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L’Innocenza: La verità a tre voci nel nuovo film di Kore’eda

Regia di Kore’eda Hirokazu. Titolo originale: Mostro

Giappone, 2023, durata 126 minuti. Età: dai 13 anni

TRAMA

Minato che ha 11 anni e vive con sua mamma vedova, inizia a comportarsi in modo strano e torna da scuola sempre più avvilito. Tutto lascia pensare che il responsabile sia un insegnante, così la madre si precipita a scuola per scoprire cosa sta succedendo. Ma la verità, come spesso accade nei film di Kore-eda, si rivelerà essere un’altra e i fatti sveleranno una profonda e toccante storia di amicizia.

RECENSIONE di STEFANO LO VERME movieplayer.it

Se soltanto alcuni possono averla, quella non è felicità: non ha senso. La felicità è qualcosa che chiunque può avere.

È con queste parole che Makiko Fushimi (Yuko Tanaka), direttrice di una scuola elementare, tenta di rassicurare Minato Mugino (Soya Kurokawa), l’alunno che le ha appena rivelato una parte del suo segreto. Il dialogo fra i due personaggi avviene in prossimità della conclusione de L’innocenza e rappresenta un momento in cui le barriere della prudenza e del sospetto vengono scavalcate dal bisogno di una condivisione autentica e sincera. E nel cinema di Hirokazu Koreeda, da sempre improntato a un profondo umanesimo, la connessione fra gli esseri umani costituisce un ingrediente fondamentale: la chiave di volta necessaria su cui sperare di erigere la propria felicità e quella altrui. La dicotomia tra la forza delle connessioni e il muro dei pregiudizi è dunque al centro del nuovo film del più celebrato regista giapponese della scena contemporanea.

Ma la condivisione e, di conseguenza, l’empatia sono obiettivi quanto mai difficili da raggiungere: non a caso l’intreccio de L’innocenza si sviluppa come un’ideale corsa a ostacoli tra fraintendimenti, menzogne e accuse, in cui spesso sembra che sia la società stessa a ingabbiare e reprimere gli istinti più genuini dei protagonisti. Un’impressione accentuata dalla peculiare struttura narrativa adottata da Hirokazu Koreeda, che per la prima volta dalla sua opera d’esordio (Maborosi, del 1995) sceglie di dirigere un copione firmato da un altro autore, Yuji Sakamoto, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2023. Lo script di Sakamoto, infatti, si ammanta a più riprese di un’aura di mistero, inducendo gli spettatori, così come i personaggi, a elaborare dubbi e ipotesi. Chi ha appiccato l’incendio mostrato nella scena d’apertura? Quali sono le ragioni del malessere dell’undicenne Minato? E perché il suo compagno di classe Yori Hoshikawa (Hinata Hiiragi) è convinto di essere un mostro?

Tre punti di vista sulla verità

Monster (Kaibutsu), del resto, è il titolo originale del film, in cui il concetto di ‘mostruosità’ si affaccia alla mente più volte, ma con sfumature via via differenti. Un potenziale atto mostruoso è alla radice delle angosce di Saori Mugino (Sakura Ando), giovane vedova e madre di Minato, che vede crescere le preoccupazioni per lo strano comportamento del figlio, fino a convincersi che a scuola gli sia accaduto qualcosa di terribile. Il primo segmento de L’innocenza aderisce completamente alla prospettiva di Saori, sconvolta dalle frasi deliranti di Minato (“Il mio cervello è stato scambiato con quello di un maiale”) e determinata a individuare il responsabile del suo disagio. E mentre l’istituzione scolastica si trincea dietro una cortesia di facciata, ad emergere è l’ambiguo ruolo svolto da un insegnante, Michitoshi Hori (Eita Nagayama), il quale pare aver colpito – per errore? – Minato, ma che imputa allo studente di essere un bullo a danno di Yori, bersaglio delle discriminazioni omofobe dei compagni.

Ma la verità, ci suggerisce Koreeda, è una faccenda molto più complicata di quanto appaia a prima vista. La diversa percezione di rapporti e sentimenti è un tema già esplorato in precedenza dal regista, a partire dal titolo emblematico del suo film francese del 2019, Le verità; e in questa occasione, Yuji Sakamoto costruisce la storia mediante tre capitoli che ripercorrono di volta in volta gli stessi eventi da tre punti di vista distinti: prima quello di Saori, poi del maestro Michitoshi e infine di Minato. Si tratta di un tòpos entrato nel codice genetico del cinema nipponico (e non solo) fin dai tempi dell’ormai mitico Rashomon di Akira Kurosawa: in questo caso, però, non si tratta di sottolineare l’inaffidabilità dei narratori, ma piuttosto di mettere in evidenza la parzialità inesorabile dello sguardo, e pertanto l’impossibilità di giungere a una piena comprensione del reale. Perlomeno, fin quando non si è disposti ad abbracciare anche le prospettive degli altri, ad accoglierne l’esperienza e a capirne le ragioni.

È quanto prova a fare Michitoshi, la cui visione ribalta quella di Saori: se per la madre Minato è la vittima, per Michitoshi al contrario il ragazzo è il bullo che si accanisce su Yori, la cui delicatezza lo rende inerme – ma forse anche immune – di fronte alle angherie dei coetanei (“Quando vieni attaccato, abbandoni tutta la tua forza e ti arrendi… non provi più niente”, afferma lo stesso Yori nella gara a indovinelli con Minato). Né Saori, né Michitoshi hanno un quadro completo della realtà, ma Hirokazu Koreeda evita di giudicare – e tantomeno condannare – i propri personaggi, motivati da nobili intenzioni. La ‘mostruosità’, semmai, è negli occhi di chi non riesce a provare amore né empatia, come il padre di Yori, Kiyotaka (Shido Nakamura), che a proposito del figlio sostiene: “Lui è un mostro. Il suo cervello non è un cervello umano, è il cervello di un maiale”. Nel titolo italiano, l’attenzione si sposta invece sulla purezza dei più piccoli, immersi in un microcosmo in cui faticano ad accettare davvero se stessi e il proprio universo emotivo.
E i due giovanissimi co-protagonisti, Soya Kurokawa e Hinata Hiiragi, lasciano meravigliati per la spontaneità e l’intensità con cui prestano volto e voce ai turbamenti di Minato e Yori: il primo con un’inquietudine in cui si mescolano rabbia e paura, il secondo con la granitica dolcezza che manifesta in ogni situazione. Nell’ultimo segmento de L’innocenza, lo sguardo di Minato non soltanto aggiunge i tasselli mancanti al nostro mosaico, ma carica il racconto di nuove sfumature: dall’incertezza insita nell’abbandono dell’infanzia per fare ingresso nell’adolescenza all’avventuroso romanticismo della foresta che lui e Yori trasformano in uno spazio privato e ‘magico’. Uno spazio in cui pensieri e sentimenti possono esprimersi in piena libertà, al riparo dalle pressioni e dai soprusi del mondo degli adulti, e in cui a una furiosa notte di tempesta può far seguito al mattino un’esplosione di gioia e di rinascita.

VIDEO

TRAILER

https://youtube.com/watch?v=r9xDiKD9_oc%3Fsi%3DpnFJjQALDKmk1T2T

Un gioco innocente

https://youtube.com/watch?v=BVNYCpv33CU%3Fsi%3Dymnjgk7B55D5JT43

THE FABELMANS

Regia di Steven Spielberg. USA, 2022, durata 151 min. Età: +13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

(Ti intessa l’utilizzo dei film in ambito educativo leggi BUONA VISIONE – Educare con i film)

  1. Sinossi

The Fablemans viene descritto come il film più personale di Steven Spielberg.

Al centro della storia c’è il giovane Sammy Fabelman, la cui passione per la regia è sostenuta dalla madre. Nel corso degli anni, Sammy è filma spesso le avventure della sua famiglia, tuttavia, a sedici anni, quando la sua famiglia si trasferisce, Sammy scopre una straziante verità sulla madre che ridefinirà la loro relazione e cambierà per sempre il futuro di tutti quanti.

2. Recensione

Quella del regista che racconta se stesso, e in particolare la sua infanzia o giovinezza, non è certo una novità, ma spicca come negli ultimi anni diversi registi abbiano messo su pellicola dei ricordi intimi e familiari: Alfonso Cuarón con Roma, Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, Kenneth Branagh con Belfast, Carla Simón con Alcarràs e, ultimo in ordine di uscita, Steven Spielberg con The FabelmansPer quest’ultimo l’idea arriva direttamente da uno dei personaggi che vediamo in scena, difatti è stato lo stesso Spielberg a dichiarare che fu sua madre a chiedergli di fare un film sulla storia familiare.

Et voilà, a quasi 76 anni e al suo trentaquattresimo film il regista americano racconta tanto se stesso da giovane, soprattutto la nascita e la crescita del suo amore per il cinema, e la storia dolorosa della separazione dei suoi genitori. Spielberg riesce ad unire splendidamente i due temi, che sembrano legarsi l’un l’altro: non è casuale che proprio grazie ad alcune riprese fatte durante una vacanza il giovane Steven, che qui si chiama Sammy ed è interpretato da Gabriel LaBelle, scopre un segreto che porterà al progressivo sgretolamento del suo nucleo familiare. Ecco che il dolore e l’estro creativo entrano in una strana relazione fatta di necessità e repulsione. Ciò che più colpisce di The Fabelmans è la capacità del regista di raccontare la sua famiglia con una dolcezza e una capacità di comprensione dei limiti personali non indifferente, tipica di chi ha compreso fino in fondo chi erano i suoi genitori ed è riuscito ad andare oltre i sentimenti che un figlio prova, incondizionatamente, verso mamma e papà.

Paul Dano e Michelle Williams, che qui interpretano i genitori del giovane Sammy, sembrano una coppia potenzialmente perfetta: lui comprensivo e gentile, lei tenera quanto fragile. I due però hanno visioni della vita opposte, anche per quanto riguarda ciò che il loro figlio dovrebbe fare nella vita, in quanto il padre considera la passione del cinema un semplice hobby mentre la madre, che ha tendenze creative, lo spinge a realizzare sempre più film. Le scene emotivamente coinvolgenti, in questo senso, si sprecano, fin dalle prime sequenze in cui lo Spielberg bambino prova a rimettere in scena le immagini viste in Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille o i momenti di conflitto tra Sammy e la madre.
Menzione speciale va fatta al personaggio della madre e alla sua interprete, Spielberg mette in scena una donna alla disperata ricerca di vita – come ci racconta l’emblematica scena del tornado –, che commette errori proprio perché incapace di controllare la sua sensibilità; Mitzi è dolce e incompresa, interpretata da una Williams in splendida forma, capace di dare un ulteriore tocco di malinconia che rende il personaggio splendidamente umano.

Dunque cinema e vita si intrecciano e, proprio come accaduto per È stata la mano di Dio, viene naturale ripensare alla filmografia del regista dopo questo straordinario racconto/confessione. Ecco che film come E.THook e A.I – Intelligenza artificiale si legano a The Fabelmans, che diventa inevitabilmente il film definitivo sulla famiglia secondo Steven Spielberg.
Il regista scrive e dirige quello che non è solo una lettera d’amore alla settima arte, ma è un vero e proprio viaggio nella cinefilia più sincera e genuina. Il cinema secondo Spielberg è arte e spettacolo, proprio come i film di DeMille e John Ford che il protagonista va a vedere al cinema, ma anche mezzo di comprensione del mondo e modo per trasfigurare la realtà. The Fabelmans emoziona e diverte come pochi film quest’anno ed è destinato a far parlare di sé per molto tempo, indubbiamente uno dei film da non perdere durante queste festività tanto per i cinefili più accaniti, che verranno ampiamente ripagati grazie ad alcuni tocchi geniali, tanto quanto al pubblico alla ricerca di una storia coinvolgente e appagante.

Andrea Porta ( cinequanon.it )

3. Video

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Trailer
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Sammy e i bulli
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Se smetti di fare i film

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Regia di Mike Mills.-

USA, 2021,

durata 108 minuti.

Età+13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

1 Sinossi

John è un giornalista radiofonico dal buon cuore, impegnato in un progetto di interviste ai bambini attraverso gli Stati Uniti sul futuro incerto del mondo. Sua sorella Viv gli chiede di guardare Jesse, il figlio di 8 anni, mentre lei si prende cura del padre del piccolo, affetto da problemi di salute mentale. Dopo aver accettato, Johnny si ritrova a legare con Jesse in maniera inaspettata, vivendo con lui un indimenticabile viaggio da Los Angeles a New York a New Orleans.

2 Recensioni ( 2.1 IL BEL SENTIRE – 2.2 ROAD MOVIE)

2.1 C’mon C’mon: il bel sentire di Mike Mills DI ALESSANDRO CAVAGGIONI npcmagazine.it

Parole, parole, parole. Quanto seduce il blabla nell’ultimo lavoro di Mike Mills, regista dall’intransigente compassione votato a un’indulgenza dei sentimenti. C’Mon C’Mon è un compendio di ipersensibilità impressionista, e apre tutti i cassetti che ci portiamo dentro. Si piange solo alla fine, quando il film finisce e si lascia realizzare.

La storia di uno zio (Joaquin Phoenix nel post-joker è un dono) chiamato a occuparsi del nipote mentre la sorella cerca di ricucire le ferite di una crisi famigliare inscritta nel dolore, poggia sulla formula vincente di Marriage Story: sincerità, semplicità, empatia.

Sembra studiato in un laboratorio di hipsterismo, con un bianco e nero che si proclama importante e una sceneggiatura di piccoli dettagli e grandi espressioni. Ma se questo è il marchio di una comunicazione diffusa nell’autorialismo prodotto dalla A24, il risultato non è certo da sottovalutare.

C’Mon C’Mon è invece un film gentile. Non ti fa piangere, ti da il permesso di farlo. Solo se vuoi. Se te la senti. “It’s ok to not be fine”. Una compassione che arriva al punto giusto, studiata in vitro ma reale, lasciata scorrere in un traffico di immagini che invita a concedersi un momento per lasciare il volante e ascoltarsi.

C’mon C’mon ci chiede di ascoltare

È l’udito il protagonista sensoriale di C’Mon C’Mon. Johnny, lo zio interpretato da Joaquin Phoenix, è un conduttore radiofonico impegnato in uno speciale documentario dedicato ai bambini. A Detroit ne incontra molti e porge loro domande fondamentali: “hai paura del futuro? cosa pensi degli adulti? Cosa cambieresti di te stesso?”. Le interviste alternano le vicende dei due protagonisti, formando un film a parte e un sostegno imprescindibile. Sui titoli di coda, quando la storia è finita, proseguono le parole dei bambini. Mike Mills non li fa recitare e le risposte sono reali e folgoranti. Per seguirle dobbiamo affidare noi stessi all’orecchio, lanciandolo oltre lo schermo come l’amo teso a caccia di parole sincere.

Lo zio affida il microfono al nipote Jesse, che scopre la città in un magma distinto di immagini sonore. Lo sferragliare deciso e ripetuto della metro coesiste nella schiuma dell’onda e nel vociferare da spiaggia, in un’educazione all’ascolto che diventa sentire e si avviluppa nel sentimento.

Due occhi non bastano e in C’mon C’mon si parla alzandoli al cielo, come a girarli verso se stessi quando si cercano le risposte giuste. Il fatto che parte del film sia composto da interviste reali, volti che agiscono liberamente, ci permette di confrontare e confermare poi la veridicità delle ottime interpretazioni attoriali. Jess e John sono una coppia straordinaria, perché fedeli ai loro sentimenti sono Joaquin Phoenix e il piccolo (struggente) Woody Norman. Cogliamo la difficoltà dell’abbinata, con lo zio chiamato nel ruolo mai interpretato di genitore e modello, ma viviamo anche la naturalezza di un incontro umanamente sincero e intellettualmente vivace. Nel confronto vince però la realtà di parole non scritte. I bambini, molto più che lo zio sofferto o l’inusuale nipote, esibiscono una partecipazione strenua alle cose del mondo. Uno in particolare, Duante, si esprime nascondendo ciò che più lo tocca. Perché il sacro non si rivela.

In C’mon C’mon le parole fioccano libere e multiforme. Ci sono le interviste, poi zio e nipote in perenne confronto – spesso in scontro -, i messaggi della madre e i titoli dei libri, scritti su immagini traboccanti di messaggi. Il bianco e nero di Mike Mills, di natura più commerciale che estetica, non dirada in alcun modo il peso di un film densissimo.

Quando i protagonisti giganteggiano goffi con dialoghi sulla vita e sulla morte – a cui lo zio si fa spesso trovare impreparato d’innanzi all’educazione sensibile del bambino – Mills stacca sulla città. Detroit, Los Angeles e poi New York. La poetica statunitense delle due coste è l’occasione per parole incise tra palazzi che tracciano discorsi. Le strade si dividono, intrecciano, seguono l’andamento del film in un’architettura emotiva che osserviamo a volo d’uccello.

Sentiamo del giudizio dal gravare muto della città, osservatrice ospitale e tela per quel “blablabla” che imperversa a bufera in un film che ci sorprende logorroici. Siamo interrogati dal film, che di rado lascia il tempo allo spettatore, ignorando la possibilità che abbia qualcosa da dire. In Manhattan, i cui forti contrasti che eliminano il soggetto rientrano nel film di Mike Mills a monito di una presenza superiore, c’è una splendida scena in cui Woody Allen – microfono alla mano – si interroga sulle “10 cose per cui vale la pena vivere”. Una domanda a cui John, forse, non saprebbe rispondere.

Tutto quel “blablabla” che ci portiamo dentro

Il “blablabla” con cui il nipote riprende lo zio è una trovata sottile. Mike Mills rifiuta il film stesso, salvandolo dalle critiche all’eccesso di discorsi. Quel “bla bla bla” è imprescindibile per rispondere alle domande fondamentali. Anche se pedante, ricorsivo, barocco.

Per quanto ostenti profondità, il film è uno sguardo ottimista e permissivo a quelle stesse difficolta che racconta. Alla fine tutto è accolto, tutto è vita, e l’ultimo voiceover ammanta immagini meravigliose, volti morbidi, sorrisi soffusi. C’è una calma placida, che coccola un po’ troppo per le ambizioni sciorinate lungo la vicenda. Ma è solo una parte del film. La storia dello zio, l’adulto in cerca di fantasie infantili.

Se si rivolge l’attenzione al piccolo si è invece sorpresi da una ferocia sincera. È sua la battuta che ci lascia al pianto: “mi ricorderò di tutto questo?”. Non ci preoccupiamo mai della memoria dei bambini, come se il loro vissuto fosse in trasparenza alla vita vera, quella che segue. Il personaggio di Jesse è invece una notevole dichiarazione di presenza, e fa eco ai bambini realmente intervistati da Mike Mills. Jesse reclama un ruolo da protagonista nella sua stessa educazione, aprendo a un dialogo equo da cui ogni parte trae vantaggio. Alcune frasi scoccano con veemenza: “Ho saputo che mamma ha avuto un aborto”. Ecco, C’mon C’mon ci risveglia spesso da quel sogno di coccole materne che gravitano nella forma scelta da Mills. Arrivano parole che sono “bla bla” difficili da digerire. “E ora che cazzo gli dico”, si chiede lo zio, “non puoi dire la verità a un bambino di 9 anni”.

Imparare a essere genitori

Joaquin Phoenix interpreta un personaggio naive, con cui empatizziamo perché genuinamente indisposto al ruolo di genitore. La madre di Jesse, Vivs, è molto più lucida e conscia del fratello John. Lei, che affronta fuori campo il bipolarismo del padre di Jesse, è armata di realtà. In brevi flashback scopriamo che i due hanno a lungo litigato per la madre malata. John assecondava le fantasie della malattia, Vivs no. Al contrario ora John non vuole, anche se invitato da Vivs, seguire Jesse nella sua inusuale abitudine di fingersi orfano in cerca di casa. È il ruolo del padre il vero assente, che John non riveste mai scegliendo invece il solco preparato dalla sorella. La genitorialità improvvisata cambia le prospettive e apre a una messa in discussione dei ruoli educativi come mitici monoliti da replicare.

C’mon C’mon è un film che amiamo con facilità. Ci stringe a sé e dedica ogni istante concessogli a perifrasi sui grandi temi di sempre. Lo sappiamo che il bianco e nero è un trucco, che il voice over è un semplice sussurro e che in fondo è un percorso senza meta. Eppure non è una truffa. Per quanto ridondante e privo di intuizioni inedite, C’mon C’mon è un’antologia di meditazioni erette a monumento: entriamo da turisti, già consci di ciò che ci attende, ma il biglietto vale il tour e alla fine ci rende un po’ più vivi.

2.2 Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills (Fabio Vittorini duels.it)

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.


3 Video

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Perché sei solo? …..bla …bla

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A Chiara

A Chiara: la nostra intervista a Swamy Rotolo e Jonas Carpignano - Gloo
Regia di Jonas Carpignano. – Italia, 2021, durata 121 minuti. Età +13

1. TRAMA

2. RECENSIONI

3. VIDEO

  1. TRAMA

La famiglia Guerrasio si riunisce per celebrare i 18 anni della figlia maggiore di Claudio e Carmela. È un’occasione felice e la famiglia è molto unita, nonostante una sana rivalità tra la festeggiata e sua sorella Chiara di 15 anni sulla pista da ballo. Il giorno seguente, quando il padre parte improvvisamente, Chiara inizia a indagare sui motivi che hanno spinto Claudio a lasciare Gioia Tauro. Più si avvicinerà alla verità, più sarà costretta a riflettere su che tipo di futuro vuole per se stessa.

2. RECENSIONI

Chiara conduce la vita “normale” di una quindicenne. Almeno apparentemente. Va a scuola, corre in palestra, ha due genitori amorevoli, gioca con le sorelle, la maggiore Giulia e la più piccola Giorgia, si diverte con le amiche, tra canzoni, pettegolezzi e battibecchi, nel lungomare di Gioia Tauro. Senza troppi pensieri, piccoli gesti di ribellione, una sigaretta elettronica fumata neanche troppo di nascosto, la risposta sempre pronta, un carattere niente male. Finché, durante la festa per i diciotto anni di Giulia, arrivano alcuni uomini, la tensione sale, succede qualcosa di poco chiaro, il padre se ne va, poi torna a casa, poi scappa dal retro. E qualcuno incendia la sua auto. Ecco, quella macchina in fiamme, su cui, tra l’altro, si conclude il corto A Chiara, specie di costola onirica del lungo, è il punto di innesco che apre un’altra dimensione.

Da lì parte il viaggio della giovane protagonista, che non è altro che un’immersione in quel buco nero che le appare, per un istante, in casa. Quando si accorge del lato oscuro della sua famiglia, dell’ombra criminale di suo padre, di tutto quell’universo fino ad allora quotidiano, non volta lo sguardo altrove. Nonostante la madre cerchi di tranquillizzarla, nonostante Giulia reagisca alle sue insistenti domande apostrofandola “bambina”. La sorella, che sa, ha l’atteggiamento opposto: convive con quell’ombra, senza farsi troppi problemi inutili. Chiara, invece, vuole capire di più, come se quella sua personale inchiesta non fosse altro che un processo di conoscenza di sé stessa. Segue, pedina, chiede, attacca, non accetta facili rassicurazioni né compromessi. E, soprattutto, va a fondo. Il film è costellato di discese continue, con un’insistenza metaforica evidente. Nel bunker sotto casa, in cui Chiara si rifugia e pare quasi ambientarsi. Nell’altro nascondiglio tra le montagne, in aperta campagna, dove affronta finalmente il padre. E da lì è tutto un viaggio sotterraneo nei traffici illeciti, tra retrobottega, depositi, portabagagli, posti di blocco. Al punto che il film sembra quasi diventare il racconto di un’educazione criminale, la definitiva realizzazione di un’affiliazione fondata sul legame di sangue. “È tanto brutto questo lavoro?”, chiede Claudio alla figlia, rivendicando in qualche modo la legittimità di una scelta dettata dal bisogno. E da una domanda come questa emerge in tutta evidenza la trasparenza dello sguardo di Carpignano, che, sebbene non giustifichi, si tiene sempre lontano dal giudicare i suoi personaggi, cercando di illuminarne la posizione, le motivazioni delle loro scelte di vita. Come se nell’osservazione delle dinamiche, fosse già incorporata, non dico la comprensione, ma di sicuro una conoscenza concreta di certe esperienze, che solo a posteriori diventano dati sociali, antropologici, politici. Perciò Carpignano segue senza stigmatizzare, sforzandosi di accordarsi sempre a un lato più umano, a ciò che c’è di “normale” anche nelle vite più contorte e “controverse”. Come nella lunga, bellissima scena del compleanno di Giulia. Tanto, poi, ci pensa la storia a ristabilire gli equilibri, come per una legge del karma. E, difatti, ciò che sta davvero a cuore è il percorso di Chiara, quest’apparente, continua fuga, che in realtà è un gesto di riappropriazione di libertà individuale. Al di là delle necessità del sangue e del destino, di quell’heimarmene che, invece, era stata la condanna di Pio di A Ciambra, costretto a tradire la fiducia dell’amico Ayiva. I due protagonisti dei film precedenti, tra l’altro, qui tornano in piccoli incisi, così come ricompare il quartiere rom di Gioia Tauro. A riprova di come Carpignano sia uno dei pochi autori italiani capaci di delineare un universo narrativo organico, complesso, fatto di connessioni, assonanze, rime interne. Dove il reale è il punto di partenza, il deposito delle tracce, delle esperienze e dei volti che prendono poi piena forma nella costruzione poetica. Che si nutre delle traiettorie e delle implicazioni del racconto, certo, ma anche di tutta una dimensione “soggettiva”, che emerge dalle visioni, dalle percezioni sonore, dalla deformazione fantastica, inconscia della protagonista. E qui, davvero, Carpignano aderisce in pieno, a questo sentire in prima persona di Chiara. Al volto e ai movimenti della straordinaria Swami Rotolo, che già, a ulteriore conferma, appariva in un piccolo ruolo in A Ciambra. E immaginiamo di ritrovarla, in futuro. Oltre i suoi diciotto anni, quell’età in cui non si è più bambini, ma neanche davvero adulti. Oltre la festa, non del tutto spensierata, costellata com’è di residui del cuore e della memoria, percorsa dalla presenza ineliminabile dei fantasmi. Fuori dal rifugio, ma solo all’inizio del viaggio, l’attenderemo all’altro lato della corsa… di Aldo Spiniello https://www.sentieriselvaggi.it/a-chiara-di-jonas-carpignano/

3. VIDEO

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LA MIA FAMIGLIA

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ZIA E CHIARA
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Girl

Regia di Lukas Dhont. Belgio, 2018, durata 105 minuti. Età: +13

Girl, la recensione del film

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. VIDEO
  1. SINOSSI

Girl, il film diretto dall’esordiente Lukas Dhont, è ispirato a una storia vera e vede protagonista Lara, adolescente con la passione della danza classica: insieme al padre e al fratellino si è trasferita in un’altra città per frequentare una prestigiosa scuola di balletto, a cui dedica tutta se stessa. Ma la sfida più grande è riuscire a fare i conti con il proprio corpo, perché Lara è nata ragazzo.

2. RECENSIONE

di Fabrizio Tassi cineforum.it
Lara è nata nel corpo di Victor. Lara è il suo nome “vero”, una promessa di felicità, è la parola (l’identità) che risuona dolcemente nel prologo dolaniano, un sussurro immerso in una luce irreale. Victor, invece, è il passato, lo spettro da cancellare, la parola da non pronunciare, il nome in cui Lara si è trovata imprigionata: uno scherzo della natura. Victor è diventato Lara, tutti lo sanno: il magnifico padre la accompagna nel suo percorso di trasformazione (in ciò che è davvero), gli insegnanti incoraggiano i suoi sforzi, i compagni di classe e di danza la trattano come la ragazza che in effetti è sempre stata. Ma a Lara, che ha 15 anni, non basta. A lei sembra tutta una recita, civile, edificante, ma fasulla. In un magnifico dialogo (clinico), lo psicologo la sostiene, la incoraggia, cerca di farle capire con le parole (la cultura) quanto sia già “femmina”, mentre dai balbettamenti di lei, dal suo sorriso imbarazzato, emerge timidamente il disagio, il dolore che brucia dentro. A Lara non basta la cultura, vuole la natura (femminile). Vuole trasformare il suo corpo, perché possa esprimere le sue emozioni più vere, perché possa finalmente sentirsi libera. CONTINUA A LEGGERE

3.VIDEO

TRAILER

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CON LO PSICOLOGO

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CON IL PADRE

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CON LE COMPAGNE

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SORRY WE MISSED YOU

Regia di Ken Loach.
Gran Bretagna, Francia, Belgio, 2019
durata 100 minuti.
età dai 13 anni
1. SINOSSI
2. RECENSIONI
3. VIDEO
  1. SINOSSI

Sorry We Missed You, film diretto da Ken Loach, è la storia di Ricky (Kris Hitchen) e Abby Turner (Debbie Honeywood), che, dopo il crollo finanziario del 2008, lottano contro la precarietà degli ultimi anni in quel di Newcastle, cercando di non far mancare nulla ai loro bambini. Proprio la loro disastrosa condizione lavorativa – lei badante a domicilio, lui fattorino mal pagato – e conseguentemente finanziaria li mette di fronte a una dura relatà: non diventeranno mai indipendenti e non avranno mai una casa di loro proprietà, se continueranno ad agire così.
Ma un’allettante opportunità irrompe improvvisamente nella loro vita, quando Abby vende la propria auto per permettere a Ricky di acquistare un furgone. Con il nuovo mezzo l’uomo inizia a fare consegne per conto proprio, purtroppo sorgeranno nuovi problemi che metteranno gravemente a rischio l’unità, finora così solida, dei Turner.

2. RECENSIONE ( di Valentina Giua )

Da “I, Daniel Blake” a “Sorry We Missed You”: un nuovo tipo di sfruttamento.
Ken Loach il “Rosso”, ha iniziato la sua carriera di regista con la BBC, per poi firmare decine di film e vincere due volte a Cannes, dedicando tutta la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Dopo aver finito I, Daniel Blake e vinto la Palma d’Oro, Loach era sul punto di ritirarsi. Ma i risultati delle ricerche fatte per il film, erano solo la punta dell’iceberg. Quello che Loach stava scoprendo era «un nuovo tipo di sfruttamento» che valeva la pena approfondire e raccontare in un nuovo film che fosse in qualche modo legato al primo.

L’esperienza di I, Daniel Blake ha dato lo slancio per realizzare Sorry We Missed You. Se I, Daniel Blake raccontava il complicato sistema dei sussidi e delle indennità, Sorry We Missed You (al cinema dal 2 gennaio) ruota attorno al mondo del lavoro e delle persone che – per dirla con Theresa May – «riescono a stenta a cavarsela». Quello che Loach vuole raccontare in questo film è il nuovo tipo di sfruttamento su cui si basa la gig economy ma soprattutto le conseguenze che questo sfruttamento causa nella vita famigliare del lavoratore.

La famiglia Turner.

Una scena del film Sorry We Missed You.
Il lavoratore scelto da Loach come protagonista è Ricky Turner – Kris Hitchen -, uno stacanovista per definizione. Lui e la moglie, avevano risparmiato abbastanza da riuscire a comprare una casa, ma il crack finanziario del 2008 gli ha impedito di sottoscrivere un mutuo. Ricky ha perso il lavoro e ha dovuto vendere la casa. La moglie, Abby – Debbie Honeywood – non è da meno, lavora come badante per un’agenzia e non è pagata a ore bensì in base al numero di visite. Per raggiungere le case dei suoi assistiti, sparse per la città di Newcastle, non può fare a meno dell’auto; Ricky però ha un piano per fare un sacco di soldi, decide così di venderla e acquistare un furgone per iniziare il suo business “personale”.

Il piano di Ricky consiste nel lavorare come un cane, superare anche se stesso per procurarsi i fondi necessari a comprarsi una casa e permettere alla famiglia di andare avanti come desidera. L’idea del fattorino per lui è l’ultima chance, anche perché le tensioni famigliari aumentano sempre di più e il figlio Seb – Rhys Stone -, sta per deragliare. La situazione peggiora ulteriormente quando Ricky inizia a essere sempre fuori. Seb rimane spesso con la sorellina Liza Jane – Katie Proctor -, che è molto sveglia e vuole solo che tutti siano felici.

In Sorry We Missed You ogni dettaglio è autentico.
Gli attori, tutti emergenti, non sapevano come sarebbe andata a finire la storia. Ogni episodio era una scoperta anche per loro. Loach infatti è da sempre ossessionato dalla credibilità dei suoi film. «Ogni dettaglio doveva essere autentico. Nessuno doveva fingere.» Lo stesso Hitchen ha dovuto lavorare 20 anni come idraulico prima di fare l’attore e ottenere la parte di Ricky. Le scenografie e gli ambienti sono stati realizzati con lo stesso obiettivo di ottenere credibilità: lo stile estremamente sobrio consente alla narrazione e agli attori di prevalere e prendere vita.

Così la famiglia Turner, dalla propria casa in affitto a Newcastle, riesce a diventare il microcosmo che rappresenta l’intera Gran Bretagna e non solo, data la diffusione del lavoro precario in tutta Europa. Il film, con i suoi protagonisti-simbolo, diventa il ritratto di un sistema che ha ripercussioni soprattutto sui figli di genitori stremati dal lavoro, che non hanno sufficientemente tempo per loro.

Impossibile non affezionarsi.

La lucida accusa del sistema che Loach fa in Sorry We Missed You, non è certo nuova o sorprendente rispetto ai suoi lavori precedenti. Chi lo accusa di essere troppo freddo e ideologico, potrebbe leggere questo film come l’ennesimo manifesto politico del regista. Ma la forza di un film come Sorry We Missed You, al quale è impossibile non è affezionarsi, merita ben altre considerazioni. Milioni di spettatori, come già è accaduto con I, Daniel Blake, si ritroveranno nei protagonisti del film, sentendosi meno soli e, finalmente, compresi nell’umiliazione che sono costretti ad affrontare ogni giorno. Per citare la produttrice Rebecca O’ Brian:

«Se si mettono insieme, i film di Ken costituiscono una sorta di lunga storia delle nostre vite. Mi piace pensare che tra 200 anni, se qualcuno vorrà farsi un’idea della storia sociale della nostra epoca, potrebbe trovare una risposta guardando cinquant’anni di film di Ken Loach e dei suoi sceneggiatori.»

3. VIDEO

TRAILER

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SCENE DAL FILM

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scena dal fim

DOPO L’AMORE

REGIA di Joachim Lafosse.  Titolo originale L’économie du couple.

Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 100 min. – Francia, Belgio 2016.

 

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INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. VIDEO

1) TRAMA

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile

2) RECENSIONI

Un dramma borghese intimo e vibrante in cui ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti di Marzia Gandolfi  mynovie.it

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile.
Troppo spesso in una coppia il denaro diventa il mezzo migliore per esercitare potere sull’altro, per fargli pagare letteralmente il fallimento della relazione. Dopo l’amore abita lo scacco e presenta la fattura del disamore di una coppia che non sa più come accordare i propri sentimenti, regolare i propri conti, le responsabilità genitoriali, le tenerezze intermittenti, i rancori costanti. Joachim Lafosse, che ha fatto delle relazioni umane il suo terreno di elezione (Proprietà privata, Les Chevaliers blancs), dirige un dramma borghese in più atti intimo e vibrante. Ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti.
Interpretato da Bérénice Béjo e Cédric Kahn, che superano i confini della rappresentazione, Dopo l’amore mette in scena con rara proprietà, eludendo cliché e psicologismi, i dubbi, le paure e la vitalità, malgrado tutto, di una coppia arrivata a fine corsa. Abile nell’individuare ed emergere i movimenti sottili che corrompono i sentimenti, l’autore belga chiude i suoi protagonisti in un interno e fa di quel domicilio coniugale qualcosa su cui litigare ma non la ragione del litigio, che è sempre altrove. La casa è il terreno su cui si cristallizza il loro rancore, su cui prendono posizione, ciascuno la sua, su cui pesano i rispettivi orgogli. Ma quel domicilio è soprattutto il valore aggiunto in termini d’amore che ciascuno apporta in una relazione. Boris reclama per sé la metà di quella casa certo, ma vuole soprattutto che Marie riconosca che lui è stato lì, che l’ha abitata, l’ha ristrutturata e ne ha aumentato il valore. Lui vuole che lei riconosca che è stato presente, utile, che ha contribuito con la sua ‘competenza’, tecnica e umana, alla costruzione della loro famiglia.
Per Lafosse l’economia di coppia, quella del titolo francese (L’économie du couple), è anche questo, piccole impronte, pennellate, tracce mai sentimentali. È l’amore e non si può ridurre alla metà del valore di una casa. L’amore di cui Marie e Boris si sono amati. Lo attesta ogni sguardo, lo dimostra ogni rimprovero. Marie e Boris sono stati felici e da quella loro felicità sono nate due gemelle, duo inseparabile e opposto ai genitori, isole provvisorie in cui abbandonarsi e abbandonare per qualche minuto la lotta. Le figlie li sfidano disarmanti, li catturano nelle loro coreografie del cuore, li confondono il tempo di una canzone (“Bella” di Maître Gims). Prima che ciascuno ritorni al suo esilio, al frigo diviso in due, a una coabitazione forzata regolata al millimetro e per questo quasi comica. È la loro antica passione a nutrire il rancore di oggi, è la loro economia che adesso si disputano. Ciascuno reclama la sua parte, prigionieri di uno spazio da cui non possono (e non vogliono) uscire. La macchina da presa li segue, li sfiora rimarcando l’erranza disordinata, ripetitiva, ossessionata che li trasloca attraverso l’appartamento, silenziosi, incomprensibili l’uno all’altra. Marie e Boris hanno perso il controllo del quotidiano, sono apparizioni indesiderabili nella cena o negli spazi dell’altro che sembrano godere dell’irritazione che suscita la loro presenza. Ma alla circolazione esasperata dei corpi e dei sentimenti, Lafosse guadagna questa volta la via d’uscita, l’accidente che determinerà una presa di coscienza provvidenziale per Marie e Boris, aggrappati alla routine del loro odio e incapaci di guardare il mondo fuori.
Dopo l’amore termina con un compromesso, un finale aperto e all’aperto, che fa respirare ambiente e personaggi, figurando come eccezione nell’opera al nero dell’autore. Una filmografia che fa vedere senza mostrare. Un’economia straordinaria, pertinente all’amore e al cinema. A una storia semplice così complicata da vivere.

 

L’économie du couple (Dopo l’amore da cinematographe.it Di Virginia Campione

L’économie du couple (Dopo l’amore) è un film di Joachim Lafosse presentato nella sezione Festa Mobile della 34esima edizione del Torino Film Festival dopo il passaggio a Cannes 2016 nella sezione parallela Quinzaine des Réalisateurs. La pellicola ha per protagonisti Marie (Bérénice Bejo) e Boris (l’attore/regista Chédrik Khan), due coniugi inquadrati nel momento più doloroso di una relazione sentimentale: la fine.

Marie e Boris si trovano ad affrontare un’ulteriore imbarazzante difficoltà: vivono ancora sotto lo stesso tetto in attesa di stabilire quanto e cosa spetti a chi con l’ulteriore responsabilità di dover far vivere tale limbo alle loro gemelline. Marie è quella che detiene il maggiore potere economico, avendo potuto la coppia comprare la casa grazie ai soldi della sua famiglia, mentre per Boris finire questo matrimonio senza una cospicua buona uscita significherebbe la rovina, anche a causa dei debiti contratti, che lo portano ad essere periodicamente minacciato dai suoi creditori.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): un “noi” che pretende invano di tornare ad essere l’ “io” di un tempo

 

Nessuna parola o riferimento ai motivi della separazione e dei problemi dei due quasi ex coniugi, Lafosse sceglie di raccontare la più banale delle situazioni sentimentali dal punto di vista toccante e meno esplorato delle conseguenze economiche della fine di una relazione. Un’economia che non si ferma all’aspetto monetario, declinandosi nell’accezione di quel delicato insieme di significati condivisi che non permette di dividersi tornando ad essere quelli di prima, ormai irreversibilmente cambiati dal valore aggiunto e non semplicemente sottraibile di un amore che ha costruito case e figli.

Dopo l’amore si pone così come un ritratto struggente di una famiglia ormai irrimediabilmente divisa ma che ha ancora bisogno di elaborare il lutto edulcorandolo con una vicinanza forzata ma forse non così necessaria come entrambi i coniugi vogliono far credere a se stessi e all’altro.

Marie e Boris affrontano allora tutte quelle piccole grandi insofferenze quotidiane che caratterizzano la fine dell’amore, esasperandole con la pretesa impossibile di salvare spazi e diritti delimitati all’interno della stessa casa, e finendo inevitabilmente per coinvolgere le bambine, confuse e innervosite da una mamma ed un papà che non viaggiano più sulla stessa lunghezza d’onda ma le contendono per prevalere l’uno sull’altra.

 

Quando la tensione emotiva si fa troppo alta, Lafosse permette ai suoi personaggi perfettamente tratteggiati di lasciarsi andare a sfoghi catartici che coinvolgono anche lo spettatore (in primis il toccante ballo sulle notte di “Bella”), partecipe passivo di un dramma che viene mostrato con un’onestà disarmante e dolorosa, riuscendo tuttavia a far sorridere amaramente per quanto si diventa buffi quando si è in realtà disperati.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): fare i conti con un amore finito

 

Dopo l’amore è la dolorosa esplicitazione di come, soprattutto quando una coppia diviene famiglia, uno più uno non faccia più due ma si trasformi in una nuova entità la somma dei cui elementi non può più dare origine agli stessi, se divisa. Perché la coppia crea un nuovo microcosmo fatto di progettualità e beni condivisi, un universo non più scomponibile in modo razionale ma soprattutto impossibile da traslare altrove, fra le pagine di un futuro che – tuttavia – ogni esistenza infelice merita di poter cambiare.

3) VIDEO

 

 

 

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Julietta

Risultati immagini per julieta filmUn film di Pedro Almodóvar – Titolo originale Silencio –

Drammatico, Ratings: Kids+13 – durata 99 min. – Spagna 2016.

INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. TRAILER

 

 

 

1) TRAMA
La protagonista del film è Julieta, una professoressa di mezza età che, dopo aver compiuto cinquantacinque anni, decide di scrivere una confessione autobiografica dei suoi ultimi trent’anni di vita. Un compito oneroso, ma con un nobile fine: quello di recapitare questo testo a sua figlia Antia, scappata quando aveva diciotto anni dal nido materno, e farle così conoscere la verità su sua madre, raccontarle tutto quello che – in 12 anni di silenzio – non è stato possibile condividere.

 

2) RECENSIONI

JULIETA DI PEDRO ALMODÓVAR

Pedro è tornato. Tornato al Suo cinema, alle donne, al dramma, ai sentimenti, al destino, alla colpa, ai figli, alle madri. Tornato a Tutto su mia madre, a Volver, a un mondo dove il décor è il racconto e il racconto è l’anima della messa in scena.
Tutto è misura in Julieta, non meccanicità ma misura. Il dramma si costruisce, si articola nel tempo, nel suo racconto in flashback, nelle tappe che lo fanno avanzare mentre emerge dal passato fino a oggi attraverso gli ambienti, gli abiti, gli oggetti. Senza mai spingersi un millimetro più in là del punto in cui fermarsi è la scelta giusta. Perfino al di qua della lacrima, dell’incontro, della conciliazione, del confronto.

Un dramma che si fonda nel silenzio, nel rifiuto della parola, non può che trovare compimento nel suo stesso dire, senza bisogno di altro.

La vita di Julieta inizia su un treno proprio nel momento in cui rifiuta di parlare a un uomo che sembra molestarla. Quell’uomo, dopo pochi istanti, si suicida segnando per sempre con il marchio della colpa l’esistenza della donna. Quella stessa notte, su quello stesso treno, Julieta conosce però anche l’uomo della sua vita e concepisce sua figlia. Che il destino le farà perdere nuovamente, entrambi, nel silenzio di un confronto rifuggito.

Quando Julieta individua come unica possibilità di uscire dalla colpa il ripercorrere la propria esistenza, capisce che l’unico modo è cercare, finalmente, di raccontare la sua storia e i segreti custoditi dal silenzio.

Abbandona la casa bianca in cui i ricordi sono stati rimossi, sostituiti dalla fredda pulizia della somma di tutti colori e torna alla complessità della carta da parati. Girali e arabeschi che invadono lo spazio e si alternano a colori densi pieni dei segni del tempo e del peso della memoria. Questo è lo sfondo che Julieta sceglie per riprendere la sua vita in mano scrivendo seduta all’unico mobile che occupa l’ultima delle case della sua vita. Quella scelta per raccontare, replica vuota e invecchiata dell’appartamento in cui insieme le due cercavano di sopravvivere alla tragedia.

Per la prima volta, come sanno fare le donne del cinema di Almodóvar, come Manuela, come Raimunda, come tante grandi donne del cinema classico, Julieta non subisce più il destino ma fa la sua scelta: rinuncia alla possibilità di una nuova vita fondata sulla rimozione, per ripercorrere e narrare il passato. Senza soluzione. Perché la soluzione è il racconto stesso. Chiara Borroni CINEFORUM.IT

 


Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda

Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l’uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L’incontro casuale con Beatriz, amica d’infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c’è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l’illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l’autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l’afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un’ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell’Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L’una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l’altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e ‘giudicata’ tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall’uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all’avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all’eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno ‘delitto’ e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l’amore per scongiurare la morte, da Matador l’autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l’impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della ‘prima moglie’ che piomba sul dramma l’ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.

Marzia Gandolfi MYMOVIE

 

 

3)VIDEO

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