Andrea Bajani
La scuola non serve a niente
Edizione: LATERZA 2014
Collana: i Robinson / Letture
Serie: iLibra
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Descrizione
A cosa serve la scuola? A cosa serve un romanzo? A niente. A che cosa servono gli insegnanti? A niente. O al più: a spostare mobili. Si entra a scuola ammobiliati in un modo, e giorno dopo giorno ci sarà
qualcuno che cercherà di spostare la disposizione di quello che siamo. A questo serve la scuola: a cambiarci la disposizione delle stanze. Nient’altro. Ci servono insegnanti che non rinuncino a farlo. E ci serve uno Stato che a questi insegnanti riconosca questa responsabilità. Nient’altro. Solo a questo ci serve la scuola. Con la capacità di cambiare la disposizione di una stanza si fa tutto: si comincia a pensare che se il mondo è disposto in un modo, e quel modo non ci piace, si può anche cambiare. Fare uscire i ragazzi dalla scuola con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello che hanno consegnato loro, e non solo essere bravi a inserirsi dentro caselle già disegnate: la scuola a questo dovrebbe servire, a non accettare il gioco, a fare domande scomode. È una scelta politica quella di imparare a immaginare. Immaginare, scegliere, inventare delle parole nuove per dare forma nuova al mondo – liberarlo, in qualche modo, dalle parole in cui l’hanno costretto. È una scelta politica, quella di imparare ad accettare che una scuola non serve a niente se non a questo. A spostare mobili, a cambiare la disposizione del mondo.
Indice
Prologo
L’era del «Rinuncianesimo»
Separati in casa
Scaldare la sedia
Cosa resta del Prof 35
La scuola non serve a niente
Epilogo
In questione
Massimo Recalcati, Cari professori, non fate gli psicologi,
Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso,
Christian Raimo, Ma a qualcuno interessa educare noi insegnanti?,
Mariapia Veladiano, Maestri con la valigia,
Cronache dal fronte
Silvia Dai Pra’, Il primo giorno,
Chiara Valerio, Almeno una regola, per favore,
Marco Lodoli, Insegnare a imparare,
Christian Raimo, Prof, la richiamo,
Silvia Dai Pra’, Argomento a piacere,
I numeri della scuola
Cronologia delle riforme
Biografia
Andrea Bajani
Andrea Bajani è nato nel 1975. Con Feltrinelli ha pubblicato Mi riconosci (2013) e La gentile clientela (2013), oltre ad alcuni racconti nella collana digitale Zoom. Tra i suoi libri, Cordiali saluti (Einaudi, 2005), Se consideri le colpe (Einaudi, 2007, Premio Super Mondello, Premio Brancati, Premio Recanati), Ogni promessa (Einaudi, 2010, Premio Bagutta) e La mosca e il funerale (nottetempo, 2012). Per il teatro è autore di Miserabili, di e con Marco Paolini, e di 18mila giorni, Il pitone, con Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa. Collabora con diversi quotidiani e riviste. I suoi romanzi sono tradotti in molte lingue.
INTERVISTA DA REPUBBLICA
La scuola? Non serve a niente. Non è solo un diffuso e stucchevole stereotipo, ma anche il titolo dell’ultimo, graffiante libro di Andrea Bajani, arricchito dai contributi, tra gli altri, di Massimo Recalcati, Mariapia Veladiano e Marco Lodoli. La scuola non serve a niente (in vendita in edicola, libreria e qui in formato ebook) è sicuramente una forbita provocazione del 38enne scrittore, che sviscera le lacune dell’istruzione italiana, oggi sempre più abbandonata dagli studenti, come mostrano ricchi video, grafici e statistiche allegati al volume. Ma è anche il denso auspicio di un’istruzione che sia sì focolare di nozioni e conoscenze, ma soprattutto faro brillante di una più lucida lettura del mondo. Affinché alunni e studenti possano dare “un nome alle cose” di questa sfuggente società liquida.
Insomma, Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente»?
“È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto “servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a quello che c’è dentro la scuola”.
E cosa c’è dentro?
“C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra”.
E invece si allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come lo chiama nel libro una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di rinunciatari passivi.
“È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a “disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana. Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità”.
Perdita di autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
“È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”. Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti, alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto: “L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore passaggio fondamentale”.
Quale?
“L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare”.
Invece, l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
“Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento”.
Riforme che tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e responsabilizza gli studenti.
“Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece, si è sviluppata una passività sempre più marcata”.
Per questo lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
“Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose, che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere, per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza il filtro della scuola, è merce senza valore”.
VIDEO PRESENTAZIONE
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