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GREEN BORDER

Regia di Agnieszka Holland

– durata 147 min.

– Polonia, Germania, Francia, Belgio 2023

– Età dai 14 anni

TRAMA

Nelle gelide foreste che ricoprono il confine tra la Bielorussia e la Polonia, teatro dal 2021 della crisi migratoria istigata dal governo bielorusso, si incrociano le vicende di una famiglia di rifugiati siriani che lotta per attraversare il confine, della loro compagna di viaggio afghana, di una giovane guardia di frontiera polacca che sta per avere un bambino e di un gruppo di attivisti che aiuta i migranti respinti al confine.

RECENSIONE

Annalisa Camilli, internazionale.it
“Ho cominciato a girare Green border pochi mesi dopo che il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko aprisse una specie di corridoio per i profughi verso la Polonia. È stata la prima volta che la violenza e i respingimenti al confine polacco sono stati tollerati in questa forma in Europa”, afferma Agnieszka Holland, regista e sceneggiatrice del film, nelle sale italiane dall’8 febbraio. La contatto su Zoom, mentre è a Parigi e sta lavorando al suo nuovo progetto.

“Ovviamente respingimenti di questo tipo ai confini europei si verificavano anche prima: in Grecia, Croazia, Italia e Francia. Ma questa volta mi è sembrato che ci fosse un accordo generale sul fatto di permetterli, sono stati ‘normalizzati’. Il piano di Lukašenko era molto chiaro: voleva usare i profughi come un’arma di pressione, lo aveva già fatto in passato per minacciare la stabilità e l’integrità dell’Europa. E ci è riuscito”, continua la regista.

Holland, 75 anni, è forse la più famosa tra i registi polacchi e nel suo ultimo film ha usato il linguaggio cinematografico per mostrare la realtà, come non erano riusciti a fare i giornalisti e i documentaristi che hanno provato a raccontare la stessa vicenda: migliaia di famiglie condotte con l’inganno in Bielorussia dalla Siria e dall’Iraq con dei voli di stato e poi abbandonate al confine con la Polonia, nella foresta di Białowieża, nell’inverno 2021.


Il film che ha fatto infuriare il governo polacco
“Il cinema è il mio linguaggio, così ho immediatamente trasformato in finzione la realtà. È il mio lavoro: trovare un aspetto universale nelle questioni particolari e soggettive”, spiega la regista, che con Green border ha vinto il Gran premio della giuria all’ottantesima mostra del cinema di Venezia. “Quasi tutti i miei film sono basati su storie vere, è quello che faccio da sempre. Il mio sforzo è di non perdere la soggettività, provando a trasformare una storia in qualcosa di più universale”.

“In questo caso l’operazione è stata più difficile – sia per quanto riguarda la sceneggiatura sia per la regia – perché non avevo la distanza storica, non vedevo e non potevo vedere tutto l’arco della storia, i fatti stavano succedendo in quel momento. Ma allo stesso tempo ho pensato che il film avrebbe avuto un calore unico. È il primo che si occupa di questa frontiera, così mi è sembrato ancora più importante che fosse autentico”, racconta la regista, che in passato si era già occupata dell’idea di Europa e della sua ambiguità in Europa, Europa, la storia di due fratelli ebrei ambientata durante le persecuzioni naziste.


“Uno dei protagonisti del film e uno dei principali protagonisti di tutta la storia è la foresta, la natura è così potente che non riesci a pensare che sia un confine”, spiega Holland, che ha girato il film nella foresta di Białowieża, l’ultimo lembo della foresta vergine che un tempo ricopriva l’intero continente europeo. Il territorio è rimasto com’era perché era usato come riserva di caccia dello zar. Ora ricopre una parte della Polonia, della Bielorussia e dell’Ucraina.

“Attraversare la foresta e starci dentro è qualcosa che è connesso con le origini stesse dell’Europa e della storia del continente, la foresta porta con sé un’infinità di significati: è insieme pericolo e meraviglia. Anche dal punto di vista cinematografico è uno strumento molto espressivo, interpreta bene l’ambiguità dell’Europa. Da una parte il continente è la culla dei diritti umani, della democrazia, ma d’altra parte è stato ed è autore di crimini contro l’umanità”.

Per realizzare un film così direttamente legato alla realtà, Holland si è servita di attori che hanno davvero un background migratorio: sono attori professionisti, ma sono anche rifugiati. Jalal Altawil, che interpreta il ruolo del padre nella famiglia di profughi siriani (Bashir) che è al centro del film, ha vissuto per anni in un campo profughi in Europa. Mentre Maja Ostaszewska, che interpreta l’attivista Julia, uno dei personaggi principali del film, è una famosa attrice polacca, ma è anche un’attivista e interpreta se stessa.

Nel film Julia è una delle tante volontarie che pattugliavano la foresta per cercare i profughi e aiutarli con il gruppo Grupa granica. Nella realtà è stata una delle portavoce del gruppo: gli attivisti hanno di fatto sfidato il governo polacco e hanno agito al limite di quello che era consentito, rischiando di finire in carcere.

“Gli attori sono stati anche dei consulenti durante le riprese: per questo sono credibili. Hanno saputo portare nel film le loro conoscenze”, spiega la regista. “È stato un film realizzato in tempi record: ho cominciato a scriverlo nell’ottobre 2021, quando la crisi al confine era cominciata da qualche mese. Abbiamo cominciato le riprese solo nel marzo 2023, e sei mesi dopo eravamo a Venezia. La post-produzione è stata molto veloce, anche se il materiale era tanto, abbiamo dovuto correre per partecipare alla Mostra del cinema di Venezia”, continua Holland.

Fin dal principio la scelta è stata quella di girare in bianco e nero: “Ci ha aiutato a risolvere alcuni problemi dovuti al fatto che abbiamo girato in diversi mesi dell’anno. Ma la vera ragione è artistica: volevo uno stile crudo, diretto, come quello di un documentario”. Inoltre, l’ha aiutata a trovare un collegamento con il passato: “Volevo qualcosa che ricordasse l’immaginario della seconda guerra mondiale, che è ancora molto forte in quella foresta”.

Holland è una dei tre registi europei che quest’anno hanno girato film importanti sulla migrazione, quasi in contemporanea. Io capitano di Matteo Garrone mostra l’origine del viaggio, il desiderio di partire di due ragazzi del Senegal. Ken Loach nel suo The Old Oak racconta invece cosa succede a chi è già arrivato in Europa, dopo avere attraversato la frontiera. Holland rimane sulla frontiera, anzi usa il cinema per mostrare quello che nella realtà è vietato documentare, la ferocia delle recinzioni costruite per segregare chi non è europeo da chi invece lo è. I tre film, visti insieme, sembrano quasi una trilogia su uno dei temi più importanti del presente.

“Le leggi internazionali e nazionali che avevamo scritto dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo le tragedie del nazismo e dell’olocausto, sembra che siano state dimenticate. Parliamo di immigrazione, ma in realtà stiamo parlando del futuro di questo continente e anche della natura democratica dei nostri governi, dello stato di diritto. Nel film volevo dare voce ai senza voce, un volto ai senza volto. È stato anche un modo per dire che il nostro futuro è in pericolo e che il continente sta cambiando velocemente”, spiega Holland.

TRAILER

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FOGLIE AL VENTO

Regia di Aki Kaurismäki. , – Finlandia, 2023, durata 81 minuti. Età dai 13 anni

Le foglie morte cadono a mucchi
e come loro i ricordi, i rimpianti
Ma il mio fedele e silenzioso amore
sorride ancora, dice grazie alla vita

Recensioni e video
di Andrea Chimento (il sole 24 ore)

Una pellicola di grandissima umanità, perfetta per le feste natalizie: “Foglie al vento” di Aki Kaurismäki è il film ideale da vedere in sala questo weekend.
Sei anni dopo il notevole “L’altro volto della speranza”, il regista finlandese è tornato dietro la macchina da presa per raccontare la storia di un uomo e di una donna che si incontrano una notte a Helsinki. I due hanno vite difficili, segnate dal disagio e dalla precarietà, ma il loro incontro sarà l’inizio di una storia che li aiuterà ad amare di nuovo.

Quarto capitolo di film dedicati da Kaurismäki al tema del proletariato, dopo “Ombre nel paradiso” (1986), “Ariel” (1988) e “La fiammiferaia” (1990), “Fallen Leaves” è una delicatissima e tragicomica storia d’amore perfettamente nelle corde del regista scandinavo.Bastano poche inquadrature per ritrovare il classico tocco dell’autore, sempre più essenziale e minimalista e capace di toccare corde profondissime con una pellicola che è sia un inno alla vita e all’amore, sia un grande omaggio alla storia del cinema.

Kaurismäki propone infatti tantissime citazioni, compresa una per l’amico Jim Jarmusch, del quale viene proiettato in un cinema l’ultimo lungometraggio, “I morti non muoiono”. Gli omaggi poi vanno al passato, con diversi riferimenti all’amato Robert Bresson (maestro proprio di quel minimalismo di cui Kaurismäki è oggi uno dei massimi discepoli), a Jean-Luc Godard e uno magnifico, poetico ed emozionante a Charlie Chaplin, da sempre una delle grandi ispirazioni del regista.

Malinconia e sorrisi
È un film carico di malinconia, “Foglie al vento”, ma è anche un lungometraggio capace di farci sorridere e dare fortissima speranza all’interno del contesto oltremodo desolante che va a raccontare.Oltre alle difficoltà del mondo del lavoro, il film propone tematiche di grande attualità, a partire da quelle trasmissioni radiofoniche in cui si sentono di continuo le agghiaccianti notizie della guerra in Ucraina. Nonostante la cornice ricca di elementi drammatici, Kaurismäki trova come sempre la giusta ironia, riuscendo a dare vita a una pellicola umanissima e appassionante. Splendide sono poi numerose inquadrature, dal taglio prettamente pittorico ed efficaci nel richiamare i quadri di Edward Hopper: l’uso che fa delle luci e dei colori è da studiare nelle scuole di cinema e ogni singola immagine è sempre personale e capace di emozionare.Il risultato è un film imperdibile, tra i più belli dell’intera stagione, che ha meritatamente ottenuto il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2023.

trailer

https://youtube.com/watch?v=VQU3pA4x1jM%3Fsi%3D9m9y4b8oghFcCcvM

casa

https://youtube.com/watch?v=BlpDA-_2rQw%3Fsi%3DoPeUwgpK7C7ZOjW1

Credevo fosse diverso

https://youtube.com/watch?v=Oitqk22JxS8%3Fsi%3DBGK2D-M_AokI4P5v

Ti è piaciuto il film?

https://youtube.com/watch?v=XwsrP4uXLjk%3Fsi%3DdhiwTzuKLlcr6Rdf

PERFECT DAYS

PERFECT DAYS
Regia di Wim Wenders.

Giappone, Germania, 2023, durata 123 min.

Età dai 13 anni

Un film che ci ricorda come anche nei momenti cupi e oscuri, si possono scorgere raggi di luce che possono illuminare la nostra esistenza.

SCENE

Clip “Patti Smith

https://youtube.com/watch?v=KCQ9-CMLnEA%3Fsi%3DxK-Qin1-V_3AsaZy

Clip “La canzone”

https://youtube.com/watch?v=ElsjVVFXCjU%3Fsi%3DPUj1Wiev8XTq9inC

 Clip “Foto”

https://youtube.com/watch?v=Q20KVk06XoU%3Fsi%3DBJzYpRgR0e-e9APZ

CONSIGLI DI LETTURA ( classe quinta)

I CLASSICI
Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett ( temi: AMICIZIA, PASSAGGIO INFANZIA – PREADOLESCENZA)
L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson ( temi: AVVENTURE, ROMANZO DI FORMAZIONE, IL BENE E IL MALE)
Il richiamo della foresta di Jack London ( temi: ROMANZO DI FORMAZIONE, DIVERSITA’)

ALTRI LIBRI

  • Il segreto di Nadia Terranova e Mara Cerri ( temi: il bullismo, la morte, la perdita, il valore dell’amicizia, la solidarietà)
  • Ali nere di Alberto Melis ( temi: adolescenza, amicizia crescita , guerra)
  • VICTORIA SOGNA di Timothée de Fombelle – ill. di Mariachiara Di Giorgio – trad. di Maria Bastanzetti (temi: crescita e relazioni, dentro e fuori la famiglia)

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Regia di Mike Mills.-

USA, 2021,

durata 108 minuti.

Età+13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

1 Sinossi

John è un giornalista radiofonico dal buon cuore, impegnato in un progetto di interviste ai bambini attraverso gli Stati Uniti sul futuro incerto del mondo. Sua sorella Viv gli chiede di guardare Jesse, il figlio di 8 anni, mentre lei si prende cura del padre del piccolo, affetto da problemi di salute mentale. Dopo aver accettato, Johnny si ritrova a legare con Jesse in maniera inaspettata, vivendo con lui un indimenticabile viaggio da Los Angeles a New York a New Orleans.

2 Recensioni ( 2.1 IL BEL SENTIRE – 2.2 ROAD MOVIE)

2.1 C’mon C’mon: il bel sentire di Mike Mills DI ALESSANDRO CAVAGGIONI npcmagazine.it

Parole, parole, parole. Quanto seduce il blabla nell’ultimo lavoro di Mike Mills, regista dall’intransigente compassione votato a un’indulgenza dei sentimenti. C’Mon C’Mon è un compendio di ipersensibilità impressionista, e apre tutti i cassetti che ci portiamo dentro. Si piange solo alla fine, quando il film finisce e si lascia realizzare.

La storia di uno zio (Joaquin Phoenix nel post-joker è un dono) chiamato a occuparsi del nipote mentre la sorella cerca di ricucire le ferite di una crisi famigliare inscritta nel dolore, poggia sulla formula vincente di Marriage Story: sincerità, semplicità, empatia.

Sembra studiato in un laboratorio di hipsterismo, con un bianco e nero che si proclama importante e una sceneggiatura di piccoli dettagli e grandi espressioni. Ma se questo è il marchio di una comunicazione diffusa nell’autorialismo prodotto dalla A24, il risultato non è certo da sottovalutare.

C’Mon C’Mon è invece un film gentile. Non ti fa piangere, ti da il permesso di farlo. Solo se vuoi. Se te la senti. “It’s ok to not be fine”. Una compassione che arriva al punto giusto, studiata in vitro ma reale, lasciata scorrere in un traffico di immagini che invita a concedersi un momento per lasciare il volante e ascoltarsi.

C’mon C’mon ci chiede di ascoltare

È l’udito il protagonista sensoriale di C’Mon C’Mon. Johnny, lo zio interpretato da Joaquin Phoenix, è un conduttore radiofonico impegnato in uno speciale documentario dedicato ai bambini. A Detroit ne incontra molti e porge loro domande fondamentali: “hai paura del futuro? cosa pensi degli adulti? Cosa cambieresti di te stesso?”. Le interviste alternano le vicende dei due protagonisti, formando un film a parte e un sostegno imprescindibile. Sui titoli di coda, quando la storia è finita, proseguono le parole dei bambini. Mike Mills non li fa recitare e le risposte sono reali e folgoranti. Per seguirle dobbiamo affidare noi stessi all’orecchio, lanciandolo oltre lo schermo come l’amo teso a caccia di parole sincere.

Lo zio affida il microfono al nipote Jesse, che scopre la città in un magma distinto di immagini sonore. Lo sferragliare deciso e ripetuto della metro coesiste nella schiuma dell’onda e nel vociferare da spiaggia, in un’educazione all’ascolto che diventa sentire e si avviluppa nel sentimento.

Due occhi non bastano e in C’mon C’mon si parla alzandoli al cielo, come a girarli verso se stessi quando si cercano le risposte giuste. Il fatto che parte del film sia composto da interviste reali, volti che agiscono liberamente, ci permette di confrontare e confermare poi la veridicità delle ottime interpretazioni attoriali. Jess e John sono una coppia straordinaria, perché fedeli ai loro sentimenti sono Joaquin Phoenix e il piccolo (struggente) Woody Norman. Cogliamo la difficoltà dell’abbinata, con lo zio chiamato nel ruolo mai interpretato di genitore e modello, ma viviamo anche la naturalezza di un incontro umanamente sincero e intellettualmente vivace. Nel confronto vince però la realtà di parole non scritte. I bambini, molto più che lo zio sofferto o l’inusuale nipote, esibiscono una partecipazione strenua alle cose del mondo. Uno in particolare, Duante, si esprime nascondendo ciò che più lo tocca. Perché il sacro non si rivela.

In C’mon C’mon le parole fioccano libere e multiforme. Ci sono le interviste, poi zio e nipote in perenne confronto – spesso in scontro -, i messaggi della madre e i titoli dei libri, scritti su immagini traboccanti di messaggi. Il bianco e nero di Mike Mills, di natura più commerciale che estetica, non dirada in alcun modo il peso di un film densissimo.

Quando i protagonisti giganteggiano goffi con dialoghi sulla vita e sulla morte – a cui lo zio si fa spesso trovare impreparato d’innanzi all’educazione sensibile del bambino – Mills stacca sulla città. Detroit, Los Angeles e poi New York. La poetica statunitense delle due coste è l’occasione per parole incise tra palazzi che tracciano discorsi. Le strade si dividono, intrecciano, seguono l’andamento del film in un’architettura emotiva che osserviamo a volo d’uccello.

Sentiamo del giudizio dal gravare muto della città, osservatrice ospitale e tela per quel “blablabla” che imperversa a bufera in un film che ci sorprende logorroici. Siamo interrogati dal film, che di rado lascia il tempo allo spettatore, ignorando la possibilità che abbia qualcosa da dire. In Manhattan, i cui forti contrasti che eliminano il soggetto rientrano nel film di Mike Mills a monito di una presenza superiore, c’è una splendida scena in cui Woody Allen – microfono alla mano – si interroga sulle “10 cose per cui vale la pena vivere”. Una domanda a cui John, forse, non saprebbe rispondere.

Tutto quel “blablabla” che ci portiamo dentro

Il “blablabla” con cui il nipote riprende lo zio è una trovata sottile. Mike Mills rifiuta il film stesso, salvandolo dalle critiche all’eccesso di discorsi. Quel “bla bla bla” è imprescindibile per rispondere alle domande fondamentali. Anche se pedante, ricorsivo, barocco.

Per quanto ostenti profondità, il film è uno sguardo ottimista e permissivo a quelle stesse difficolta che racconta. Alla fine tutto è accolto, tutto è vita, e l’ultimo voiceover ammanta immagini meravigliose, volti morbidi, sorrisi soffusi. C’è una calma placida, che coccola un po’ troppo per le ambizioni sciorinate lungo la vicenda. Ma è solo una parte del film. La storia dello zio, l’adulto in cerca di fantasie infantili.

Se si rivolge l’attenzione al piccolo si è invece sorpresi da una ferocia sincera. È sua la battuta che ci lascia al pianto: “mi ricorderò di tutto questo?”. Non ci preoccupiamo mai della memoria dei bambini, come se il loro vissuto fosse in trasparenza alla vita vera, quella che segue. Il personaggio di Jesse è invece una notevole dichiarazione di presenza, e fa eco ai bambini realmente intervistati da Mike Mills. Jesse reclama un ruolo da protagonista nella sua stessa educazione, aprendo a un dialogo equo da cui ogni parte trae vantaggio. Alcune frasi scoccano con veemenza: “Ho saputo che mamma ha avuto un aborto”. Ecco, C’mon C’mon ci risveglia spesso da quel sogno di coccole materne che gravitano nella forma scelta da Mills. Arrivano parole che sono “bla bla” difficili da digerire. “E ora che cazzo gli dico”, si chiede lo zio, “non puoi dire la verità a un bambino di 9 anni”.

Imparare a essere genitori

Joaquin Phoenix interpreta un personaggio naive, con cui empatizziamo perché genuinamente indisposto al ruolo di genitore. La madre di Jesse, Vivs, è molto più lucida e conscia del fratello John. Lei, che affronta fuori campo il bipolarismo del padre di Jesse, è armata di realtà. In brevi flashback scopriamo che i due hanno a lungo litigato per la madre malata. John assecondava le fantasie della malattia, Vivs no. Al contrario ora John non vuole, anche se invitato da Vivs, seguire Jesse nella sua inusuale abitudine di fingersi orfano in cerca di casa. È il ruolo del padre il vero assente, che John non riveste mai scegliendo invece il solco preparato dalla sorella. La genitorialità improvvisata cambia le prospettive e apre a una messa in discussione dei ruoli educativi come mitici monoliti da replicare.

C’mon C’mon è un film che amiamo con facilità. Ci stringe a sé e dedica ogni istante concessogli a perifrasi sui grandi temi di sempre. Lo sappiamo che il bianco e nero è un trucco, che il voice over è un semplice sussurro e che in fondo è un percorso senza meta. Eppure non è una truffa. Per quanto ridondante e privo di intuizioni inedite, C’mon C’mon è un’antologia di meditazioni erette a monumento: entriamo da turisti, già consci di ciò che ci attende, ma il biglietto vale il tour e alla fine ci rende un po’ più vivi.

2.2 Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills (Fabio Vittorini duels.it)

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.


3 Video

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Perché sei solo? …..bla …bla

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SORRY WE MISSED YOU

Regia di Ken Loach.
Gran Bretagna, Francia, Belgio, 2019
durata 100 minuti.
età dai 13 anni
1. SINOSSI
2. RECENSIONI
3. VIDEO
  1. SINOSSI

Sorry We Missed You, film diretto da Ken Loach, è la storia di Ricky (Kris Hitchen) e Abby Turner (Debbie Honeywood), che, dopo il crollo finanziario del 2008, lottano contro la precarietà degli ultimi anni in quel di Newcastle, cercando di non far mancare nulla ai loro bambini. Proprio la loro disastrosa condizione lavorativa – lei badante a domicilio, lui fattorino mal pagato – e conseguentemente finanziaria li mette di fronte a una dura relatà: non diventeranno mai indipendenti e non avranno mai una casa di loro proprietà, se continueranno ad agire così.
Ma un’allettante opportunità irrompe improvvisamente nella loro vita, quando Abby vende la propria auto per permettere a Ricky di acquistare un furgone. Con il nuovo mezzo l’uomo inizia a fare consegne per conto proprio, purtroppo sorgeranno nuovi problemi che metteranno gravemente a rischio l’unità, finora così solida, dei Turner.

2. RECENSIONE ( di Valentina Giua )

Da “I, Daniel Blake” a “Sorry We Missed You”: un nuovo tipo di sfruttamento.
Ken Loach il “Rosso”, ha iniziato la sua carriera di regista con la BBC, per poi firmare decine di film e vincere due volte a Cannes, dedicando tutta la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Dopo aver finito I, Daniel Blake e vinto la Palma d’Oro, Loach era sul punto di ritirarsi. Ma i risultati delle ricerche fatte per il film, erano solo la punta dell’iceberg. Quello che Loach stava scoprendo era «un nuovo tipo di sfruttamento» che valeva la pena approfondire e raccontare in un nuovo film che fosse in qualche modo legato al primo.

L’esperienza di I, Daniel Blake ha dato lo slancio per realizzare Sorry We Missed You. Se I, Daniel Blake raccontava il complicato sistema dei sussidi e delle indennità, Sorry We Missed You (al cinema dal 2 gennaio) ruota attorno al mondo del lavoro e delle persone che – per dirla con Theresa May – «riescono a stenta a cavarsela». Quello che Loach vuole raccontare in questo film è il nuovo tipo di sfruttamento su cui si basa la gig economy ma soprattutto le conseguenze che questo sfruttamento causa nella vita famigliare del lavoratore.

La famiglia Turner.

Una scena del film Sorry We Missed You.
Il lavoratore scelto da Loach come protagonista è Ricky Turner – Kris Hitchen -, uno stacanovista per definizione. Lui e la moglie, avevano risparmiato abbastanza da riuscire a comprare una casa, ma il crack finanziario del 2008 gli ha impedito di sottoscrivere un mutuo. Ricky ha perso il lavoro e ha dovuto vendere la casa. La moglie, Abby – Debbie Honeywood – non è da meno, lavora come badante per un’agenzia e non è pagata a ore bensì in base al numero di visite. Per raggiungere le case dei suoi assistiti, sparse per la città di Newcastle, non può fare a meno dell’auto; Ricky però ha un piano per fare un sacco di soldi, decide così di venderla e acquistare un furgone per iniziare il suo business “personale”.

Il piano di Ricky consiste nel lavorare come un cane, superare anche se stesso per procurarsi i fondi necessari a comprarsi una casa e permettere alla famiglia di andare avanti come desidera. L’idea del fattorino per lui è l’ultima chance, anche perché le tensioni famigliari aumentano sempre di più e il figlio Seb – Rhys Stone -, sta per deragliare. La situazione peggiora ulteriormente quando Ricky inizia a essere sempre fuori. Seb rimane spesso con la sorellina Liza Jane – Katie Proctor -, che è molto sveglia e vuole solo che tutti siano felici.

In Sorry We Missed You ogni dettaglio è autentico.
Gli attori, tutti emergenti, non sapevano come sarebbe andata a finire la storia. Ogni episodio era una scoperta anche per loro. Loach infatti è da sempre ossessionato dalla credibilità dei suoi film. «Ogni dettaglio doveva essere autentico. Nessuno doveva fingere.» Lo stesso Hitchen ha dovuto lavorare 20 anni come idraulico prima di fare l’attore e ottenere la parte di Ricky. Le scenografie e gli ambienti sono stati realizzati con lo stesso obiettivo di ottenere credibilità: lo stile estremamente sobrio consente alla narrazione e agli attori di prevalere e prendere vita.

Così la famiglia Turner, dalla propria casa in affitto a Newcastle, riesce a diventare il microcosmo che rappresenta l’intera Gran Bretagna e non solo, data la diffusione del lavoro precario in tutta Europa. Il film, con i suoi protagonisti-simbolo, diventa il ritratto di un sistema che ha ripercussioni soprattutto sui figli di genitori stremati dal lavoro, che non hanno sufficientemente tempo per loro.

Impossibile non affezionarsi.

La lucida accusa del sistema che Loach fa in Sorry We Missed You, non è certo nuova o sorprendente rispetto ai suoi lavori precedenti. Chi lo accusa di essere troppo freddo e ideologico, potrebbe leggere questo film come l’ennesimo manifesto politico del regista. Ma la forza di un film come Sorry We Missed You, al quale è impossibile non è affezionarsi, merita ben altre considerazioni. Milioni di spettatori, come già è accaduto con I, Daniel Blake, si ritroveranno nei protagonisti del film, sentendosi meno soli e, finalmente, compresi nell’umiliazione che sono costretti ad affrontare ogni giorno. Per citare la produttrice Rebecca O’ Brian:

«Se si mettono insieme, i film di Ken costituiscono una sorta di lunga storia delle nostre vite. Mi piace pensare che tra 200 anni, se qualcuno vorrà farsi un’idea della storia sociale della nostra epoca, potrebbe trovare una risposta guardando cinquant’anni di film di Ken Loach e dei suoi sceneggiatori.»

3. VIDEO

TRAILER

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SCENE DAL FILM

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scena dal film
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scena dal fim

COMPITI A CASA di Raffaele Mantegazza

Risultati immagini per compiti a casa mantegazza fefè editore

1) INTERVISTA 

2) SINOSSI

 

INTERVISTA

W. Brandani:  Come è nata l’idea di scrivere un libro sul tema dei compiti a casa?

R. Mantegazza: Il tema dei compiti e quello della valutazione saranno sempre più temi caldi per la scuola, anche perché vengono affrontati in modo schematico (compiti sì/compiti no, voti sì/voti no) senza considerare che questi argomenti riguardano il tema della scuola più in generale e del suo senso per l’esperienza di vita di un ragazzo o di un bambino. Il libro cerca dunque di capire il senso dei compiti inserendolo nella domanda sul significato della scuola oggi e di proporre una soluzione che non sia troppo semplicistica

A chi si rivolge il libro?

Il testo è leggibile da tutti gli attori del teatro scolastico. Può essere letto dagli insegnanti per cercare di impostare diversamente il problema dei compiti, dai genitori per aiutare i propri figli in questa quotidiana attività, ci sono poi sezioni direttamente rivolte ai ragazzi, dalle primarie alle secondarie di II grado, per aiutarli a capire il senso dei compiti e il modo migliore per affrontarli

Spesso si sentono molti pareri discordanti sull’utilità dei compiti a casa, mai il tema dei compiti non è strettamente legato a come si fa scuola? Si possono abolire o incentivare i compiti a casa senza aver fatto una riflessione sul nostro sistema scolastico?

Come ho scritto sopra, ovviamente no, e questo è probabilmente l’errore che si compie. Se i compiti sono sostitutivi del lavoro a scuola, allora sono dannosi. Se invece sono una rielaborazione personale di una esperienza che è iniziata nelle aule scolastiche allora aiutano i ragazzi a pensare alla scuola e a trovare uno spazio per essa anche al di fuori dell’aula. Ma a due condizioni: che siano POCHI e BELLI

Qual è il ruolo dei genitori nel percorso scolastico dei figli e nello svolgimento dei compiti a casa?

Il ruolo dei genitori dovrebbe esser e sempre quello di garantire ai ragazzi uno spazio e un tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti, ma mai di sostituirli in questa che deve rimanere una loro attività. Ovviamente tutto questo evolve con il crescere dei ragazzi: dallo “stare di fianco” per i bambini delle primarie (che nel primo ciclo NON DOVREBBERO avere compiti) al lasciare spazio al ragazzo anche se in qualche caso significherà andare a scuola con i compiti sbagliati o addirittura non svolti

 

SINOSSI

Nel rapporto con le famiglie la questione dei compiti a casa è una delle più controverse. Sono troppi? Sono pochi? Solo durante il weekend o anche durante la settimana? L’argomento riempie dibattiti sui mezzi di comunicazione con petizioni da una parte e dall’altra, ma riempie pure i numerosi gruppi WhatsApp che intasano mentalmente ed emotivamente la vita delle famiglie con alunni a scuola. L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), in una recente nota, sembra aver messo un punto fermo nel dibattito: in Italia sono troppi! Questo libro scritto da un pedagogista di chiara fama fa il punto, chiarisce e dà consigli a studenti, genitori e insegnanti, dalle primarie alle superiori.

 

BUONA VISIONE – educare con i film –

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Perché si ama tanto il cinema?

Perché i film, entrando a far parte della nostra vita con le loro storie – drammatiche, romantiche, divertenti o tristi – sono capaci di coinvolgerci ed emozionarci. È quindi inevitabile pensare ai film come ad uno strumento pedagogico.

In questo libro, l’autore mette in evidenza le potenzialità educative di un film e come possa essere utilizzato, sia da professionisti dell’educazione che dai genitori, per favorire una riflessione.

Presenta inoltre una rassegna di settanta film che affrontano alcuni grandi temi educativi, perché “non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. (Ingmar Bergman)
Buona lettura … anzi buona visione!

PRESENTAZIONE AUTORE

Walter Brandani insegnante, educatore professionale, mediatore familiare e allenatore di rugby. Ha lavorato in vari servizi educativi per minori e adulti.

Per l’Associazione Nazionale Educatori Professionali è stato consigliere nazionale e referente del Centro Studi; attualmente insegna nella scuola primaria di Tradate (VA). Autore di libri per educatori, insegnanti e genitori,  è appassionato di cinema.

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