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L’Innocenza: La verità a tre voci nel nuovo film di Kore’eda

Regia di Kore’eda Hirokazu. Titolo originale: Mostro

Giappone, 2023, durata 126 minuti. Età: dai 13 anni

TRAMA

Minato che ha 11 anni e vive con sua mamma vedova, inizia a comportarsi in modo strano e torna da scuola sempre più avvilito. Tutto lascia pensare che il responsabile sia un insegnante, così la madre si precipita a scuola per scoprire cosa sta succedendo. Ma la verità, come spesso accade nei film di Kore-eda, si rivelerà essere un’altra e i fatti sveleranno una profonda e toccante storia di amicizia.

RECENSIONE di STEFANO LO VERME movieplayer.it

Se soltanto alcuni possono averla, quella non è felicità: non ha senso. La felicità è qualcosa che chiunque può avere.

È con queste parole che Makiko Fushimi (Yuko Tanaka), direttrice di una scuola elementare, tenta di rassicurare Minato Mugino (Soya Kurokawa), l’alunno che le ha appena rivelato una parte del suo segreto. Il dialogo fra i due personaggi avviene in prossimità della conclusione de L’innocenza e rappresenta un momento in cui le barriere della prudenza e del sospetto vengono scavalcate dal bisogno di una condivisione autentica e sincera. E nel cinema di Hirokazu Koreeda, da sempre improntato a un profondo umanesimo, la connessione fra gli esseri umani costituisce un ingrediente fondamentale: la chiave di volta necessaria su cui sperare di erigere la propria felicità e quella altrui. La dicotomia tra la forza delle connessioni e il muro dei pregiudizi è dunque al centro del nuovo film del più celebrato regista giapponese della scena contemporanea.

Ma la condivisione e, di conseguenza, l’empatia sono obiettivi quanto mai difficili da raggiungere: non a caso l’intreccio de L’innocenza si sviluppa come un’ideale corsa a ostacoli tra fraintendimenti, menzogne e accuse, in cui spesso sembra che sia la società stessa a ingabbiare e reprimere gli istinti più genuini dei protagonisti. Un’impressione accentuata dalla peculiare struttura narrativa adottata da Hirokazu Koreeda, che per la prima volta dalla sua opera d’esordio (Maborosi, del 1995) sceglie di dirigere un copione firmato da un altro autore, Yuji Sakamoto, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2023. Lo script di Sakamoto, infatti, si ammanta a più riprese di un’aura di mistero, inducendo gli spettatori, così come i personaggi, a elaborare dubbi e ipotesi. Chi ha appiccato l’incendio mostrato nella scena d’apertura? Quali sono le ragioni del malessere dell’undicenne Minato? E perché il suo compagno di classe Yori Hoshikawa (Hinata Hiiragi) è convinto di essere un mostro?

Tre punti di vista sulla verità

Monster (Kaibutsu), del resto, è il titolo originale del film, in cui il concetto di ‘mostruosità’ si affaccia alla mente più volte, ma con sfumature via via differenti. Un potenziale atto mostruoso è alla radice delle angosce di Saori Mugino (Sakura Ando), giovane vedova e madre di Minato, che vede crescere le preoccupazioni per lo strano comportamento del figlio, fino a convincersi che a scuola gli sia accaduto qualcosa di terribile. Il primo segmento de L’innocenza aderisce completamente alla prospettiva di Saori, sconvolta dalle frasi deliranti di Minato (“Il mio cervello è stato scambiato con quello di un maiale”) e determinata a individuare il responsabile del suo disagio. E mentre l’istituzione scolastica si trincea dietro una cortesia di facciata, ad emergere è l’ambiguo ruolo svolto da un insegnante, Michitoshi Hori (Eita Nagayama), il quale pare aver colpito – per errore? – Minato, ma che imputa allo studente di essere un bullo a danno di Yori, bersaglio delle discriminazioni omofobe dei compagni.

Ma la verità, ci suggerisce Koreeda, è una faccenda molto più complicata di quanto appaia a prima vista. La diversa percezione di rapporti e sentimenti è un tema già esplorato in precedenza dal regista, a partire dal titolo emblematico del suo film francese del 2019, Le verità; e in questa occasione, Yuji Sakamoto costruisce la storia mediante tre capitoli che ripercorrono di volta in volta gli stessi eventi da tre punti di vista distinti: prima quello di Saori, poi del maestro Michitoshi e infine di Minato. Si tratta di un tòpos entrato nel codice genetico del cinema nipponico (e non solo) fin dai tempi dell’ormai mitico Rashomon di Akira Kurosawa: in questo caso, però, non si tratta di sottolineare l’inaffidabilità dei narratori, ma piuttosto di mettere in evidenza la parzialità inesorabile dello sguardo, e pertanto l’impossibilità di giungere a una piena comprensione del reale. Perlomeno, fin quando non si è disposti ad abbracciare anche le prospettive degli altri, ad accoglierne l’esperienza e a capirne le ragioni.

È quanto prova a fare Michitoshi, la cui visione ribalta quella di Saori: se per la madre Minato è la vittima, per Michitoshi al contrario il ragazzo è il bullo che si accanisce su Yori, la cui delicatezza lo rende inerme – ma forse anche immune – di fronte alle angherie dei coetanei (“Quando vieni attaccato, abbandoni tutta la tua forza e ti arrendi… non provi più niente”, afferma lo stesso Yori nella gara a indovinelli con Minato). Né Saori, né Michitoshi hanno un quadro completo della realtà, ma Hirokazu Koreeda evita di giudicare – e tantomeno condannare – i propri personaggi, motivati da nobili intenzioni. La ‘mostruosità’, semmai, è negli occhi di chi non riesce a provare amore né empatia, come il padre di Yori, Kiyotaka (Shido Nakamura), che a proposito del figlio sostiene: “Lui è un mostro. Il suo cervello non è un cervello umano, è il cervello di un maiale”. Nel titolo italiano, l’attenzione si sposta invece sulla purezza dei più piccoli, immersi in un microcosmo in cui faticano ad accettare davvero se stessi e il proprio universo emotivo.
E i due giovanissimi co-protagonisti, Soya Kurokawa e Hinata Hiiragi, lasciano meravigliati per la spontaneità e l’intensità con cui prestano volto e voce ai turbamenti di Minato e Yori: il primo con un’inquietudine in cui si mescolano rabbia e paura, il secondo con la granitica dolcezza che manifesta in ogni situazione. Nell’ultimo segmento de L’innocenza, lo sguardo di Minato non soltanto aggiunge i tasselli mancanti al nostro mosaico, ma carica il racconto di nuove sfumature: dall’incertezza insita nell’abbandono dell’infanzia per fare ingresso nell’adolescenza all’avventuroso romanticismo della foresta che lui e Yori trasformano in uno spazio privato e ‘magico’. Uno spazio in cui pensieri e sentimenti possono esprimersi in piena libertà, al riparo dalle pressioni e dai soprusi del mondo degli adulti, e in cui a una furiosa notte di tempesta può far seguito al mattino un’esplosione di gioia e di rinascita.

VIDEO

TRAILER

https://youtube.com/watch?v=r9xDiKD9_oc%3Fsi%3DpnFJjQALDKmk1T2T

Un gioco innocente

https://youtube.com/watch?v=BVNYCpv33CU%3Fsi%3Dymnjgk7B55D5JT43

Kinds of Kindness

Regia di Yorgos Lanthimos- Gran Bretagna, 2024, durata 165 minuti. Età dai 16 anni

  1. Recensione
  2. trailer e video

RECENSIONE di Martina Belluscio pubblicato su dasscinemag

In matematica, la proprietà commutativa insegna che se cambi l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Yorgos Lanthimos sembra averlo capito molto bene, specie se il risultato è un bel film. Presentato a Cannes, Kinds of Kindness (trailer) segna il ritorno al cinema del regista dopo i fasti che hanno inaugurato il 2024. Una dichiarazione d’amore al proprio modo libero di rappresentare la realtà, quasi a ricordarlo a chi l’avesse scoperto solo recentemente.

Chi si aspettava però la magnificenza di Povere Creature! è rimasto inevitabilmente deluso. Kinds of Kindness è un film ridotto all’osso, che va diretto al punto. Dimentica la coerenza narrativa e la speranza del suo ultimo lavoro e torna a raccontare uomini e donne in frammenti. Smette di viaggiare tra le epoche storiche (anche se l’epoca vittoriana de La Favorita sembra andare molto di moda) e si ferma nella contemporaneità.

Il film è infatti composto da una serie di quadretti che dipingono la realtà, dove i protagonisti si alternano per raccontare tre storie: un uomo che lascia che le proprie scelte di vita siano dettate da un’altra persona, che pretende la sua libertà a tal punto da costringerlo a commettere un omicidio, un uomo che non riconosce più la moglie di ritorno da una spedizione, e una setta che cerca un’eletta guaritrice.

Lanthimos gioca con la follia quotidiana, ne racconta le sfaccettature con una particolare forza propulsiva, quasi un rito bacchico, dove il confine con la normalità è continuamente sfumato e il racconto equivale a una sorta di liberazione. L’incapacità di scegliere e la necessità di avere una sorta di divinità che ci guidi all’interno delle scelte di ogni giorno, l’impotenza di un uomo di reagire al cambiamento di una donna e la costrizione a farsi dare tutto ciò che vuole fino ad ucciderla (e ritrovarla solo nel sogno), l’inganno dell’uomo di credersi vicino alla divinità. Una fotografia a colori del mondo di oggi, moderni Icaro che si avvicinano troppo al sole e sciolgono fragili ali di cera. L’unico veramente immortale è R.F.M: l’uomo comune, nascosto dietro un nome fittizio, diventa il collante della storia. Il solo personaggio fisso, forse a suggerirci che solo attraverso la normalità delle azioni quotidiane possiamo sopravvivere ai continui stimoli che ci portano fuori strada.

Kinds of Kindness va oltre la lettura del presente, crea l’immagine di un’epoca usando come filtro una sorta di suggestione allucinatoria che si vede fin dai primi secondi. Un espediente per permettere al messaggio di passare più velocemente.

Kinds of Kindness recensione film di Yorgos Lanthimos DassCinemag
Il regista torna a dirigere un cast che sembra ormai essersi plasmato al suo modus operandi, una vera e propria famiglia artistica. Dopo Povere creature! ritroviamo una magnetica Emma Stone (anche qui diventa ballerina per un attimo), Willem Dafoe in un’angosciante sete di potere e tutta la grazia sensuale di Margaret Qualley. Si aggiungono Jesse Plemons (che con questo film porta a casa il premio alla migliore interpretazione maschile della kermesse) e Joe Alwyn. Ognuno di loro è un pezzo intercambiabile all’interno dei singoli episodi, quasi come se fossero universi paralleli intrappolati in un eterno presente senza scampo.

È un film estremamente silenzioso, che usa la musica solo nei titoli di testa e coda: esemplare l’uso di Sweet Dreams degli Eurythmics, musica disco che stride con le dissonanze classiche del resto del film, ma che sembra anticipare la potenza emozionale e quasi inquietante che impregna ogni secondo. Le numerose inquadrature ai dettagli, ai gesti meccanici, importanti soprattutto nel primo episodio, restituiscono la soffocante società moderna e il suo controllo, per poi dimostrare quanto il tutto sia effimero.

Lanthimos non prende una netta posizione, non può permettersi di fare un ennesimo film di critica sociale. Ce ne sono fin troppi. Restituisce senza troppe costruzioni il ritratto destabilizzante del nostro quotidiano, a prima vista semplice, ma in realtà resta impresso e risulta quasi inevitabile, qualche giorno dopo la proiezione, non ripensare a quelle due ore e mezza disturbanti, tra un swipe up e l’ennesimo consigliato “per te” di Netflix. La kindness richiamata nel titolo è quindi, forse, la delicatezza del regista nel farci credere che tutto il racconto sia solo un sogno, lontano, mentre aspetta che, prima o poi, ci sveglieremo.

VIDEO

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KINDS OF KINDNESS | Clip dal Film | “Andiamo tutti su in camera”

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GREEN BORDER

Regia di Agnieszka Holland

– durata 147 min.

– Polonia, Germania, Francia, Belgio 2023

– Età dai 14 anni

TRAMA

Nelle gelide foreste che ricoprono il confine tra la Bielorussia e la Polonia, teatro dal 2021 della crisi migratoria istigata dal governo bielorusso, si incrociano le vicende di una famiglia di rifugiati siriani che lotta per attraversare il confine, della loro compagna di viaggio afghana, di una giovane guardia di frontiera polacca che sta per avere un bambino e di un gruppo di attivisti che aiuta i migranti respinti al confine.

RECENSIONE

Annalisa Camilli, internazionale.it
“Ho cominciato a girare Green border pochi mesi dopo che il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko aprisse una specie di corridoio per i profughi verso la Polonia. È stata la prima volta che la violenza e i respingimenti al confine polacco sono stati tollerati in questa forma in Europa”, afferma Agnieszka Holland, regista e sceneggiatrice del film, nelle sale italiane dall’8 febbraio. La contatto su Zoom, mentre è a Parigi e sta lavorando al suo nuovo progetto.

“Ovviamente respingimenti di questo tipo ai confini europei si verificavano anche prima: in Grecia, Croazia, Italia e Francia. Ma questa volta mi è sembrato che ci fosse un accordo generale sul fatto di permetterli, sono stati ‘normalizzati’. Il piano di Lukašenko era molto chiaro: voleva usare i profughi come un’arma di pressione, lo aveva già fatto in passato per minacciare la stabilità e l’integrità dell’Europa. E ci è riuscito”, continua la regista.

Holland, 75 anni, è forse la più famosa tra i registi polacchi e nel suo ultimo film ha usato il linguaggio cinematografico per mostrare la realtà, come non erano riusciti a fare i giornalisti e i documentaristi che hanno provato a raccontare la stessa vicenda: migliaia di famiglie condotte con l’inganno in Bielorussia dalla Siria e dall’Iraq con dei voli di stato e poi abbandonate al confine con la Polonia, nella foresta di Białowieża, nell’inverno 2021.


Il film che ha fatto infuriare il governo polacco
“Il cinema è il mio linguaggio, così ho immediatamente trasformato in finzione la realtà. È il mio lavoro: trovare un aspetto universale nelle questioni particolari e soggettive”, spiega la regista, che con Green border ha vinto il Gran premio della giuria all’ottantesima mostra del cinema di Venezia. “Quasi tutti i miei film sono basati su storie vere, è quello che faccio da sempre. Il mio sforzo è di non perdere la soggettività, provando a trasformare una storia in qualcosa di più universale”.

“In questo caso l’operazione è stata più difficile – sia per quanto riguarda la sceneggiatura sia per la regia – perché non avevo la distanza storica, non vedevo e non potevo vedere tutto l’arco della storia, i fatti stavano succedendo in quel momento. Ma allo stesso tempo ho pensato che il film avrebbe avuto un calore unico. È il primo che si occupa di questa frontiera, così mi è sembrato ancora più importante che fosse autentico”, racconta la regista, che in passato si era già occupata dell’idea di Europa e della sua ambiguità in Europa, Europa, la storia di due fratelli ebrei ambientata durante le persecuzioni naziste.


“Uno dei protagonisti del film e uno dei principali protagonisti di tutta la storia è la foresta, la natura è così potente che non riesci a pensare che sia un confine”, spiega Holland, che ha girato il film nella foresta di Białowieża, l’ultimo lembo della foresta vergine che un tempo ricopriva l’intero continente europeo. Il territorio è rimasto com’era perché era usato come riserva di caccia dello zar. Ora ricopre una parte della Polonia, della Bielorussia e dell’Ucraina.

“Attraversare la foresta e starci dentro è qualcosa che è connesso con le origini stesse dell’Europa e della storia del continente, la foresta porta con sé un’infinità di significati: è insieme pericolo e meraviglia. Anche dal punto di vista cinematografico è uno strumento molto espressivo, interpreta bene l’ambiguità dell’Europa. Da una parte il continente è la culla dei diritti umani, della democrazia, ma d’altra parte è stato ed è autore di crimini contro l’umanità”.

Per realizzare un film così direttamente legato alla realtà, Holland si è servita di attori che hanno davvero un background migratorio: sono attori professionisti, ma sono anche rifugiati. Jalal Altawil, che interpreta il ruolo del padre nella famiglia di profughi siriani (Bashir) che è al centro del film, ha vissuto per anni in un campo profughi in Europa. Mentre Maja Ostaszewska, che interpreta l’attivista Julia, uno dei personaggi principali del film, è una famosa attrice polacca, ma è anche un’attivista e interpreta se stessa.

Nel film Julia è una delle tante volontarie che pattugliavano la foresta per cercare i profughi e aiutarli con il gruppo Grupa granica. Nella realtà è stata una delle portavoce del gruppo: gli attivisti hanno di fatto sfidato il governo polacco e hanno agito al limite di quello che era consentito, rischiando di finire in carcere.

“Gli attori sono stati anche dei consulenti durante le riprese: per questo sono credibili. Hanno saputo portare nel film le loro conoscenze”, spiega la regista. “È stato un film realizzato in tempi record: ho cominciato a scriverlo nell’ottobre 2021, quando la crisi al confine era cominciata da qualche mese. Abbiamo cominciato le riprese solo nel marzo 2023, e sei mesi dopo eravamo a Venezia. La post-produzione è stata molto veloce, anche se il materiale era tanto, abbiamo dovuto correre per partecipare alla Mostra del cinema di Venezia”, continua Holland.

Fin dal principio la scelta è stata quella di girare in bianco e nero: “Ci ha aiutato a risolvere alcuni problemi dovuti al fatto che abbiamo girato in diversi mesi dell’anno. Ma la vera ragione è artistica: volevo uno stile crudo, diretto, come quello di un documentario”. Inoltre, l’ha aiutata a trovare un collegamento con il passato: “Volevo qualcosa che ricordasse l’immaginario della seconda guerra mondiale, che è ancora molto forte in quella foresta”.

Holland è una dei tre registi europei che quest’anno hanno girato film importanti sulla migrazione, quasi in contemporanea. Io capitano di Matteo Garrone mostra l’origine del viaggio, il desiderio di partire di due ragazzi del Senegal. Ken Loach nel suo The Old Oak racconta invece cosa succede a chi è già arrivato in Europa, dopo avere attraversato la frontiera. Holland rimane sulla frontiera, anzi usa il cinema per mostrare quello che nella realtà è vietato documentare, la ferocia delle recinzioni costruite per segregare chi non è europeo da chi invece lo è. I tre film, visti insieme, sembrano quasi una trilogia su uno dei temi più importanti del presente.

“Le leggi internazionali e nazionali che avevamo scritto dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo le tragedie del nazismo e dell’olocausto, sembra che siano state dimenticate. Parliamo di immigrazione, ma in realtà stiamo parlando del futuro di questo continente e anche della natura democratica dei nostri governi, dello stato di diritto. Nel film volevo dare voce ai senza voce, un volto ai senza volto. È stato anche un modo per dire che il nostro futuro è in pericolo e che il continente sta cambiando velocemente”, spiega Holland.

TRAILER

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IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO

Regia di Yorgos Lanthimos. Gran Bretagna, USA, 2017, durata 109 min. Età dai 16 anni.

TRAMA

l film racconta di Steven Murphy, un formidabile chirurgo che nasconde però un terribile segreto. A causa dei suoi problemi con l’abuso di alcol, Steven ha infatti provocato involontariamente la morte di un uomo sul tavolo operatorio. Colpito dal senso di colpa, egli decide di sostenere il figlio della vittima, Martin Lang, con il quale si incontra assiduamente presso un’anonima tavola calda. Un giorno, Steven decide di invitare Martin a cena, presentando il giovane alla moglie Anna e ai figli Kim e Bob.

Mentre Kim si invaghisce del ragazzo, Bob inizia ad accusare dei malori e non riesce più a muovere i suoi arti inferiori. Martin avverte Steven di aver scoperto la verità sulla morte di suo padre e di aver provocato la paralisi di suo figlio, per vendicarsi di quanto accaduto. Il ragazzo vuole costringere Steven a scegliere un membro della sua famiglia come sacrificio riparatore. Martin, infatti, ha lanciato una sorta di maledizione che condurrà inevitabilmente la famiglia Murphy alla morte, se il dottore si rifiuterà di esaudire la sua raccapricciante richiesta.

RECENSIONE DI LUCA CICCIONI anonimacinefili.it

Nel geniale e perturbante cinema di Yorgos Lanthimos (The Lobster, Dogtooth, Alps) nulla è lasciato al caso. Come accadeva per il suo principale punto di riferimento artistico (il Buñuel surrealista), ogni pennellata è giustapposta su una tela il cui scopo è sconvolgere e, solo dopo un’attenta analisi, esser compresa nel dettaglio.

LA PASSIONE SECONDO LANTHIMOS
Non deve quindi stupire se apriamo questa analisi richiamando l’attenzione alle note dell’incipit di La Passione Secondo Giovanni di Johann Sebastian Bach (che accompagnano la scena finale de Il Sacrificio del Cervo Sacro – The Killing of a Sacred Deer come già accadeva in Lo Specchio di Andrej Tarkovskij), e con esse al coro che canta le parole dell’VIII salmo della Bibbia: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza!». Quelle parole sono fondamentali per la comprensione dell’ultima opera del grande cineasta ellenico: sono infatti messe lì proprio per schiaffeggiarci e ricordarci che di quel dio misericordioso non c’è traccia, in un affronto finale che in modo beffardo e amaro suggella una parabola di dolore e nichilismo.

La storia del film è a dir poco stringata, seppur lasciata decantare in due ore di metraggio nelle quali l’attenzione dello spettatore viene rapita con la forza: Steven (uno straordinario Colin Farrell) è un cardiologo con una splendida moglie (Nicole Kidman) e due figli dei quali andare orgoglioso. Lo vediamo però spesso in compagnia di un ragazzo giovanissimo (il notevole Barry Keoghan, già visto in Dunkirk) senza capire la natura di questa frequentazione. Le strade dei protagonisti inizieranno a intersecarsi in modi imprevedibili quando uno dei personaggi manifesterà una misteriosa malattia.

L’IMPERFETTA TRAGICITÀ DI EURIPIDE
(l’articolo non contiene spoiler sulla trama, ma alcuni indispensabili parallelismi potrebbero suggerirne possibili sviluppi)

Il titolo del film rimanda al sacrificio con cui si conclude l’Ifigenia in Àulide, tragedia greca cui si ispira lo script firmato da Lanthimos col suo immancabile braccio destro Efthymis Filippou; ma se l’uccisione della protagonista dell’opera euripidea da parte del padre veniva interrotta da una cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide – in modo analogo all’episodio biblico del sacrificio di Isacco per mano di Abramo, in cui in extremis il Signore sostituiva un ariete al bambino –, qui non vi è traccia di alcuna divinità salvifica, a dispetto delle parti corali proposte nel finale. Anzi, Lanthimos sceglie di collocare la famiglia del protagonista nella torre eburnea della borghesia non tanto per un’allegoria politica (che non collimerebbe con tutti i passaggi della trama), quanto per potenziare la dinamica narrativa e dimostrare che nessun luogo è al sicuro: più in alto ci si illude di essere, più rovinosa può dimostrarsi la caduta.

CAMBIARE LE REGOLE DELLA REALTÀ PER RICORDARCI I NOSTRI LIMITI
Nell’universo narrativo eretto da Lanthimos e Filippou ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) infatti c’è posto per l’inspiegabile, per il metafisico, ma non per qualcosa di più grande di noi. Siamo lasciati soli con tutta la nostra incapacità di comprendere, e la sospensione delle regole della realtà – come sempre nel cinema del greco – serve solo a metterci dinnanzi ai nostri limiti, e al contempo a ricordarci che nessuno ci aiuterà a superarli.

Il dolore (che sia quello fisico di un morso o quello intangibile del rancore) è un’esperienza catartica ma ineludibile: è questo uno dei punti chiave della sceneggiatura del film, e ancora una volta Lanthimos usa la musica per sottolineare il suo intento sin dalla primissima scena del film, in cui alle immagini di un cuore pulsante si accompagna lo Stabat Mater di Schubert, e cioè una preghiera in cui il fedele chiede alla Vergine Maria di renderlo partecipe delle pene del figlio crocifisso.

LA MACCHINA DA PRESA COME UN FANTASMA
Rispetto ai lavori passati, qui il percorso del Lanthimos sceneggiatore si fa meno labirintico, meno volutamente ostico, e nel farlo si accompagna a un’evidente (per quanto non indispensabile) evoluzione tecnica del linguaggio filmico. Per esplorare un terreno mai così vicino all’horror, la macchina da presa diventa una presenza perturbante che infesta la scena.

L’occhio di Lanthimos – coadiuvato dalla fotografia di un Thimios Bakatakis mai così geniale – non è quasi mai immobile, il più delle volte si muove lento, sinuoso e imprevedibile come un serpente: i lentissimi zoom, le carrellate calme ma vibranti di tensione e i crane flemmatici si succedono senza soluzione di continuità e quasi sempre in modo imprevedibile, contribuendo a ipnotizzare lo spettatore insieme alla recitazione fredda, controllata e magnetica che il cineasta impone ai propri interpreti nei primi 50 minuti.

Lanthimos posiziona la macchina da presa sempre su piani sfalsati rispetto a quelli dei protagonisti, inquadrandoli dall’alto o dal basso quasi come fosse una camera di sorveglianza animata di vita propria, e all’inclinazione dell’inquadratura sceglie il più delle volte di abbinare delle lenti grandangolari, allo scopo di sfruttare l’effetto delle linee cadenti per costruire una sensazione di incombenza.

L’inquadratura stessa è composta il più delle volte in modo sbilanciato; accentra il peso visivo a dispetto di ogni regola compositiva e sovente taglia fuori dal frame gli stessi soggetti, quasi fosse disinteressata alle vicende di quegli umani che tanto si affannano. Addirittura la costruzione dei dialoghi offre punti di vista terzi, accentuando l’incomunicabilità che divide i protagonisti, le cui parole sono a tratti sovrastate da i suoni infausti e sovrannaturali di Johnnie Burn o vanno perdendosi nello straordinario montaggio audio.

UN CAPOLAVORO DALLA FORZA DIROMPENTE
Con Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) Lanthimos sembra voler accentuare la componente più oscura della propria poetica, interessato più a suscitare una risposta emotiva che tessere un ordito narrativo – proprio come il Tarkovskij del citato Lo Specchio. Rispetto al passato gli estimatori della filmografia del regista ateniese potrebbero soffrire la maggiore semplicità dello script (comunque premiato al 70. Festival di Cannes) e una minore (spietata e dolorosa) ironia, ma è impossibile non rimanere sopraffatti davanti a un’opera ipnotica che però mira costantemente a mettere a disagio lo spettatore, nella quale lo sguardo stesso del regista è una presenza minacciosa. Un’opera che ha il suo perno in una scena dal sapore rituale: un malato ‘girotondo’ con tanto di cappucci bianchi e neri (con un codice cromatico esplicito e archetipico) iscritto all’interno di una trinità senza l’ombra di un dio, pronta però a rigenerarsi quando il carnefice diventerà a suo modo vittima. Una vetta artistica altissima, da far contemplare nelle scuole di cinema. Un capolavoro sul sacrificio, il dolore e la responsabilità, dal grande significato ma che colpisce anche chi non sia interessato a cercare una spiegazione. Uno dei più straordinari film degli ultimi decenni.

VIDEO

TRAILER

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LA CENA

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IL CEDIMENTO

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POVERE CREATURE

Siamo noi le povere creature,

che possiamo solo osservare dallo spioncino

un mondo libero e pieno di colori.

Regia di Yorgos Lanthimos.

USA, 2023, durata 141 minuti.

Età dai 16 anni

  1. Trama
  2. Recensione
  3. Video

TRAMA

Londra, in un’epoca futura, ma simile a quella del passato vittoriano per architettura, disuguaglianze e rigidità mentale. La giovane Bella (Emma Stone) viene riportata in vita, dopo un suicidio, dal ricco scienziato Godwin (Willem Dafoe), che pratica esperimenti “frankensteiniani” e non ortodossi.

L’uomo accudisce e cresce la ragazza come una figlia. Bella ha un comportamento che sta tra il cucciolo e la bambina problematica. Godwin cerca di insegnare a Bella a parlare, comportarsi educatamente e stare al mondo. Il gentile e serio studente di medicina Max McCandless (Ramy Youssef), allievo di Godwin, frequentando casa Baxter si innamora della ragazza e la chiederà in sposa.

Ma il losco e vizioso avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) la porta con sé per un’avventura transoceanica. Bella farà esperienza di sesso, bellezza, ma anche delle bruttezze del mondo…

2. RECENSIONE di Teresa Monaco cinematographe.it

La scoperta passa per la sperimentazione, che si fa sistematica trasformazione dei corpi, che si incasella a sua volta nel ritrovamento di un piacere ancestrale, meccanico, naturale. In Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos, presentato in Concorso alla 80ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, la bellezza stride con l’evoluzione, producendo un’ondata di piacere incommensurabile che sfiora la vista, l’udito e il cuore.

Basandosi sul romanzo di Alasdair Gray e lavorando su una sceneggiatura di Tony McNamara, il regista di opere come The Lobster (2015), Il sacrificio del cervo sacro (2017) e La favorita (2018) sa imbrigliarci ancora una volta in un emisfero possibile in cui l’umano si fa artefice del mostruoso e del meraviglioso.
Il dottor Godwin Baxter interpretato da Willem Dafoe, che non a caso abbrevia il suo nome in God, ovvero Dio, è un rivoluzionario Frankenstein, risultante anch’egli di incresciose sperimentazioni inflittegli dal padre in nome del progresso e della scienza. Bella Baxter (Emma Stone) è la sua creatura: una donna riportata in vita nella cui testa è stato trapiantato il cervello del feto che portava in grembo.
Il suo nome non è affatto un caso, poiché la donna seduce nonostante il suo handicap. Impara poco alla volta, impara come un bambino viziato, tradendo il buon costume e le logiche convenzioni dello stare al mondo e sfuggendo alla gabbia dorata all’interno della quale il suo creatore vorrebbe costringerla. Bella ha sete di scoperta e fugge senza remora insieme a Duncan Wedderburn, un avvocato scaltro e dissoluto, fin troppo convinto delle sue abilità sessuali, a cui presta il volto Mark Ruffalo.

La scoperta è, sotto ogni punto di vista, il motore che muove Povere creature! di Yorgos Lanthimos e lo fa verso più direzioni, coinvolgendo e stravolgendo tutti i sensi dello spettatore. Potremmo dire che il film è un coming of age sui generis, poiché denota il passaggio dall’età dell’innocenza alla consapevolezza del proprio corpo come mezzo per raggiungere il piacere: nella strettoia che collega questi due frangenti, però, Lanthimos infarcisce molti più sottotesti e lo fa con un’ironia pungente, tale da farci riflettere e intagliarci dentro nello stesso istante in cui ci fa ridere fino alle lacrime e ci fa riconoscere esattamente lì, su quella tavolozza di celluloide che si mobilita sul grande schermo. Siamo il risultato di un abuso, lo scarto meccanico della società, siamo le emozioni che scegliamo di soffocare e che ci inibiscono la felicità.

Immagini da ingurgitare con gli occhi in un “coming of age” sentimentale e fantascientifico
Povere creature! (Poor Things) Emma stone Mark Ruffalo – Cinematographe
L’autore ci attrae a sé senza indugi, catapultandoci in un mondo in bianco e nero attraverso il canale preferenziale di una musica fatta di rintocchi striduli e suonate di pianoforte a intermittenza, musica che rimbomba come una bolla d’acqua assopendo tutto il resto e infilandosi tra le cicatrici della realtà. Se il compositore Jerskin Fendrix, coadiuvato dai suoni di Johnnie Burn, ci fa inarcare dentro le sue sinfonie, è alla fotografia di Robbie Ryan che dobbiamo la smania della tattilità visiva. Il suo obiettivo cattura angoli astrusi e pertugi mai esistiti e li spennella di realtà (meritano una menzione, chiaramente, la scenografia di James Price e Shona Heath, i costumi di Holly Waddington e gli effetti visivi di Simon Hughes), richiamando a tratti l’arte di Escher: il mondo appare riflesso, lontano, luminoso, tanto avanzato quanto irrimediabilmente inabissato in un passato scientificamente retrogrado. Il bicolore passa gradualmente all’accecante magia delle sfumature pastello e in entrambi i casi la messa in scena ci indica che non è realtà, poiché graficamente parlando non esiste normalità. Si è reclusi nella mancanza di colori oppure si eccede nella loro presenza fino a ingurgitarli con gli occhi. I paesaggi e i personaggi, nonché i luoghi in cui viaggiamo (Lisbona, Alessandria, Parigi) sono cartoline fantasiose ed entusiasmanti in cui surrealismo ed iperrealismo convivono con un’ingenuità spaventosa e disarmante.

Povere creature! (Poor Things) e gli occhi di Emma Stone come setaccio della realtà

Yorgos Lanthimos, dal canto suo, anche in questo caso non ci regala realtà, ma un mondo migliore, visto talvolta come dallo spioncino di un portone, talaltre incastrano in estasi di piacere.
Inutile sottolineare come il personaggio di Emma Stone e l’encomiabile interpretazione dell’attrice siano la cifra fondante dell’intera opera: dai suoi occhi passa tutta l’innocenza e tutto il peccato, passa la sottomissione, la voglia di emancipazione e la mercificazione del corpo femminile, nonché lo stratagemma di un’intelligenza mascherata d’isteria.
È bene chiarire che Povere creature! non è solo un dialogo dell’autore col pubblico, bensì un’ipotetica messa in scena in cui converge tutta la sua produzione passata, ovvero quella filmografia in cui l’umano e il bestiale comunicano, mettendo sulla bilancia l’umanità e svuotandola di socialità e convenzionalità.
L’istinto perspicace e audace di Bella la induce a fare tutto ciò che qualsiasi essere umano vorrebbe (talvolta) fare, come esternare atti di violenza nei confronti di un neonato che disturba al ristorante o ritenere divertente l’idea di fare sesso smodatamente. Ammettetelo, su: se fosse lecito, se fosse educato, sareste tutti Bella Baxter e mandereste al diavolo con nonchalance tutte quelle etichette di presunta civiltà che dovrebbero aiutarci a vivere in un mondo più bello e più giusto.

Con incantevole raffinatezza e ironia Yorgos Lanthimos ci pone sul piatto d’argento una società in cui la felicità e la libertà sono un miraggio. Lo fa facendo passare tutto dagli occhi di Bella: la sua prospettiva sulle cose funge da travolgente e autentica lente d’ingrandimento per affrontare questione delicatissime e irrisolte.
La bellezza del personaggio della Stone è che esteticamente ed esteriormente non muta: il suo fascino esteriore è lapalissiano e il suo corpo è come miele per qualsivoglia pretendente. La sua è però una rivoluzione interiore che inizia nel momento stesso in cui scopre che può procurarsi piacere stimolandosi i genitali. Bella è come un’adolescente in preda alla voglia e alla sperimentazione ma, a differenza di una normale adolescente, ha un aspetto di donna che le conferisce un biglietto da visita preferenziale e un “padre” che non le pone limiti di alcun genere. E, cosa più importante, è scevra da pregiudizi. Ma c’è un muro di gomma contro il quale la protagonista si scontrerà sempre e sono gli uomini che desiderano solo una cosa: controllarla e mutilarla, sia nel corpo che nello spirito.

Isteria, infibulazione, prostituzione e controllo
povere creature recensione cinematographe.it
Ramy Youssef and Emma Stone in POOR THINGS. Photo by Yorgos Lanthimos. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 20th Century Studios All Rights Reserved.

A tal proposito, è interessante annotare l’ironica eleganza con cui l’autore riesce a immettere nell’opera l’anatomica supremazia della donna sull’uomo (Bella può fare sesso tutte le volte che vuole, mentre Duncan ha i suoi limiti, come tutti gli uomini!) e la stessa idea della prostituzione, vista come un punto a favore (“mi pagano per fare sesso?”) e non come “l’atto più deplorevole che una donna possa fare”. Non manca poi il dettaglio sulla pratica dell’infibulazione – barbara pratica ancora tristemente in voga in alcuni Paesi – vista come risoluzione a tutte le strambe idee di Bella, il che ci collega all’antico concetto di isteria.

Tutto, insomma, finisce per passare dal sesso, in tutti i sensi. L’organo riproduttivo femminile è causa di conoscenza, emancipazione e libertà e i suoi “bisogni” collidono con le presunte buone maniere, urtano la mascolinità appiccicosa e becera, sconfinando in azioni e parole. E, si sa (siamo ovviamente drammaticamente ironici), quando una donna parla troppo non si può far altro se non ucciderla.
Lanthimos ridicolezza l’odio (personificato dall’attore Christopher Abbott) relegandolo in un corpo di uomo e un cervello di capra e crea filamenti sottilissimi tra passato, presente e futuro, poiché Bella è le donne di tutte le epoche, accantonate solo perché donne, perché definite inferiori, perché isteriche, perché pensanti.

Povere creature! (Poor Things): valutazione e conclusione

C’è un rischio altissimo che si corre, vedendo Povere creature! (Poor Things) di Yorgos Lanthimos ed è l’inevitabile dipendenza dalle battute di Emma Stone, deliziosamente più eccitanti dei suoi seni scoperti. L’altra probabilità è che possiate rinvenire fugacemente in quest’opera tantissime altre opere cinematografiche e letterarie e si, può anche darsi che tutti questi legami siano leciti, ma a nostro avviso Poor Things non è eco di niente, bensì essenza nuova, incontenibile e necessaria. Rimarrete estasiati!

3. VIDEO

TRAILER

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FOGLIE AL VENTO

Regia di Aki Kaurismäki. , – Finlandia, 2023, durata 81 minuti. Età dai 13 anni

Le foglie morte cadono a mucchi
e come loro i ricordi, i rimpianti
Ma il mio fedele e silenzioso amore
sorride ancora, dice grazie alla vita

Recensioni e video
di Andrea Chimento (il sole 24 ore)

Una pellicola di grandissima umanità, perfetta per le feste natalizie: “Foglie al vento” di Aki Kaurismäki è il film ideale da vedere in sala questo weekend.
Sei anni dopo il notevole “L’altro volto della speranza”, il regista finlandese è tornato dietro la macchina da presa per raccontare la storia di un uomo e di una donna che si incontrano una notte a Helsinki. I due hanno vite difficili, segnate dal disagio e dalla precarietà, ma il loro incontro sarà l’inizio di una storia che li aiuterà ad amare di nuovo.

Quarto capitolo di film dedicati da Kaurismäki al tema del proletariato, dopo “Ombre nel paradiso” (1986), “Ariel” (1988) e “La fiammiferaia” (1990), “Fallen Leaves” è una delicatissima e tragicomica storia d’amore perfettamente nelle corde del regista scandinavo.Bastano poche inquadrature per ritrovare il classico tocco dell’autore, sempre più essenziale e minimalista e capace di toccare corde profondissime con una pellicola che è sia un inno alla vita e all’amore, sia un grande omaggio alla storia del cinema.

Kaurismäki propone infatti tantissime citazioni, compresa una per l’amico Jim Jarmusch, del quale viene proiettato in un cinema l’ultimo lungometraggio, “I morti non muoiono”. Gli omaggi poi vanno al passato, con diversi riferimenti all’amato Robert Bresson (maestro proprio di quel minimalismo di cui Kaurismäki è oggi uno dei massimi discepoli), a Jean-Luc Godard e uno magnifico, poetico ed emozionante a Charlie Chaplin, da sempre una delle grandi ispirazioni del regista.

Malinconia e sorrisi
È un film carico di malinconia, “Foglie al vento”, ma è anche un lungometraggio capace di farci sorridere e dare fortissima speranza all’interno del contesto oltremodo desolante che va a raccontare.Oltre alle difficoltà del mondo del lavoro, il film propone tematiche di grande attualità, a partire da quelle trasmissioni radiofoniche in cui si sentono di continuo le agghiaccianti notizie della guerra in Ucraina. Nonostante la cornice ricca di elementi drammatici, Kaurismäki trova come sempre la giusta ironia, riuscendo a dare vita a una pellicola umanissima e appassionante. Splendide sono poi numerose inquadrature, dal taglio prettamente pittorico ed efficaci nel richiamare i quadri di Edward Hopper: l’uso che fa delle luci e dei colori è da studiare nelle scuole di cinema e ogni singola immagine è sempre personale e capace di emozionare.Il risultato è un film imperdibile, tra i più belli dell’intera stagione, che ha meritatamente ottenuto il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2023.

trailer

https://youtube.com/watch?v=VQU3pA4x1jM%3Fsi%3D9m9y4b8oghFcCcvM

casa

https://youtube.com/watch?v=BlpDA-_2rQw%3Fsi%3DoPeUwgpK7C7ZOjW1

Credevo fosse diverso

https://youtube.com/watch?v=Oitqk22JxS8%3Fsi%3DBGK2D-M_AokI4P5v

Ti è piaciuto il film?

https://youtube.com/watch?v=XwsrP4uXLjk%3Fsi%3DdhiwTzuKLlcr6Rdf

PERFECT DAYS

PERFECT DAYS
Regia di Wim Wenders.

Giappone, Germania, 2023, durata 123 min.

Età dai 13 anni

Un film che ci ricorda come anche nei momenti cupi e oscuri, si possono scorgere raggi di luce che possono illuminare la nostra esistenza.

SCENE

Clip “Patti Smith

https://youtube.com/watch?v=KCQ9-CMLnEA%3Fsi%3DxK-Qin1-V_3AsaZy

Clip “La canzone”

https://youtube.com/watch?v=ElsjVVFXCjU%3Fsi%3DPUj1Wiev8XTq9inC

 Clip “Foto”

https://youtube.com/watch?v=Q20KVk06XoU%3Fsi%3DBJzYpRgR0e-e9APZ

THE FABELMANS

Regia di Steven Spielberg. USA, 2022, durata 151 min. Età: +13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

(Ti intessa l’utilizzo dei film in ambito educativo leggi BUONA VISIONE – Educare con i film)

  1. Sinossi

The Fablemans viene descritto come il film più personale di Steven Spielberg.

Al centro della storia c’è il giovane Sammy Fabelman, la cui passione per la regia è sostenuta dalla madre. Nel corso degli anni, Sammy è filma spesso le avventure della sua famiglia, tuttavia, a sedici anni, quando la sua famiglia si trasferisce, Sammy scopre una straziante verità sulla madre che ridefinirà la loro relazione e cambierà per sempre il futuro di tutti quanti.

2. Recensione

Quella del regista che racconta se stesso, e in particolare la sua infanzia o giovinezza, non è certo una novità, ma spicca come negli ultimi anni diversi registi abbiano messo su pellicola dei ricordi intimi e familiari: Alfonso Cuarón con Roma, Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, Kenneth Branagh con Belfast, Carla Simón con Alcarràs e, ultimo in ordine di uscita, Steven Spielberg con The FabelmansPer quest’ultimo l’idea arriva direttamente da uno dei personaggi che vediamo in scena, difatti è stato lo stesso Spielberg a dichiarare che fu sua madre a chiedergli di fare un film sulla storia familiare.

Et voilà, a quasi 76 anni e al suo trentaquattresimo film il regista americano racconta tanto se stesso da giovane, soprattutto la nascita e la crescita del suo amore per il cinema, e la storia dolorosa della separazione dei suoi genitori. Spielberg riesce ad unire splendidamente i due temi, che sembrano legarsi l’un l’altro: non è casuale che proprio grazie ad alcune riprese fatte durante una vacanza il giovane Steven, che qui si chiama Sammy ed è interpretato da Gabriel LaBelle, scopre un segreto che porterà al progressivo sgretolamento del suo nucleo familiare. Ecco che il dolore e l’estro creativo entrano in una strana relazione fatta di necessità e repulsione. Ciò che più colpisce di The Fabelmans è la capacità del regista di raccontare la sua famiglia con una dolcezza e una capacità di comprensione dei limiti personali non indifferente, tipica di chi ha compreso fino in fondo chi erano i suoi genitori ed è riuscito ad andare oltre i sentimenti che un figlio prova, incondizionatamente, verso mamma e papà.

Paul Dano e Michelle Williams, che qui interpretano i genitori del giovane Sammy, sembrano una coppia potenzialmente perfetta: lui comprensivo e gentile, lei tenera quanto fragile. I due però hanno visioni della vita opposte, anche per quanto riguarda ciò che il loro figlio dovrebbe fare nella vita, in quanto il padre considera la passione del cinema un semplice hobby mentre la madre, che ha tendenze creative, lo spinge a realizzare sempre più film. Le scene emotivamente coinvolgenti, in questo senso, si sprecano, fin dalle prime sequenze in cui lo Spielberg bambino prova a rimettere in scena le immagini viste in Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille o i momenti di conflitto tra Sammy e la madre.
Menzione speciale va fatta al personaggio della madre e alla sua interprete, Spielberg mette in scena una donna alla disperata ricerca di vita – come ci racconta l’emblematica scena del tornado –, che commette errori proprio perché incapace di controllare la sua sensibilità; Mitzi è dolce e incompresa, interpretata da una Williams in splendida forma, capace di dare un ulteriore tocco di malinconia che rende il personaggio splendidamente umano.

Dunque cinema e vita si intrecciano e, proprio come accaduto per È stata la mano di Dio, viene naturale ripensare alla filmografia del regista dopo questo straordinario racconto/confessione. Ecco che film come E.THook e A.I – Intelligenza artificiale si legano a The Fabelmans, che diventa inevitabilmente il film definitivo sulla famiglia secondo Steven Spielberg.
Il regista scrive e dirige quello che non è solo una lettera d’amore alla settima arte, ma è un vero e proprio viaggio nella cinefilia più sincera e genuina. Il cinema secondo Spielberg è arte e spettacolo, proprio come i film di DeMille e John Ford che il protagonista va a vedere al cinema, ma anche mezzo di comprensione del mondo e modo per trasfigurare la realtà. The Fabelmans emoziona e diverte come pochi film quest’anno ed è destinato a far parlare di sé per molto tempo, indubbiamente uno dei film da non perdere durante queste festività tanto per i cinefili più accaniti, che verranno ampiamente ripagati grazie ad alcuni tocchi geniali, tanto quanto al pubblico alla ricerca di una storia coinvolgente e appagante.

Andrea Porta ( cinequanon.it )

3. Video

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Sammy e i bulli
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Se smetti di fare i film

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Regia di Mike Mills.-

USA, 2021,

durata 108 minuti.

Età+13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

1 Sinossi

John è un giornalista radiofonico dal buon cuore, impegnato in un progetto di interviste ai bambini attraverso gli Stati Uniti sul futuro incerto del mondo. Sua sorella Viv gli chiede di guardare Jesse, il figlio di 8 anni, mentre lei si prende cura del padre del piccolo, affetto da problemi di salute mentale. Dopo aver accettato, Johnny si ritrova a legare con Jesse in maniera inaspettata, vivendo con lui un indimenticabile viaggio da Los Angeles a New York a New Orleans.

2 Recensioni ( 2.1 IL BEL SENTIRE – 2.2 ROAD MOVIE)

2.1 C’mon C’mon: il bel sentire di Mike Mills DI ALESSANDRO CAVAGGIONI npcmagazine.it

Parole, parole, parole. Quanto seduce il blabla nell’ultimo lavoro di Mike Mills, regista dall’intransigente compassione votato a un’indulgenza dei sentimenti. C’Mon C’Mon è un compendio di ipersensibilità impressionista, e apre tutti i cassetti che ci portiamo dentro. Si piange solo alla fine, quando il film finisce e si lascia realizzare.

La storia di uno zio (Joaquin Phoenix nel post-joker è un dono) chiamato a occuparsi del nipote mentre la sorella cerca di ricucire le ferite di una crisi famigliare inscritta nel dolore, poggia sulla formula vincente di Marriage Story: sincerità, semplicità, empatia.

Sembra studiato in un laboratorio di hipsterismo, con un bianco e nero che si proclama importante e una sceneggiatura di piccoli dettagli e grandi espressioni. Ma se questo è il marchio di una comunicazione diffusa nell’autorialismo prodotto dalla A24, il risultato non è certo da sottovalutare.

C’Mon C’Mon è invece un film gentile. Non ti fa piangere, ti da il permesso di farlo. Solo se vuoi. Se te la senti. “It’s ok to not be fine”. Una compassione che arriva al punto giusto, studiata in vitro ma reale, lasciata scorrere in un traffico di immagini che invita a concedersi un momento per lasciare il volante e ascoltarsi.

C’mon C’mon ci chiede di ascoltare

È l’udito il protagonista sensoriale di C’Mon C’Mon. Johnny, lo zio interpretato da Joaquin Phoenix, è un conduttore radiofonico impegnato in uno speciale documentario dedicato ai bambini. A Detroit ne incontra molti e porge loro domande fondamentali: “hai paura del futuro? cosa pensi degli adulti? Cosa cambieresti di te stesso?”. Le interviste alternano le vicende dei due protagonisti, formando un film a parte e un sostegno imprescindibile. Sui titoli di coda, quando la storia è finita, proseguono le parole dei bambini. Mike Mills non li fa recitare e le risposte sono reali e folgoranti. Per seguirle dobbiamo affidare noi stessi all’orecchio, lanciandolo oltre lo schermo come l’amo teso a caccia di parole sincere.

Lo zio affida il microfono al nipote Jesse, che scopre la città in un magma distinto di immagini sonore. Lo sferragliare deciso e ripetuto della metro coesiste nella schiuma dell’onda e nel vociferare da spiaggia, in un’educazione all’ascolto che diventa sentire e si avviluppa nel sentimento.

Due occhi non bastano e in C’mon C’mon si parla alzandoli al cielo, come a girarli verso se stessi quando si cercano le risposte giuste. Il fatto che parte del film sia composto da interviste reali, volti che agiscono liberamente, ci permette di confrontare e confermare poi la veridicità delle ottime interpretazioni attoriali. Jess e John sono una coppia straordinaria, perché fedeli ai loro sentimenti sono Joaquin Phoenix e il piccolo (struggente) Woody Norman. Cogliamo la difficoltà dell’abbinata, con lo zio chiamato nel ruolo mai interpretato di genitore e modello, ma viviamo anche la naturalezza di un incontro umanamente sincero e intellettualmente vivace. Nel confronto vince però la realtà di parole non scritte. I bambini, molto più che lo zio sofferto o l’inusuale nipote, esibiscono una partecipazione strenua alle cose del mondo. Uno in particolare, Duante, si esprime nascondendo ciò che più lo tocca. Perché il sacro non si rivela.

In C’mon C’mon le parole fioccano libere e multiforme. Ci sono le interviste, poi zio e nipote in perenne confronto – spesso in scontro -, i messaggi della madre e i titoli dei libri, scritti su immagini traboccanti di messaggi. Il bianco e nero di Mike Mills, di natura più commerciale che estetica, non dirada in alcun modo il peso di un film densissimo.

Quando i protagonisti giganteggiano goffi con dialoghi sulla vita e sulla morte – a cui lo zio si fa spesso trovare impreparato d’innanzi all’educazione sensibile del bambino – Mills stacca sulla città. Detroit, Los Angeles e poi New York. La poetica statunitense delle due coste è l’occasione per parole incise tra palazzi che tracciano discorsi. Le strade si dividono, intrecciano, seguono l’andamento del film in un’architettura emotiva che osserviamo a volo d’uccello.

Sentiamo del giudizio dal gravare muto della città, osservatrice ospitale e tela per quel “blablabla” che imperversa a bufera in un film che ci sorprende logorroici. Siamo interrogati dal film, che di rado lascia il tempo allo spettatore, ignorando la possibilità che abbia qualcosa da dire. In Manhattan, i cui forti contrasti che eliminano il soggetto rientrano nel film di Mike Mills a monito di una presenza superiore, c’è una splendida scena in cui Woody Allen – microfono alla mano – si interroga sulle “10 cose per cui vale la pena vivere”. Una domanda a cui John, forse, non saprebbe rispondere.

Tutto quel “blablabla” che ci portiamo dentro

Il “blablabla” con cui il nipote riprende lo zio è una trovata sottile. Mike Mills rifiuta il film stesso, salvandolo dalle critiche all’eccesso di discorsi. Quel “bla bla bla” è imprescindibile per rispondere alle domande fondamentali. Anche se pedante, ricorsivo, barocco.

Per quanto ostenti profondità, il film è uno sguardo ottimista e permissivo a quelle stesse difficolta che racconta. Alla fine tutto è accolto, tutto è vita, e l’ultimo voiceover ammanta immagini meravigliose, volti morbidi, sorrisi soffusi. C’è una calma placida, che coccola un po’ troppo per le ambizioni sciorinate lungo la vicenda. Ma è solo una parte del film. La storia dello zio, l’adulto in cerca di fantasie infantili.

Se si rivolge l’attenzione al piccolo si è invece sorpresi da una ferocia sincera. È sua la battuta che ci lascia al pianto: “mi ricorderò di tutto questo?”. Non ci preoccupiamo mai della memoria dei bambini, come se il loro vissuto fosse in trasparenza alla vita vera, quella che segue. Il personaggio di Jesse è invece una notevole dichiarazione di presenza, e fa eco ai bambini realmente intervistati da Mike Mills. Jesse reclama un ruolo da protagonista nella sua stessa educazione, aprendo a un dialogo equo da cui ogni parte trae vantaggio. Alcune frasi scoccano con veemenza: “Ho saputo che mamma ha avuto un aborto”. Ecco, C’mon C’mon ci risveglia spesso da quel sogno di coccole materne che gravitano nella forma scelta da Mills. Arrivano parole che sono “bla bla” difficili da digerire. “E ora che cazzo gli dico”, si chiede lo zio, “non puoi dire la verità a un bambino di 9 anni”.

Imparare a essere genitori

Joaquin Phoenix interpreta un personaggio naive, con cui empatizziamo perché genuinamente indisposto al ruolo di genitore. La madre di Jesse, Vivs, è molto più lucida e conscia del fratello John. Lei, che affronta fuori campo il bipolarismo del padre di Jesse, è armata di realtà. In brevi flashback scopriamo che i due hanno a lungo litigato per la madre malata. John assecondava le fantasie della malattia, Vivs no. Al contrario ora John non vuole, anche se invitato da Vivs, seguire Jesse nella sua inusuale abitudine di fingersi orfano in cerca di casa. È il ruolo del padre il vero assente, che John non riveste mai scegliendo invece il solco preparato dalla sorella. La genitorialità improvvisata cambia le prospettive e apre a una messa in discussione dei ruoli educativi come mitici monoliti da replicare.

C’mon C’mon è un film che amiamo con facilità. Ci stringe a sé e dedica ogni istante concessogli a perifrasi sui grandi temi di sempre. Lo sappiamo che il bianco e nero è un trucco, che il voice over è un semplice sussurro e che in fondo è un percorso senza meta. Eppure non è una truffa. Per quanto ridondante e privo di intuizioni inedite, C’mon C’mon è un’antologia di meditazioni erette a monumento: entriamo da turisti, già consci di ciò che ci attende, ma il biglietto vale il tour e alla fine ci rende un po’ più vivi.

2.2 Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills (Fabio Vittorini duels.it)

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.


3 Video

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Perché sei solo? …..bla …bla

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