma in realtà stiamo parlando del futuro di questo continente e anche della natura democratica dei nostri governi, dello stato di diritto. Nel film volevo dare voce ai senza voce, un volto ai senza volto. È stato anche un modo per dire che il nostro futuro è in pericolo e che il continente sta cambiando velocemente”, spiega Holland.

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IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO

Regia di Yorgos Lanthimos. Gran Bretagna, USA, 2017, durata 109 min. Età dai 16 anni.

TRAMA

l film racconta di Steven Murphy, un formidabile chirurgo che nasconde però un terribile segreto. A causa dei suoi problemi con l’abuso di alcol, Steven ha infatti provocato involontariamente la morte di un uomo sul tavolo operatorio. Colpito dal senso di colpa, egli decide di sostenere il figlio della vittima, Martin Lang, con il quale si incontra assiduamente presso un’anonima tavola calda. Un giorno, Steven decide di invitare Martin a cena, presentando il giovane alla moglie Anna e ai figli Kim e Bob.

Mentre Kim si invaghisce del ragazzo, Bob inizia ad accusare dei malori e non riesce più a muovere i suoi arti inferiori. Martin avverte Steven di aver scoperto la verità sulla morte di suo padre e di aver provocato la paralisi di suo figlio, per vendicarsi di quanto accaduto. Il ragazzo vuole costringere Steven a scegliere un membro della sua famiglia come sacrificio riparatore. Martin, infatti, ha lanciato una sorta di maledizione che condurrà inevitabilmente la famiglia Murphy alla morte, se il dottore si rifiuterà di esaudire la sua raccapricciante richiesta.

RECENSIONE DI LUCA CICCIONI anonimacinefili.it

Nel geniale e perturbante cinema di Yorgos Lanthimos (The Lobster, Dogtooth, Alps) nulla è lasciato al caso. Come accadeva per il suo principale punto di riferimento artistico (il Buñuel surrealista), ogni pennellata è giustapposta su una tela il cui scopo è sconvolgere e, solo dopo un’attenta analisi, esser compresa nel dettaglio.

LA PASSIONE SECONDO LANTHIMOS
Non deve quindi stupire se apriamo questa analisi richiamando l’attenzione alle note dell’incipit di La Passione Secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach (che accompagnano la scena finale de Il Sacrificio del Cervo Sacro – The Killing of a Sacred Deer come già accadeva in Lo Specchio di Andrej Tarkovskij), e con esse al coro che canta le parole dell’VIII salmo della Bibbia: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza!». Quelle parole sono fondamentali per la comprensione dell’ultima opera del grande cineasta ellenico: sono infatti messe lì proprio per schiaffeggiarci e ricordarci che di quel dio misericordioso non c’è traccia, in un affronto finale che in modo beffardo e amaro suggella una parabola di dolore e nichilismo.

La storia del film è a dir poco stringata, seppur lasciata decantare in due ore di metraggio nelle quali l’attenzione dello spettatore viene rapita con la forza: Steven (uno straordinario Colin Farrell) è un cardiologo con una splendida moglie (Nicole Kidman) e due figli dei quali andare orgoglioso. Lo vediamo però spesso in compagnia di un ragazzo giovanissimo (il notevole Barry Keoghan, già visto in Dunkirk) senza capire la natura di questa frequentazione. Le strade dei protagonisti inizieranno a intersecarsi in modi imprevedibili quando uno dei personaggi manifesterà una misteriosa malattia.

L’IMPERFETTA TRAGICITÀ DI EURIPIDE
(l’articolo non contiene spoiler sulla trama, ma alcuni indispensabili parallelismi potrebbero suggerirne possibili sviluppi)

Il titolo del film rimanda al sacrificio con cui si conclude l’Ifigenia in Àulide, tragedia greca cui si ispira lo script firmato da Lanthimos col suo immancabile braccio destro Efthymis Filippou; ma se l’uccisione della protagonista dell’opera euripidea da parte del padre veniva interrotta da una cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide – in modo analogo all’episodio biblico del sacrificio di Isacco per mano di Abramo, in cui in extremis il Signore sostituiva un ariete al bambino –, qui non vi è traccia di alcuna divinità salvifica, a dispetto delle parti corali proposte nel finale. Anzi, Lanthimos sceglie di collocare la famiglia del protagonista nella torre eburnea della borghesia non tanto per un’allegoria politica (che non collimerebbe con tutti i passaggi della trama), quanto per potenziare la dinamica narrativa e dimostrare che nessun luogo è al sicuro: più in alto ci si illude di essere, più rovinosa può dimostrarsi la caduta.

CAMBIARE LE REGOLE DELLA REALTÀ PER RICORDARCI I NOSTRI LIMITI
Nell’universo narrativo eretto da Lanthimos e Filippou ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) infatti c’è posto per l’inspiegabile, per il metafisico, ma non per qualcosa di più grande di noi. Siamo lasciati soli con tutta la nostra incapacità di comprendere, e la sospensione delle regole della realtà – come sempre nel cinema del greco – serve solo a metterci dinnanzi ai nostri limiti, e al contempo a ricordarci che nessuno ci aiuterà a superarli.

Il dolore (che sia quello fisico di un morso o quello intangibile del rancore) è un’esperienza catartica ma ineludibile: è questo uno dei punti chiave della sceneggiatura del film, e ancora una volta Lanthimos usa la musica per sottolineare il suo intento sin dalla primissima scena del film, in cui alle immagini di un cuore pulsante si accompagna lo Stabat Mater di Schubert, e cioè una preghiera in cui il fedele chiede alla Vergine Maria di renderlo partecipe delle pene del figlio crocifisso.

LA MACCHINA DA PRESA COME UN FANTASMA
Rispetto ai lavori passati, qui il percorso del Lanthimos sceneggiatore si fa meno labirintico, meno volutamente ostico, e nel farlo si accompagna a un’evidente (per quanto non indispensabile) evoluzione tecnica del linguaggio filmico. Per esplorare un terreno mai così vicino all’horror, la macchina da presa diventa una presenza perturbante che infesta la scena.

L’occhio di Lanthimos – coadiuvato dalla fotografia di un Thimios Bakatakis mai così geniale – non è quasi mai immobile, il più delle volte si muove lento, sinuoso e imprevedibile come un serpente: i lentissimi zoom, le carrellate calme ma vibranti di tensione e i crane flemmatici si succedono senza soluzione di continuità e quasi sempre in modo imprevedibile, contribuendo a ipnotizzare lo spettatore insieme alla recitazione fredda, controllata e magnetica che il cineasta impone ai propri interpreti nei primi 50 minuti.

Lanthimos posiziona la macchina da presa sempre su piani sfalsati rispetto a quelli dei protagonisti, inquadrandoli dall’alto o dal basso quasi come fosse una camera di sorveglianza animata di vita propria, e all’inclinazione dell’inquadratura sceglie il più delle volte di abbinare delle lenti grandangolari, allo scopo di sfruttare l’effetto delle linee cadenti per costruire una sensazione di incombenza.

L’inquadratura stessa è composta il più delle volte in modo sbilanciato; accentra il peso visivo a dispetto di ogni regola compositiva e sovente taglia fuori dal frame gli stessi soggetti, quasi fosse disinteressata alle vicende di quegli umani che tanto si affannano. Addirittura la costruzione dei dialoghi offre punti di vista terzi, accentuando l’incomunicabilità che divide i protagonisti, le cui parole sono a tratti sovrastate da i suoni infausti e sovrannaturali di Johnnie Burn o vanno perdendosi nello straordinario montaggio audio.

UN CAPOLAVORO DALLA FORZA DIROMPENTE
Con Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) Lanthimos sembra voler accentuare la componente più oscura della propria poetica, interessato più a suscitare una risposta emotiva che tessere un ordito narrativo – proprio come il Tarkovskij del citato Lo Specchio. Rispetto al passato gli estimatori della filmografia del regista ateniese potrebbero soffrire la maggiore semplicità dello script (comunque premiato al 70. Festival di Cannes) e una minore (spietata e dolorosa) ironia, ma è impossibile non rimanere sopraffatti davanti a un’opera ipnotica che però mira costantemente a mettere a disagio lo spettatore, nella quale lo sguardo stesso del regista è una presenza minacciosa. Un’opera che ha il suo perno in una scena dal sapore rituale: un malato ‘girotondo’ con tanto di cappucci bianchi e neri (con un codice cromatico esplicito e archetipico) iscritto all’interno di una trinità senza l’ombra di un dio, pronta però a rigenerarsi quando il carnefice diventerà a suo modo vittima. Una vetta artistica altissima, da far contemplare nelle scuole di cinema. Un capolavoro sul sacrificio, il dolore e la responsabilità, dal grande significato ma che colpisce anche chi non sia interessato a cercare una spiegazione. Uno dei più straordinari film degli ultimi decenni.

VIDEO

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LA CENA

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IL CEDIMENTO

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POVERE CREATURE

Siamo noi le povere creature,

che possiamo solo osservare dallo spioncino

un mondo libero e pieno di colori.

Regia di Yorgos Lanthimos.

USA, 2023, durata 141 minuti.

Età dai 16 anni

  1. Trama
  2. Recensione
  3. Video

TRAMA

Londra, in un’epoca futura, ma simile a quella del passato vittoriano per architettura, disuguaglianze e rigidità mentale. La giovane Bella (Emma Stone) viene riportata in vita, dopo un suicidio, dal ricco scienziato Godwin (Willem Dafoe), che pratica esperimenti “frankensteiniani” e non ortodossi.

L’uomo accudisce e cresce la ragazza come una figlia. Bella ha un comportamento che sta tra il cucciolo e la bambina problematica. Godwin cerca di insegnare a Bella a parlare, comportarsi educatamente e stare al mondo. Il gentile e serio studente di medicina Max McCandless (Ramy Youssef), allievo di Godwin, frequentando casa Baxter si innamora della ragazza e la chiederà in sposa.

Ma il losco e vizioso avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) la porta con sé per un’avventura transoceanica. Bella farà esperienza di sesso, bellezza, ma anche delle bruttezze del mondo…

2. RECENSIONE di Teresa Monaco cinematographe.it

La scoperta passa per la sperimentazione, che si fa sistematica trasformazione dei corpi, che si incasella a sua volta nel ritrovamento di un piacere ancestrale, meccanico, naturale. In Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos, presentato in Concorso alla 80ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, la bellezza stride con l’evoluzione, producendo un’ondata di piacere incommensurabile che sfiora la vista, l’udito e il cuore.

Basandosi sul romanzo di Alasdair Gray e lavorando su una sceneggiatura di Tony McNamara, il regista di opere come The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017) e La favorita (2018) sa imbrigliarci ancora una volta in un emisfero possibile in cui l’umano si fa artefice del mostruoso e del meraviglioso.
Il dottor Godwin Baxter interpretato da Willem Dafoe, che non a caso abbrevia il suo nome in God, ovvero Dio, è un rivoluzionario Frankenstein, risultante anch’egli di incresciose sperimentazioni inflittegli dal padre in nome del progresso e della scienza. Bella Baxter (Emma Stone) è la sua creatura: una donna riportata in vita nella cui testa è stato trapiantato il cervello del feto che portava in grembo.
Il suo nome non è affatto un caso, poiché la donna seduce nonostante il suo handicap. Impara poco alla volta, impara come un bambino viziato, tradendo il buon costume e le logiche convenzioni dello stare al mondo e sfuggendo alla gabbia dorata all’interno della quale il suo creatore vorrebbe costringerla. Bella ha sete di scoperta e fugge senza remora insieme a Duncan Wedderburn, un avvocato scaltro e dissoluto, fin troppo convinto delle sue abilità sessuali, a cui presta il volto Mark Ruffalo.

La scoperta è, sotto ogni punto di vista, il motore che muove Povere creature! di Yorgos Lanthimos e lo fa verso più direzioni, coinvolgendo e stravolgendo tutti i sensi dello spettatore. Potremmo dire che il film è un coming of age sui generis, poiché denota il passaggio dall’età dell’innocenza alla consapevolezza del proprio corpo come mezzo per raggiungere il piacere: nella strettoia che collega questi due frangenti, però, Lanthimos infarcisce molti più sottotesti e lo fa con un’ironia pungente, tale da farci riflettere e intagliarci dentro nello stesso istante in cui ci fa ridere fino alle lacrime e ci fa riconoscere esattamente lì, su quella tavolozza di celluloide che si mobilita sul grande schermo. Siamo il risultato di un abuso, lo scarto meccanico della società, siamo le emozioni che scegliamo di soffocare e che ci inibiscono la felicità.

Immagini da ingurgitare con gli occhi in un “coming of age” sentimentale e fantascientifico
Povere creature! (Poor Things) Emma stone Mark Ruffalo – Cinematographe
L’autore ci attrae a sé senza indugi, catapultandoci in un mondo in bianco e nero attraverso il canale preferenziale di una musica fatta di rintocchi striduli e suonate di pianoforte a intermittenza, musica che rimbomba come una bolla d’acqua assopendo tutto il resto e infilandosi tra le cicatrici della realtà. Se il compositore Jerskin Fendrix, coadiuvato dai suoni di Johnnie Burn, ci fa inarcare dentro le sue sinfonie, è alla fotografia di Robbie Ryan che dobbiamo la smania della tattilità visiva. Il suo obiettivo cattura angoli astrusi e pertugi mai esistiti e li spennella di realtà (meritano una menzione, chiaramente, la scenografia di James Price e Shona Heath, i costumi di Holly Waddington e gli effetti visivi di Simon Hughes), richiamando a tratti l’arte di Escher: il mondo appare riflesso, lontano, luminoso, tanto avanzato quanto irrimediabilmente inabissato in un passato scientificamente retrogrado. Il bicolore passa gradualmente all’accecante magia delle sfumature pastello e in entrambi i casi la messa in scena ci indica che non è realtà, poiché graficamente parlando non esiste normalità. Si è reclusi nella mancanza di colori oppure si eccede nella loro presenza fino a ingurgitarli con gli occhi. I paesaggi e i personaggi, nonché i luoghi in cui viaggiamo (Lisbona, Alessandria, Parigi) sono cartoline fantasiose ed entusiasmanti in cui surrealismo ed iperrealismo convivono con un’ingenuità spaventosa e disarmante.

Povere creature! (Poor Things) e gli occhi di Emma Stone come setaccio della realtà

Yorgos Lanthimos, dal canto suo, anche in questo caso non ci regala realtà, ma un mondo migliore, visto talvolta come dallo spioncino di un portone, talaltre incastrano in estasi di piacere.
Inutile sottolineare come il personaggio di Emma Stone e l’encomiabile interpretazione dell’attrice siano la cifra fondante dell’intera opera: dai suoi occhi passa tutta l’innocenza e tutto il peccato, passa la sottomissione, la voglia di emancipazione e la mercificazione del corpo femminile, nonché lo stratagemma di un’intelligenza mascherata d’isteria.
È bene chiarire che Povere creature! non è solo un dialogo dell’autore col pubblico, bensì un’ipotetica messa in scena in cui converge tutta la sua produzione passata, ovvero quella filmografia in cui l’umano e il bestiale comunicano, mettendo sulla bilancia l’umanità e svuotandola di socialità e convenzionalità.
L’istinto perspicace e audace di Bella la induce a fare tutto ciò che qualsiasi essere umano vorrebbe (talvolta) fare, come esternare atti di violenza nei confronti di un neonato che disturba al ristorante o ritenere divertente l’idea di fare sesso smodatamente. Ammettetelo, su: se fosse lecito, se fosse educato, sareste tutti Bella Baxter e mandereste al diavolo con nonchalance tutte quelle etichette di presunta civiltà che dovrebbero aiutarci a vivere in un mondo più bello e più giusto.

Con incantevole raffinatezza e ironia Yorgos Lanthimos ci pone sul piatto d’argento una società in cui la felicità e la libertà sono un miraggio. Lo fa facendo passare tutto dagli occhi di Bella: la sua prospettiva sulle cose funge da travolgente e autentica lente d’ingrandimento per affrontare questione delicatissime e irrisolte.
La bellezza del personaggio della Stone è che esteticamente ed esteriormente non muta: il suo fascino esteriore è lapalissiano e il suo corpo è come miele per qualsivoglia pretendente. La sua è però una rivoluzione interiore che inizia nel momento stesso in cui scopre che può procurarsi piacere stimolandosi i genitali. Bella è come un’adolescente in preda alla voglia e alla sperimentazione ma, a differenza di una normale adolescente, ha un aspetto di donna che le conferisce un biglietto da visita preferenziale e un “padre” che non le pone limiti di alcun genere. E, cosa più importante, è scevra da pregiudizi. Ma c’è un muro di gomma contro il quale la protagonista si scontrerà sempre e sono gli uomini che desiderano solo una cosa: controllarla e mutilarla, sia nel corpo che nello spirito.

Isteria, infibulazione, prostituzione e controllo
povere creature recensione cinematographe.it
Ramy Youssef and Emma Stone in POOR THINGS. Photo by Yorgos Lanthimos. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 20th Century Studios All Rights Reserved.

A tal proposito, è interessante annotare l’ironica eleganza con cui l’autore riesce a immettere nell’opera l’anatomica supremazia della donna sull’uomo (Bella può fare sesso tutte le volte che vuole, mentre Duncan ha i suoi limiti, come tutti gli uomini!) e la stessa idea della prostituzione, vista come un punto a favore (“mi pagano per fare sesso?”) e non come “l’atto più deplorevole che una donna possa fare”. Non manca poi il dettaglio sulla pratica dell’infibulazione – barbara pratica ancora tristemente in voga in alcuni Paesi – vista come risoluzione a tutte le strambe idee di Bella, il che ci collega all’antico concetto di isteria.

Tutto, insomma, finisce per passare dal sesso, in tutti i sensi. L’organo riproduttivo femminile è causa di conoscenza, emancipazione e libertà e i suoi “bisogni” collidono con le presunte buone maniere, urtano la mascolinità appiccicosa e becera, sconfinando in azioni e parole. E, si sa (siamo ovviamente drammaticamente ironici), quando una donna parla troppo non si può far altro se non ucciderla.
Lanthimos ridicolezza l’odio (personificato dall’attore Christopher Abbott) relegandolo in un corpo di uomo e un cervello di capra e crea filamenti sottilissimi tra passato, presente e futuro, poiché Bella è le donne di tutte le epoche, accantonate solo perché donne, perché definite inferiori, perché isteriche, perché pensanti.

Povere creature! (Poor Things): valutazione e conclusione

C’è un rischio altissimo che si corre, vedendo Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos ed è l’inevitabile dipendenza dalle battute di Emma Stone, deliziosamente più eccitanti dei suoi seni scoperti. L’altra probabilità è che possiate rinvenire fugacemente in quest’opera tantissime altre opere cinematografiche e letterarie e si, può anche darsi che tutti questi legami siano leciti, ma a nostro avviso Poor Things non è eco di niente, bensì essenza nuova, incontenibile e necessaria. Rimarrete estasiati!

3. VIDEO

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FOGLIE AL VENTO

Regia di Aki Kaurismäki. , – Finlandia, 2023, durata 81 minuti. Età dai 13 anni

Le foglie morte cadono a mucchi
e come loro i ricordi, i rimpianti
Ma il mio fedele e silenzioso amore
sorride ancora, dice grazie alla vita

Recensioni e video
di Andrea Chimento (il sole 24 ore)

Una pellicola di grandissima umanità, perfetta per le feste natalizie: “Foglie al vento” di Aki Kaurismäki è il film ideale da vedere in sala questo weekend.
Sei anni dopo il notevole “L’altro volto della speranza”, il regista finlandese è tornato dietro la macchina da presa per raccontare la storia di un uomo e di una donna che si incontrano una notte a Helsinki. I due hanno vite difficili, segnate dal disagio e dalla precarietà, ma il loro incontro sarà l’inizio di una storia che li aiuterà ad amare di nuovo.

Quarto capitolo di film dedicati da Kaurismäki al tema del proletariato, dopo “Ombre nel paradiso” (1986), “Ariel” (1988) e “La fiammiferaia” (1990), “Fallen Leaves” è una delicatissima e tragicomica storia d’amore perfettamente nelle corde del regista scandinavo.Bastano poche inquadrature per ritrovare il classico tocco dell’autore, sempre più essenziale e minimalista e capace di toccare corde profondissime con una pellicola che è sia un inno alla vita e all’amore, sia un grande omaggio alla storia del cinema.

Kaurismäki propone infatti tantissime citazioni, compresa una per l’amico Jim Jarmusch, del quale viene proiettato in un cinema l’ultimo lungometraggio, “I morti non muoiono”. Gli omaggi poi vanno al passato, con diversi riferimenti all’amato Robert Bresson (maestro proprio di quel minimalismo di cui Kaurismäki è oggi uno dei massimi discepoli), a Jean-Luc Godard e uno magnifico, poetico ed emozionante a Charlie Chaplin, da sempre una delle grandi ispirazioni del regista.

Malinconia e sorrisi
È un film carico di malinconia, “Foglie al vento”, ma è anche un lungometraggio capace di farci sorridere e dare fortissima speranza all’interno del contesto oltremodo desolante che va a raccontare.Oltre alle difficoltà del mondo del lavoro, il film propone tematiche di grande attualità, a partire da quelle trasmissioni radiofoniche in cui si sentono di continuo le agghiaccianti notizie della guerra in Ucraina. Nonostante la cornice ricca di elementi drammatici, Kaurismäki trova come sempre la giusta ironia, riuscendo a dare vita a una pellicola umanissima e appassionante. Splendide sono poi numerose inquadrature, dal taglio prettamente pittorico ed efficaci nel richiamare i quadri di Edward Hopper: l’uso che fa delle luci e dei colori è da studiare nelle scuole di cinema e ogni singola immagine è sempre personale e capace di emozionare.Il risultato è un film imperdibile, tra i più belli dell’intera stagione, che ha meritatamente ottenuto il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2023.

trailer

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casa

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Credevo fosse diverso

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PERFECT DAYS

PERFECT DAYS
Regia di Wim Wenders.

Giappone, Germania, 2023, durata 123 min.

Età dai 13 anni

Un film che ci ricorda come anche nei momenti cupi e oscuri, si possono scorgere raggi di luce che possono illuminare la nostra esistenza.

SCENE

Clip “Patti Smith

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Clip “La canzone”

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 Clip “Foto”

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