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THE FAREWELL

Regia di Lulu Wang – USA, Cina, 2019 – durata 98 minuti – età +13

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Billi, una giovane newyorkese con aspirazioni artistiche, scopre dalla sua larga famiglia cinese che all’anziana nonna Nai Nai è stato diagnosticato un tumore incurabile in fase molto avanzata: tornati in Cina a farle visita, tutti i parenti decidono di comune accordo di tenerle nascosta la verità per farle vivere amorevolmente quei pochi mesi che le rimangono. Tuttavia, più trascorre del tempo con Nai Nai, più Billi si ritrova a dubitare di quanto quel che stiano facendo sia giusto.

  • RECENSIONE

Di Martina Barone – cinematographe.it


Ogni persona racchiude due anime: sentimentale e razionale, mite e irrequieta, sincera e apparente. Anche in Billi si contrappongono due realtà, due luoghi che rappresentano nella propria vita i poli opposti che l’hanno formata. C’è l’America, stato dell’indipendenza, terra delle opportunità in cui puoi essere chiunque vuoi, puoi diventare chiunque tu voglia. E poi c’è la Cina, la tradizione, le origini, ma, soprattutto, la famiglia di sempre. Quella allargata, con zii e cugini che sono emigrati lontano, con nonne che continuano a prendersi cura di te e parenti alla lontana che ritrovi solo nelle grandi occasioni.

È la lontananza di due luoghi che entrano in coincidenza nell’interiorità della protagonista di The Farewell – Una bugia buona, che riecheggiano come posti in connessione da un filo conduttore che collega mondi distanti, quanto mai inconciliabili, entrambi spogliati dalle reciproche ipocrisie e messi in mostra da Lulu Wang nel suo meraviglioso film. Di singolarità personali, di Paesi e ideologie, di riti culturali e usanze comunitarie: l’opera ne intreccia i fulcri senza mai risultare ridondante, senza eccedere nel desiderio di rendere un’unica, allargata famiglia il centro delle contraddizioni di una collettività assai più grande, ma in cui è possibile coglierne tutti gli attriti; quegli umori antitetici che, in The Farewell, fanno da sostegno all’intero racconto.

The Farewell – Una bugia buona: dall’Oriente all’Occidente, dall’indipendenza alle tradizioni

C’è un motto cinese che dice: se una persona ha un cancro non è la malattia ad ucciderla, è la paura. È per questo che le famiglie decidono di tenere segreto un male così insopportabile, come scelgono di fare anche i consanguinei Wang, trasformando l’ultima visita all’anziana madre e nonna Nai Nai (Zhao Shuzhen), malata di cancro ai polmoni, in un matrimonio organizzato all’ultimo momento tra il nipote Hao Hao (Chen Han) e la novella fidanzata giapponese. Un’occasione per l’intera famiglia di ritrovarsi insieme dopo anni, facendo ritorno in una Cina che li porrà davanti alle loro contrapposizioni.

Quella di The Farewell è una pellicola ispirata a una storia vera. Non solo una vicenda arrivata alla sceneggiatrice e regista per essere rimaneggiata e resa racconto filmico, ma esperienza diretta di una cineasta che, al suo lungometraggio di esordio, affronta con sincerità i dilemmi e le imperfezioni della propria famiglia. Di un’appartenenza all’Occidente che la separa dall’aspetto profondo e risoluto dell’Oriente, il quale non manca però di risiedere nei ricordi della Lulu Wang bambina e, così, anche nell’infanzia e nei pochi stralci di memoria della sua protagonista. Una giovane, che nel mezzo dell’indicibile menzogna, tenta di ritrovare una conciliazione tra le sue ambivalenti anime.

È nella sincerità di The Farewell che si coglie l’importanza che la pellicola ha per l’autrice. Un sentimento espresso non provando il bisogno di sottolinearlo con rimarchi di scrittura, rischiando di mettere in primo piano semplicemente una parte di sé, tralasciando la possibilità di dare alla sceneggiatura una potenza che serve più a suggerire che a evidenziare, più a esortare che a rivelare. E, nella leggiadria della storia, è la sensazione di risiedere davanti a qualcosa di profondamente personale che lo spettatore abbraccia completamente. Un film che, come pochi altri, tocca sul vivo l’empatia del pubblico, che sapendo o meno di trovarsi di fronte al passato della regista, riesce a viverne la dimensione intima, confidenziale, di inclusione in quel piccolo segreto e nella riflessione che ne vede poi derivare.

The Farewell – Una buona bugia: dalla genuinità di Awkwafina al vero che diventa cinema

Il tutto non dimenticando una bellezza scenica di una calorosità carezzevole, attenta alle assonanze delle inquadrature, con palette di colori che tingono una mise en scène in cui ogni frammento risalta impeccabile, impreziosito dall’abilità registica di Lulu Wang. Evocativa nella consapevolezza dei propri spazi, pieni ogni volta delle emotività dei personaggi. Una protagonista, l’attrice Awkwafina, che rispetta l’autenticità della pellicola e del suo significato, dandosi con una genuinità che rende il film ancora più reale, in un connubio tra l’onestà verso la propria regista e il contributo della propria prova attoriale.

Il vero che diventa cinematografico, ma non per questo meno incisivo: The Farewell – Una bugia buona è il mettere a nudo gli effetti di un mondo sempre più globalizzato. Persone che lasciano la propria casa nella speranza di una vita migliore, in cui è però impensabile dimenticare le proprie radici, dovendo imparare a separarne i confini e, inevitabilmente, a conviverci. Una famiglia che Lulu Wang riporta con grazia e con una sensibilità che avvolge racconto e spettatori, per una pellicola di una armonia e una benevolenza incorruttibili, un incanto preso dal vero che diventa cinema.

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Le stazioni della fede

In adolescenza 

cambia la percezione del mondo intorno e dentro di sé, cambia il corpo e cambiano le relazioni.

Maria, la protagonista del film, è un’adolescente e il suo percorso di crescita è una via crucis. LE STAZIONI DELLA FEDE è un film che, suddiviso, come il rito cattolico, in quattordici stazioni, commuove ed emoziona.

 

crucis2

Kreuzweg – Le stazioni della fede
Un film di Dietrich Brüggemann.

Titolo originale Kreuzweg (VIA CRUCIS)

genere Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 107 min. – Germania 2014.

in questa pagina trovi:  tramavideorecensioni 

 

 

Trama
Maria ha 14 anni e la sua famiglia fa parte di una comunità cattolica fondamentalista. Maria vive la sua vita di tutti i giorni nel mondo moderno, ma il suo cuore appartiene a Gesù. Lei vuole seguirlo, per diventare una santa e andare in paradiso, così passa attraverso 14 stazioni, proprio come fece Gesù nel suo cammino verso Golgota

 

VIDEO

Trailer

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Recensioni

 

 

Da sentieridelcinema.it di Laura Cotta Ramosino

Acclamato da molta critica al Festival di Berlino e vincitore, oltre che dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ma anche del premio della Giuria Ecumenica, Kreuzweg è una pellicola insieme stimolante e frustrante, sia sul piano dei contenuti che della forma e richiede, anzi, quasi pretende, una visione concentrata e critica che molta parte del pubblico potrebbe non essere disposta a concedere.
La vicenda della piccola Maria, vittima di una concezione del Cristianesimo punitiva, rigida e ostile al mondo (la Fraternità di San Paolo come viene qui chiamata è una palese trasposizione di quella di san Pio X fondata dall’arcivescovo Lefevre), che le impedisce di aprirsi al mondo e la convince della necessità di un sacrificio estremo, ma anche di una madre incapace di mostrare il proprio affetto, è di quelle fatte apposta per scatenare dibattiti e polemiche. E questo sia che lo si voglia concepire come un coraggioso e sincero atto di denuncia contro il fondamentalismo religioso (il regista e la sorella, sceneggiatrice, vengono essi stessi da una famiglia appartenente a una comunità cattolica di questo genere) o come un esercizio formalmente impeccabile, che nella sua pro grammaticità ideologica pecca della stessa rigidità del mondo che mette sotto accusa.
Il film, infatti, è diviso in 14 quadri corrispondenti alle stazioni della Via Crucis (il cui nome introduce a mo’ di titolo ogni capitolo), la maggior parte dei quasi è costituito da un’unica inquadratura fissa entro cui i personaggi dialogano e si muovono (poco) per l’appunto come personaggi di quadretti votivi animati. Ogni situazione è escogitata per riflettere in modo più o metaforico (e spesso ironico) una delle tappe della Passione di Gesù. La piccola Maria Göttler (un nome un programma) è infatti una esplicita figura Christi che affronta consapevole e solitaria un martirio autoimposto, vivendo nel senso di colpa le più normali esperienze adolescenziali (anche la nascente e innocente simpatia per un coetaneo che la invita a cantare nel coro di una chiesa cattolica, sì, ma non abbastanza ortodossa per la madre di Maria) e privandosi del cibo e della gioia fino all’esito prevedibile e inevitabile.
Benché parte di una famiglia numerosa, la ragazzina sembra immersa in una sostanziale solitudine; e nessuno degli adulti della comunità – il giovane parroco, premuroso e gentile quanto rigido; la madre, una figura spaventosa di genitrice forte di una fede spietata quanto inattaccabile che solo nel finale sembra giungere ad un punto di rottura; il padre, una figura debole e insignificante – sembra cogliere fino in fondo la testarda determinazione e la follia del piano di Maria, aspirante santa con scarso senso della realtà. Anzi, di fronte al quasi miracolo del finale la madre è velocissima a trasfigurare il rapporto perennemente critico con la figlia in una beatificazione cieca e quasi surreale.
Kreuzweg, pur abbracciando senza se e senza ma la sua vocazione di cautionary tale verso il fondamentalismo, ha l’onestà di mettere in chiaro le carte fin da subito: quello che vediamo in azione non è né il Cristianesimo né il Cattolicesimo tout court, e anzi Brüggemann dissemina la storia di figure di credenti dalle più varie sfumature: dall’insegnante di ginnastica protestante, al gentile spasimante cattolico di Maria, dall’affettuosa ragazza alla pari francese che è forse l’unica vera amica della ragazzina, all’infermiera dell’ospedale che crede in qualcosa che non vuole definire (ed è interpretata dalla stessa sceneggiatrice). Le difficoltà scolastiche di Maria (che si rifiuta di correre in palestra perché l’insegnante accompagna gli esercizi con musica moderna “diabolica”, un tema su cui i genitori di Maria sono particolarmente rumorosi) sono l’occasione per suggerire un’apertura ulteriore a temi quali la tolleranza (i coetanei di Maria ne hanno davvero ben poca) e la libertà religiosa (si allude al fatto che alcune compagne di classe musulmane saltano direttamente l’ora di ginnastica).
Non si ha mai davvero, però, l’impressione che Brüggemann sia alla ricerca di una vera e propria discussione o si apra al mistero doloroso di quello che sta raccontando (il “miracolo” che avviene alla morte di Maria, prontamente assunto ad autogiustificazione dalla madre). Come al responsabile delle pompe funebri del finale, poco gli importa la “verità” della fede professata da Maria fino alle estreme conseguenze: è la psiche ferita di una ragazzina quella che vuole mettere in scena. Ma nel descriverla con un piglio troppo sociologico la rende una vittima fin troppo consenziente e la priva del dramma sostanziale della libertà cui pure avrebbe avuto diritto e che avrebbe dato al film il respiro che gli manca.

Laura Cotta Ramosino

 

Da cineforum.net di Simone Soranna

Probabilmente mai come in questi anni i tempi stanno correndo freneticamente e sembra che niente e nessuno sia in grado di fermarli. L’unica soluzione per reggere il passo pare essere quella di assecondarli, a costo di rischiare la propria identità, per non sparire completamente.

Anche la religione non è esente da tale pressione, così come il cinema. Due sfere decisamente lontane e tuttavia accostate in maniera sorprendentemente naturale da Dietrich Brüggemann, il quale decide di realizzare una pellicola che racconti l’importanza del cambiamento attraverso una storia che nasce dalla tradizione (religiosa e cinematografica) e che di essa si nutre.

Kreuzweg – Le stazioni della fede racconta il Calvario (nel vero senso della parola) di un’adolescente cresciuta secondo un’educazione cattolica fondamentalista ancorata agli insegnamenti biblici basilari, priva dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II. Il regista decide di incastonare il racconto in uno stile (apparentemente) primordiale, attraverso quattordici lunghi piani sequenza realizzati a camera fissa (a parte un paio di eccezioni). Il cinema e la spiritualità sembrano essersi fermati ai loro albori: l’uno alle vedute statiche delle origini, l’altra ai dogmi della Chiesa fondata da Pietro. La frenesia, il cambiamento, la velocità dei giorni a noi contemporanei sono del tutto azzerati in nome di un ritorno alla tradizione che tuttavia, mai come ora, è carica di una portata innovatrice senza paragoni.

Lo scopo principale dell’autore è quello di mettere il pubblico nei panni di Dio. Il suo film è una metafora precisa e spietata di quello che è stato il percorso di Gesù verso la crocifissione. E non ci si riferisce solo alle quattordici tappe che costituiscono la via crucis (puntualmente chiamate in causa a scandire i capitoli della pellicola), quanto all’impossibilità di fare qualcosa per intervenire nella vicenda. Tutto è immobile e non c’è via di fuga, non c’è nessuna possibilità di azione. Attraverso una suspense perfettamente calibrata, Brüggemann costruisce un climax impossibile da sostenere: una giovanissima e innocente ragazza si avvicina frettolosamente verso un sacrificio che non le compete e lo spettatore non può far altro che assistere passivamente al macabro spettacolo messo in scena con una crudeltà tanto cinica quanto elementare.

Siamo costretti a subire il fascino di un cinema rigido, freddo e formale che rischia di non essere accettato perché non coerente con i tempi. Un ossimoro straziante e deprimente, per un’opera che rischia di non riceve l’accoglienza sperata. E ogni riferimento a qualsiasi creatore divino fattosi uomo non è puramente casuale.

 

Il passato

il passato

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Il passato

Un film di Asghar Farhadi.

Con Bérénice Bejo, Tahar Rahim,

 Titolo originale Le passé.
Drammatico, durata 130 min. –
Francia, Italia 2013. –
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RECENSIONE
mymovies, Giancarlo Zappoli

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma.
Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti.
Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa.
Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.

(clicca sopra)
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TRAILER

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lo scafandro e la farfalla

Lo scafandro e la farfalla 3Lo scafandro e la farfalla

Un film di Julian Schnabel. Francia 2007

durata 112 min. Kids+13,

Indice

Trama

Recensioni

Video

…….

TRAMA

Il film è basato sull’omonima monografia di Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla, in cui Bauby descrive la sua vita dopo aver avuto un ictus all’età di 43 anni, che lo ha ridotto in uno stato di sindrome locked-in, lasciandogli come unico mezzo di comunicazione con il mondo il battito della palpebra sinistra. Il protagonista si risveglia su un letto d’ospedale, dopo 3 settimane di coma, impossibilitato a comunicare. Dopo un iniziale abbattimento morale, prende coraggio per continuare a andare avanti. Nei momenti di abbattimento, evade dalla realtà che lo circonda usando semplicemente la sua immaginazione e la sua memoria, ricordando i momenti del suo passato più felici, le cose che avrebbe voluto fare, le persone che ha trascurato cui ora si pente di non aver trascorso più tempo con loro, fino al litigio con suo padre.

 

RECENSIONI 

Una prova di grande umanità in un film di elevato livello artistico
Giancarlo Zappoli     mymovie.it

Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. È il caporedattore di ‘Elle’ e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film.
Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi handicap (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentrodi Alejandro Amenábar con l’interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l’attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico.
L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l’orrore della condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d’ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie ‘vere’. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell’eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé.

Lo scafandro e la farfalla: recensione

Se non l’avete visto, o se non l’avete mai sentito, fatevi un regalo e andatevi a vedere Lo scafandro e la farfalla. Che non sarà magari, almeno per la campagna di marketing e per il tipo di cinema che rappresenta, un film per le grandi masse, ma metterei la mano sul fuoco che alla fine potrebbe conquistare un po’ chiunque, anche i più scettici.

Certo, all’inizio può spaventare: si apre con una lunga sequenza in soggettiva. Lo spettatore si trova a guardare ciò che vede il protagonista Jean-Dominique Bauby, direttore di Elle, che si risveglia dopo tre settimane di coma dovuto ad un improvviso ictus. Il primo passo dopo il coma è lungo, e lo spettatore si trova a vedere tutto offuscato, ombre di persone, suoni appena accennati.

E’ l’inizio, meraviglioso, di un meraviglioso film. Che sfida le regole del cinema e riesce a raggiungere lo spettatore fin sotto la pelle e a restarci per molto tempo. E’ un progetto rischioso, che può sembrare anche furbo per chi il cinema lo guarda con la malizia e con l’occhio puramente tecnico. E così facendo, si potrà riscontrare un’assoluta perfezione delle immagini e dei suoni: ma c’è chi potrà pensare che il tutto sia fin troppo calcolato.

Julian Schnabel è invece un abile autore, che sa regalare la tecnica alle sue profondissime idee: hai detto poco. Lo scafandro e la farfalla non è solo la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico di Bauby, che scrisse e “dettò” (poteva comunicare solo col battito della palpebra sinistra) la sua biografia ad una redattrice lettera per lettera e morì tredici giorni dopo averlo pubblicato.

Il film di Schabel è un intelligente viaggio interiore all’interno di uno scafandro (il corpo paralizzato) in cui lo spettatore può immedesimarsi totalmente nel pensiero, grazie ad una voce-off che non diventa mai superflua ma spesso è capace di grande intensità e di notevole ironia, del protagonista e così vivere una vera e propria esperienza, di delicatezza ed umanità rare, e trovare così una farfalla.

Non la malattia, non il dolore, non la famiglia (che anche in questo film è divisa, con una bellissima moglie da cui si è separati e figli che non si vorrebbe vedere solo per non farli soffrire). O almeno non solo questo: Lo scafandro e la farfalla è un film sulla sfida, sulla pazienza, sulla persistenza. E poi, giustamente, un film sul cinema e sulla visione: non è un caso che il montaggio spesso coincida col battere delle palpebre di Bauby.

Standing ovation per Mathieu Amalric, che sotto una smorfia raggelata dagli eventi dimostra finalmente a chi ancora non l’ha capito cosa voglia dire recitare sul serio con gli occhi. E applausi a scena aperta alla fotografia, ai flash-back non inopportuni, ai personaggi di contorno che non sembrano mai superflui, alla ricca colonna sonora, che si apre e si chiude con la sempreverde La mer di Trenet. E applausi per Schnabel: che c’ha creduto, che c’ha provato, che c’è riuscito e ci ha fatto scorrere sincere lacrime. Scritto da:  -cineblog.it

 

RECENSIONE 2

Se è vero che ogni spettatore che scrive di cinema, per lavoro o per semplice passione, dovrebbe comunque conservare sempre uno spirito che sappia andare oltre i meriti meramente artistici della pellicola di turno, in alcune circostanze il fattore “cuore” si pone obbligatoriamente al di sopra della ragione stessa.

La storia è già di per sé di quelle straordinarie: Jean-Dominique Bauby fu un giornalista francese, redattore capo della nota rivista “Elle”. Colpito da un ictus nel dicembre del ’95 a 43 anni, quando si risvegliò 20 giorni dopo l’incidente si accorse che il suo corpo aveva del tutto perso sensibilità e poteva controllare soltanto la sua palpebra sinistra: si tratta di una rarissima condizione chiamata Locked-In syndrome.

Nelle suddette condizioni riuscì, incredibilmente e con impensabili modalità, a dettare pensieri ed emozioni così “scrivendo” il libro “Lo scafandro e la farfalla”. Morì nel ’97 per un arresto cardiaco, due giorni dopo la pubblicazione del libro.

Il film parla di tutto ciò, spingendosi perennemente oltre, addentrandosi il più possibile nella mente (attraverso una voce-off d’obbligo, comunque mai produttrice di verbosità) di Bauby (Mathieu Amalric, ottimo), quando non nel corpo: la spiazzante e lunga parte iniziale parte dalla soggettiva dell’occhio a fuoco/non a fuoco, quasi a mettere da subito lo spettatore davanti a una realtà terribile. Ma sorprende il modo in cui si evitano con molta puntualità patetismi e ricatti che pure ci si aspetterebbe di trovare (da confrontare con il meno bello e più scontato “Mare dentro” di Amenàbar): innanzitutto lo fa grazie a un uso sottile e mai invadente di un’ironia pure essa spiazzante, che contribuisce a spazzare via ogni facile pietismo.

Julian Schnabel non indulge sul volto devastato dell’uomo, preferendo ciò che resta allo stesso: i ricordi e l’immaginazione, mescolando la fanciullezza dei figli e momenti di intimità amorosa con viaggi immaginari dove la fantasia si pone tra acque e piante, invase da una farfalla splendida, ma comunque incapace di svettare in volo. E l’onnipresente presenza femminile che aleggia come massima espressione di quel raggiungimento di felicità andata perduta.

“Lo scafandro e la farfalla” è un film frammentario, fin sconnesso, fragilissimo ed incerto che quasi mette in discussione la sua evidente ricerca visiva. Per fortuna l’autore si muove con la consapevolezza dell’impossibilità di rappresentare l’irrappresentabile, e il film diventa al contempo, non necessariamente con volontà e premeditazione, una metafora del cinema stesso, su le possibilità che una visione può scaturire, sull’impossibilità di appagamento totale della stessa. Tuttavia si farebbe un torto al film nell’inquadrarlo come formato audiovisivo per riflettere sulla forma filmica, così come situarlo di fianco a una tavolozza di pittura neoespressionista, propria di Schnabel, da sempre più famoso come pittore che come regista.

Possiamo banalmente dire che “Lo scafandro e la farfalla” è un film sulla libertà interiore, capace di traiettorie di inaudita bellezza. E’ quindi un film che ci parla di un essere umano, dell’essere umano, semplicemente. E credeteci: commuove.

di Diego Capuano ondacinema.it

 

VIDEO

 

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Cosa dico ai miei figli?

21_Cosa_dico

 

 

Cosa dire, come comportarsi con un bambino, un adolescente, quando il malato di tumore è la madre o il padre?

Come comportarsi nella vita quotidiana?

Quanto è giusto che il bambino sappia, soprattutto quando la malattia non sembra rispondere al trattamento, o peggio, si ha la certezza del fallimento?

A questa domanda cerca di dare una risposta  il libro COSA DICO AI MIEI FIGLI?  

scaricabile gratuitamente dal sito dell’AIMaC  Associazione Italiana Malati di Cancro.

 

 

 

Tratto dal libro (leggi tutti il libro sul sito AIMaC):

Perché è utile informare i bambini

  • I bambini hanno il diritto di conoscere tutto ciò che accade in famiglia, quindi anche di sapere che il padre o la madre ha una malattia seria come un tumore. Tenerli all’oscuro è una mancanza di fiducia nei loro confronti.
  • I bambini riescono ad intuire che qualcosa non va in famiglia. Tacere per proteggerli potrebbe indurli a sviluppare paure peggiori della realtà e a pensare che ciò sia un argomento troppo drammatico da affrontare. I bambini tollerano meglio la verità, anche se dolorosa, piuttosto che l’ansia derivante dall’incertezza del non sapere. Non si può evitare di rattristarli, ma se condividerete con loro i vostri sentimenti e li informerete di ciò che sta accadendo, potrete evitare che si sentano soli nella loro tristezza.
  • I bambini potrebbero venire a sapere la verità da qualcun altro oppure ottenere informazioni errate dalla televisione o da altre fonti.
  • I bambini possono sentirsi isolati se non sono informati. Potrebbero pensare di non essere abbastanza importanti da essere coinvolti in una ‘questione di famiglia’.
  • I bambini percepiscono ciò che succede intorno a loro, anche se non capiscono il vero significato di tali avvenimenti. Per esempio potrebbero pensare: “Mi arrabbiavo con la mamma quando mi diceva di raccogliere i giochi e metterli a posto. Poi si è ammalata. Forse l’ho fatta ammalare io.”
  • I bambini che conoscono la situazione possono contribuire ad allentare la tensione e a creare un clima di autenticità.

Condividere le emozioni e l’impegno della malattia può essere l’occasione per imparare a conoscere i sentimenti e la forza dello spirito umano nei momenti difficili.