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Il ragazzo con la bicicletta ( Dardenne 2011)

di J.Dardenne, L. Dardenne.  Titolo originale Le Gamin Au Vélo., Ratings: Kids+13 , 87 min. – Belgio, Francia, Italia 2011.

 

 

INDICE

1)RECENSIONE: un film sull’affidamento

2)RECENSIONE: RACCONTARE L’INFANZIA INCOMPRESA

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

4)TRAILER – SCENE FILM



1)RECENSIONE: un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore

Cyril, dodici anni, vive in comunità. È alla disperata ricerca del padre che ha cambiato casa e numero di telefono e non si fa vivo da diverso tempo. Non si capacita del fatto che sia sparito nel nulla e non gli abbia nemmeno lasciato la bicicletta cui teneva molto. Gli educatori cercano in tutti i modi di convincerlo a desistere dalla sua ricerca, ma Cyril è testardo, non ascolta nessuno e un giorno scappa dalla comunità per raggiungere in autobus la vecchia casa del genitore e scoprirla ormai disabitata. Quando arrivano anche gli educatori, il ragazzo cerca ancora di fuggire, rifugiandosi in un vicino studio medico. Qui, come ultimo e disperato gesto di resistenza, si aggrappa al corpo di una giovane signora e la abbraccia con tutta la forza che ha.

È in questo primo e provvisorio abbraccio che prende senso e valore l’ultimo film dei fratelli Dardenne. Il Cyril de Il ragazzo con la bicicletta è fratello minore dei tanti adolescenti o giovani che hanno attraversato nel corso degli ultimi quindici anni il cinema dei due registi belgi dall’Igor de La promesse (1996) alla giovane Rosetta (1999), dal Francis de Il figlio(2002) ai poco più grandi Bruno de L’enfant – una storia d’amore (2005) e Lorna de Il matrimonio di Lorna (2008). Con loro condivide l’ostinazione nel perseguire un sogno o un progetto, un’autonomia obbligata da un mondo adulto assente o infantile che lo circonda, il desiderio represso e soffocato di costruire relazioni e affetti, la fatica di sopravvivere a eventi o tragedie inattese, l’accesso quasi inevitabile al mondo della criminalità. A distanziarlo da loro (e a rendere meno cupo il film), giunge però già nelle prime battute della storia questo gesto di improvvisa e gratuita vicinanza con un altro essere umano. Una vicinanza che Cyril non sa ancora elaborare, ma che di fatto diventerà la sua vera ancora di salvezza, la direttrice di senso che lo sosterrà anche nei momenti più difficili. La donna che abbraccia si chiama Samantha, è una parrucchiera senza figli che si dimostra subito attenta alle sorti del ragazzo: riesce a recuperargli la bicicletta, accetta di ospitarlo a casa sua durante i weekend, lo aiuta nella ricerca disperata del padre. Quando finalmente i due trovano il giovane uomo e scoprono che non ha nessuna intenzione di prendersi cura di Cyril è Samantha la persona che sta accanto al dodicenne e assiste all’unico vero sfogo rabbioso del ragazzo, trattenendolo da gesti autolesionisti con un secondo e ancor più significativo abbraccio. La condizione di Cyril non migliora immediatamente, anzi i “quattrocento colpi” che egli, come quasi ogni ragazzo della sua età, è disposto a sperimentare, lo condurranno nelle braccia di un piccolo delinquente e da qui al coinvolgimento in un’arruffata e tragica rapina. E tuttavia, grazie all’intermediazione della donna e al suo modo di porsi non autoritario ma deciso e presente, Cyril troverà qualcuno disposto ad accompagnarlo nei suoi giri in bicicletta e, fuor di metafora, di offrirgli quell’affetto di cui ha bisogno.
Il ragazzo con la bicicletta è insomma un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore da parte di un adulto, un film su una vocazione all’accoglienza e sulla difficoltà di riconoscerla questa accoglienza da parte di chi ha bisogno. Ma è anche un film che riflette su una genitorialità che sembra sempre più allontanarsi dai vincoli di sangue, specie in situazioni di disagio e degrado, di povertà e assenza di prospettive. I Dardenne, da questo punto di vista, proseguono con coerenza e testardaggine – la stessa dei loro personaggi – un discorso sull’essere umano, sulle condizioni di povertà che la società contemporanea gli costruisce attorno e sulle possibilità di riscatto a cui può accedere attraverso un gesto, uno sguardo, un sentimento gratuito. E se in quest’ultimo film si possono riscontrare alcune debolezze sul piano della sceneggiatura e un minor rigore sul piano della rappresentazione visiva (viene meno per esempio l’uso frenetico della camera a spalla, la grana della pellicola è più pastosa segno di un abbandono forse definitivo al 16mm) è altrettanto vero che pochi altri cineasti avrebbero saputo trattare una materia pluricodificata – a partire dal titolo che allude a Ladri di biciclette di De Sica e ad una prima parte del film che ricorda molto il capolavoro di Truffaut I quattrocento colpi – con una certa originalità di tocco e di scrittura. “Affidarsi” ai Dardenne, anche in questo caso, significa mettersi nelle mani di cineasti che intendono indagare il reale e i suoi anfratti più oscuri e drammatici per elevarli a possibili territori di riscatto. Come avveniva nel cinema di Robert Bresson a cui i fratelli belgi sembrano guardare con sempre più sentita adesione.

Marco Dalla Gassa MINORI.IT
2)RECENSIONE:

Raccontare l’infanzia incompresa    

Di Marzia Gandolfi   –    mymovie.it

 

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’Enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore.

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

Autore: Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Dov’era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell’israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall’istituto e una volta fuori, montare sull’unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L’immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l’amore del padre, l’amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l’ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l’unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano. È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L’enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell’estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un’ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s’illumina del sorriso dell’infanzia.

4)TRAILER

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Mi dici che ti prende?

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Educare con lo sport

Educare con lo sport

Conferenza pubblica 13 aprile 2012- ore 21.00  Centro Culturale Ferraroli – Cogliate (MB) p.zza Giovanni XXIII

Relatore prof. Raffaele Mantegazza

 

 

 

 

La pratica sportiva rappresenta un elemento fondamentale per lo sviluppo psicofisico dei  bambini e un’opportunità per confrontarsi con alcuni importanti valori quali amicizia, solidarietà, lealtà, lavoro di squadra, autodisciplina, autostima, fiducia in sé e negli altri, rispetto degli altri, leadership, capacità di affrontare i problemi, ecc.  Eppure molti bambini abbandonano dopo pochi anni la pratica sportiva perdendo così un importante occasione educativa. Con questa conferenza vogliamo non solo riportare al centro della pratica sportiva il tema dell’educare ma anche riflettere su come vivono i bambini lo sport e quanto le proposte sportive che ricevono siano veramente a misura di bambino.

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La squadra scolastica di rugby e l’Istituto Cesare Battisti di Cogliate organizzano in collaborazione con il Centro culturale Ferraroli, i comitati dei genitori, rugby Lainate, rugby Seregno, Tennis Club Ceriano e il circolo Strafossati  una conferenza pubblica per genitori, insegnanti, educatori, allenatori, dirigenti sportivi  e tutte le persone interessate agli aspetti educativi della pratica sportiva. Per informazioni e per richiedere l’attestato di partecipazione rugbycogliate@gmail.com

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R. Mantegazza è professore di Pedagogia presso l’Università di Milano Bicocca e autore di vari libri  sui principi educativi dello sport.

Segui l’evento su facebook

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L’AMORE CHE RESTA – Restless (Van Sant 2011)

INDICE:
SCHEDA
RECENSIONE
TRAILER

SCHEDA
Un film di Gus Van Sant. Con Henry Hopper, Mia Wasikowska, Ryo Kase, Schuyler Fisk, Jane Adams.
continua»
Titolo originale Restless. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 95 min. – USA2011

TRAMA DEL FILM L’AMORE CHE RESTA:
Annabel Cotton è una bella e dolce malata terminale di cancro che ama intensamente la vita e il mondo della natura. Enoch Brae è un ragazzo che si è isolato dal mondo da quando ha perso i genitori in un incidente. Quando i due si incontrano a una cerimonia funebre, scoprono di condividere molto nella loro personale esperienza del mondo.

USCITA CINEMA: 07/10/2011
REGIA: Gus Van Sant
SCENEGGIATURA: Jason Lew
ATTORI: Mia Wasikowska, Henry Hopper, Schuyler Fisk, Jane Adams, Ryo Kase,Lusia Strus, Chin Han, Jesse Henderson, Victor Morris, Colton Lasater
Ruoli ed Interpreti

FOTOGRAFIA: Harris Savides
MONTAGGIO: Elliot Graham
MUSICHE: Danny Elfman
PRODUZIONE: Imagine Entertainment
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Pictures Italia
PAESE: USA 2011
GENERE: Drammatico
DURATA: 95 Min
FORMATO: Colore
Sito Ufficiale

SOGGETTO:
Dalla piece teatrale “Of Winter and Water Birds”, di Jason Lew.

RECENSIONE

Il funerale di uno sconosciuto. Due sguardi che si incrociano, incontrano, riconoscono. Quello sorridente, di lei. Quello schivo, di lui. Un incontro fugace, la scintilla che, inaspettatamente, farà sbocciare una storia d’amore. La storia d’amore di una vita, una storia d’amore di tre mesi che si srotola, leggera come il volo di un uccello marino, lungo un malinconico autunno. È questo il tempo che è concesso ad Annabel (Mia Wasikowska) ed Enoch(Henry Hopper), due giovani sedicenni toccati da vicino dalla morte. Alle spalle di lui, la morte dei genitori in un incidente stradale ed un coma di tre mesi. Di fronte a lei, la certezza della morte: cancro, è il verdetto.

Sono questi lo spazio ed il tempo in cui si sviluppaL’amore che resta, ultimo film di Gus Van Sant, il geniale regista di Paranoid Park, Elephant, Milk e Will Hunting.Una dolce, struggente, nostalgica storia d’amore tra due anime perse, che si trovano per accompagnarsi lungo un tratto della propria vita: quella di lei, che ha imparato a sorridere alla vita nonostante l’imminenza della morte, quella di lui, che la fugge, trascorrendola in compagnia di un improbabile amico immaginario, un giovane kamikaze giapponese, che altro non è se non il simbolo dell’accettazione della caducità della vita.

Una storia d’amore, quella tratteggiata da Van Sant, in cui non smette mai di riecheggiare quell’anelito alla vita che illumina il viso di Annabel ogni volta che racconta ad Enoch dei suoi tanto amati uccelli marini. E che spinge il ragazzo, seppur cinicamente arrabbiato e disilluso, a porgere la mano a quell’efebica ragazza che pare non curarsi del poco tempo che le resta. Un film di formazione, anche, L’amore che resta, in cui Enoch, attraverso un percorso difficile, che si concluderà solo con l’ineluttabile perdita di Annabel, riuscirà ad affrontare la vita proprio attraverso l’accettazione della morte. Quella dei suoi genitori, quella della ragazza che tanto intensamente ha amato, quella di se stesso: una morte durata pochi minuti, che gli ha lasciato un’eterna sensazione di nulla.

Un film difficile, anche, L’amore che resta, in cui a rappresentare la malinconica dolcezza di queste due giovani anime perse contribuiscono le tonalità cromatiche dei colori e delle luci: i due personaggi, spesso agghindati con bizzarri, quanto assurdi abiti anni cinquanta, vivono la propria storia in un eterno autunno. E come le foglie, che restano pervicacemente attaccate al proprio ramo, così Annabel ed Enoch attraversano il tramonto della propria vita rimanendo abbracciati l’uno all’altra. In attesa che arrivi l’inverno.

Una storia d’amore romantica e complicata, resa più facile proprio dall’ineluttabilità di un destino che ha già deciso del futuro di Annabel e che ha già lasciato un segno indelebile, una profonda cicatrice nel passato di Enoch. Una sfida persa in partenza, quindi, che nel suo essere contiene insita la soluzione alla vita: vivi quel che c’è, vivilo con tutto te stesso, sembra sussurrare Gus Van Sant attraverso il sorriso di Annabel. Con coraggio, dando tutto te stesso, senza curarti del domani. Perché il domani non è dell’uomo: a lui spetta solo il presente. Un presente che deve essere vissuto. Matteo Trombacco rubric.it

TRAILER

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Almeno questi!

 

Quanti e quali libri non può fare a meno di possedere una biblioteca rivolta a bambini e ragazzi? Non è possibile rispondere a tale domanda, ma si può almeno tracciare un’accurata cernita di libri per qualche motivo indispensabili – quindi meritevoli e interessanti – per l’orientamento dei giovani lettori. È quanto tenta di fare ogni anno la bibliografia dal programmatico titolo “Almeno questi!”, prodotta dal Centro regionale di servizi per le biblioteche per ragazzi attivo presso la Biblioteca di Villa Montalvo e curata da LiBeR, giunta ora alla sesta edizione, aggiornata a giugno 2011, con 2600 titoli. La bibliografia è scaricabile in formato pdf dal portale LiBeRWEB

Conferenza: Più o meno dodici anni

più o meno dodici anni

– conferenza pubblica sulla preadolescenza e l’adolescenza–

Prof. Angelo Croci

15 febbraio 2012 ore 21 Centro culturale Ferraroli Piazza Giovanni XXIII Cogliate (MB)

 

La relazione adulto-minore è un percorso complicato che spesso entra in crisi quando gli adulti si confrontano con minori di “più o meno dodici anni”. Ecco quindi che parlare di adolescenza può rappresentare un’opportunità educativa non solo per chi si relaziona quotidianamente con gli adolescenti, ma anche per chi vuole arrivare più preparato a questa importante tappa.

L’Istituto comprensivo C. Battisti, i comitati genitori di Cogliate e Ceriano L. e il Centro Culturale Ferraroli organizzano “più o meno dodici anni” una conferenza pubblica sul tema della adolescenza e della preadolescenza rivolta a insegnanti, genitori e operatori psicopedagogici.

Per informazioni www.iccogliate.it email walter.brandani@iccogliate.it

Il calamaro e la balena (Baumbach 2005)

INDICE
SINOSSI
RECENSIONE
TRAILER

SINOSSI

Il calamaro e la balena un film di Noah Baumbach. Titolo originale The squid and the whale. Drammatico, durata 81 min. – USA2005. –

Tutto scorre apparentemente tranquillo nella vita di quella che potrebbe essere una qualsiasi famiglia di Brooklyn, padre, madre e due figli, ma a dispetto della facciata perfettamente integra le fondamenta barcollano non poco, fino a crollare fragorosamente. Così, a seguito della separazione tra Bernard, scrittore senza più editori, e l’esasperata Joan, decisa a liberarsi dall’ego e dall’ombra del marito, i figli Walt e Frank si troveranno a fare la spola tra gli appartamenti dei due genitori. Gli adulti si daranno da fare imbarcandosi in relazioni improbabili, chi con un giovane istruttore di tennis, chi con un’acerba ma smaliziata studentessa, influenzando giocoforza le vite dei ragazzi, in una girandola di confusione adolescenziale di mezza età.
Noah Baumbach scrive e dirige l’autobiografia della propria adolescenza, facendoci assistere al racconto da un punto di vista privilegiato: quello di chi lo ha vissuto. Visione cinica quanto trasparente di un particolare collasso familiare e delle sue conseguenze più immediate, Il Calamaro e la Balena (si lascia scoprire allo spettatore il perché del titolo) è un’opera che gioca sulla fragilità dell’essere umano e l’impalpabilità dei suoi sentimenti, sospesi in equilibrio improbabile tra routine, sicurezza e felicità dimenticata per strada. (Giovanni Idili Mymovies)

RECENSIONE

Il calamaro e la balena, uscito in sordina sugli schermi cinematografici italiani, ha avuto una candidatura agli Oscar 2006 come migliore sceneggiatura originale. Noah Baumbach, che ha iniziato la sua carriera come regista nel 1995, a 26 anni, con Scalciando e strillando (Kicking and Screaming, Usa), è stato anche sceneggiatore diLe avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic With Steve Zissou, Usa, 2004) diWes Anderson, che gli ha reso il favore ne Il calamaro e la balena producendo il film. Ne Il calamaro e la balena, Baumbach riflette autobiograficamente sulla crisi familiare che caratterizzò la sua adolescenza, celandosi dietro il personaggio di Walt, allampanato diciassettenne, la stessa età che aveva il regista nel 1986, anno in cui si svolge il film.
Il Bernard Berkman del film, padre di Walt, riflette il vero padre di Noah, Jonathan Baumbach, scrittore dalle alterne fortune: grazie al rapporto tra Bernie e Walt nel film è però possibile notare le influenze cinematografiche adolescenziali di Noah dovute indirettamente ai gusti del padre Jonathan, che in una fase della sua vita è stato anche critico cinematografico per la “Partisan Review”, storica rivista di sinistra fondata dal teorico del Masscult e Midcult Dwight MacDonald. Ciò che nella pellicola si nota superficialmente è una grande passione per il cinema francese, soprattutto per quello della Nouvelle Vague, di cui si citano Il ragazzo selvaggio (L’enfant Sauvage, Francia, 1970) di François Truffaut eFino all’ultimo respiro (À boute de souffle, Francia, 1960) di Jean-Luc Godard, in particolare l’ultima scena, quella in cui Jean-Paul Belmondo, poco prima di morire, offende Jean Seberg toccandosi le labbra da parte a parte. Sul muro spoglio dell’abitazione di Bernie compare poi la locandina di La maman et la putain (Francia, 1973), capolavoro travagliato di un talento altrettanto inquieto della Nouvelle Vague francese come Jean Eustache. La filiazione, seppur ad una lettura epidermica, appare chiara: così come il cinema francese del periodo a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta puntava a far diventare il film una sorta di diario intimo, sulla scorta di una serie di teorie ed interventi di vari studiosi e critici (Astruc, Bazin, Truffaut stesso), Baumbach assume in prima persona questo invito quasi cinquant’anni dopo e realizza il suo personale diario intimo di un’adolescenza sofferta, condotta all’ombra di un padre frustrato ed egoista, cultore di una personalità continuamente preda della superbia e dei rovesci del destino. L’altro riferimento nel film è a Velluto blu (Blue Velvet, Usa, 1986) di David Lynch, film uscito nel periodo in cui è ambientata la vicenda, altra imposizione di Bernie/Jonathan nei confronti della formazione culturale del figlio: l’assunzione in questo caso è forse meno percepibile e forse anche maggiormente forzata, se si suppone che l’ispirazione lynchiana possa aver influenzato Baumbachnella creazione di un universo in cui l’angoscia si nasconde dietro la patina di perfetta, anche se squilibrata, rispettabilità.

IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Una partita di tennis familiare

Le vicende narrate in Il calamaro e la balena iniziano in un campo da tennis, con una partita di doppio misto. Misto non tanto perché include anche una donna, quanto perché mette di fronte quasi programmaticamente gli schieramenti protagonisti dell’aspro e rovinoso conflitto che di lì a pocoBaumbach svilupperà in seno alla famiglia Berkmann. Da un lato Bernie, il padre, e Walt, il figlio maggiore, invogliato ad insistere “sul rovescio debole della madre” per portare in porto una partita la cui unica posta in gioco è una vuota soddisfazione personale. Dall’altro, Joan, la madre, moglie di Bernie da diciassette anni, e Frank, il figlio minore della coppia, che nella partita pare essere spettatore della sfida in atto, nella quale invece Walt, stimolato da Bernie, ha invece una ruolo da protagonista. Ed è un incipit che, allegoricamente, anticipa gli equilibri presenti nella storia narrata immediatamente dopo: Bernie e Joan intenti a gestire il loro ormai logoro rapporto; Frank in veste di osservatore passivo e vittima di una situazione che per età e dinamiche non può comprendere appieno; Walt spesso utilizzato dal padre come leva per mutare i già precari equilibri in atto e come figura su cui proiettare i valori ideali a cui farebbe costantemente riferimento se una profonda frustrazione, dovuta all’eclissi del successo letterario, non lo avesse attanagliato. Ma anche la posizione in campo assunta dai due figli è emblematica di ciò che il film rappresenta: Frank, più di Walt – indotto dal padre a gestire insieme la partita contro la madre – è bloccato in quella che nel gergo del tennis si chiama “Nobody’s Land”, terra di nessuno, ossia lo spazio compreso tra fondo campo (in cui ci sono Bernie e Joan) e la rete, una superficie sconsigliata da tutti gli istruttori e i commentatori televisivi perché improduttiva ai fini del risultato, troppo lontana dalla rete per fornire il colpo decisivo (ancor di più se tale colpo non lo si è preparato adeguatamente dal fondo campo), troppo scoperta per potersi difendere in caso di contrattacco. Perfetta metafora della situazione di Frank, costretto, suo malgrado, da una partita che per età e costituzione non può condurre, a vivere senza una vera dimora da sentire propria, alternativamente a casa della madre che egli continua a definire “casa nostra” (mentre Bernie gli fa notare come sia casa della madre) e la nuova abitazione del padre, contraddistinta con “casa di papà” (mentre Bernie si premura di fargli notare come anche quella nuova abitazione, in fondo, sia casa sua). Esemplare è, a questo proposito, l’inquadratura che mostra il povero Frank in campo medio, affranto, seduto su una sedia con bracciolo per mancini (lui che è destrorso) compratagli da Bernie per permetterli di studiare anche nel nuovo appartamento. Terra di nessuno dettata dall’affidamento congiunto, quello stesso affidamento congiunto che “fa schifo”, secondo le parole di Otto, un compagno di scuola di Walt, che ha già provato l’esperienza sulla sua pelle: metodo ipocrita di condivisione di spazi e momenti, perché ciò che interessa realmente è soltanto un risparmio sugli alimenti.
Così, se per il piccolo Frank la separazione dei genitori è dolore da allontanare con improprie bevute di birra e vino e smarrimento in un’ipotetica e confusa dimensione in cui contano le pulsioni sessuali ossessive e la possibilità di circoscrivere gli ambienti frequentati con il proprio seme (il ragazzino, dopo essersi masturbato, “spalma” con lo sperma armadietti e scaffali della biblioteca) quasi a creare quel senso di appartenenza che prima la posizione sul campo da tennis e poi lo squallore scrostato della nuova abitazione di Bernie non gli hanno fornito, per Walt, personaggio dietro cui si cela la figura del regista, si tratta invece di un faticoso percorso di crescita adolescenziale. Walt, seppur illudendosi di gestire individualmente la difficile situazione, vive la sua vita ad immagine della volontà di Bernie, come suo braccio armato pronto a sfruttare “il rovescio debole della madre”: la sua è un’esistenza priva di autenticità, vissuta come proiezione dell’ingombrante – seppur in disarmo – personalità paterna. Il rapporto con Sophie, sua tenera compagna di scuola, è prima diretto, poi catastroficamente mediato dal consiglio paterno volto a crearsi una vasta rete di esperienze; il conversare di letteratura non è scambio di esperienze genuino, ma un pontificare altezzoso e vuoto con il chiaro obiettivo di fornirsi di quella statura culturale che Walt riconosce nel padre; l’attribuirsi la composizione di Hey You dei Pink Floyd non è volontà di frodare il concorso scolastico, quanto il tentativo sconclusionato e irrazionale di garantirsi l’ammirazione paterna. Il cammino di Walt dev’essere indirizzato a recuperare una propria individualità slegata dall’aura di Bernie, una serenità in cui sia possibile anche recuperare il rapporto con una madre che ha mostrato di odiare (ma solo per appartenenza alla “squadra” del padre): l’inquadratura che segna inequivocabilmente questa possibilità è il particolare della mano del ragazzo che si stacca da quella di Bernie, convalescente nel letto di ospedale. Il cammino successivo di Walt è indirizzato al museo di storia naturale di New York, verso quel calamaro addentato dalla balena simbolo di una paura infantile condivisa con la madre, ancora fonte di conforto e non nemica. Osservare da soli quell’enorme duplice mostro, il cui terrore era stato confessato allo psicologo, è un piccolo ma decisivo passo verso la conquista della maturità. (Giampiero Frasca, minori.it)-

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Il grinta (Coen 2010)

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SINOSSI
Un film di Ethan Coen, Joel Coen. Con Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Hailee Steinfeld, Barry Pepper.
continua» Titolo originale True Grit. Western, Ratings: Kids+16, durata 110 min. – USA 2010

Dopo che il padre è stato ucciso da un pistolero di nome Tom Chaney, la 14enne Mattie Ross decide di avere la sua vendetta. Per avere aiuto, assolda il più duro dei Marshall del west, Reuben J. ‘Rooster’ Cogburn, un uomo ruvido e dal carattere difficile che accetta con riluttanza che Mattie lo accompagni nella caccia all’uomo di cui è stato incaricato. A loro si unisce poi un Texas Ranger di nome LaBoeuf, da tempo sulle tracce di Chaney.

SCHEDA

Ispirato alle centosettantacinque pagine del libro di Charles Portis, Il Grinta dei fratelli Coen non è il remake dell’omonimo film di Henry Hathaway interpretato da un autunnale John Wayne. Ambientato in Arkansas e girato tra il New Mexico e il Texas, realizza pienamente le suggestioni western di Non è un paese per vecchi, trattando la vendetta e la giustizia in un interregno sospeso tra barbarie e leggi per garantire un ordine necessario a una rassicurante convivenza civile. Intenzionalmente distanti dall’epica solare e dall’avventura benevola di Hathaway, i registi si misurano direttamente con un classico della letteratura americana, aderendo fedelmente ai dialoghi ma intervenendo significativamente sul tessuto narrativo. Interventi, i loro, che hanno liquidato le divagazioni ed esagerato il separarsi e il ritrovarsi dei protagonisti, enfatizzato la cavalcata finale dello sceriffo Cogburn e convertito il realismo letterario in parentesi surreali (l’atmosfera allucinatoria della galoppata notturna), ridimensionato il ruolo del Texas Ranger LaBoeuf col corrispondente incremento delle qualità ‘grintose’ e battagliere della giovane Mattie Ross, che invoca avvocati e ricorsi legali, impugna pistole e predica il Vecchio Testamento.

Fedele al testo è pure la cornice soggettiva del racconto, dichiarata dalla voce over di Mattie che apre e chiude il film, e la triplice prospettiva portisiana: tre personaggi, tre sguardi e tre caratteri dell’America portatori rispettivamente di uno zelo protestante (Mattie), di uno spirito anarchico (Cogburn) e di un’anima repubblicana (LaBoeuf ).

Il raffinato Grinta dei Coen restituisce al western quella centralità nell’immaginario quotidiano che da troppo tempo non deteneva.

Quarantadue anni dopo Il Grinta di Henry Hathaway, i fratelli Coen recuperano lo sceriffo anarchico e sbronzo di whisky di Charles Portise ne restituiscono una lettura fedele al romanzo e conforme al loro cinema. Jeff Bridges, faccia da duro e modi da duro, impugna il fucile e sfida John Wayne, interprete marmoreo del cinema epico-avventuroso, e il ruolo che gli valse il solo Oscar della carriera e un remake nel 1975 con Katharine Hepburn.

Coinvolti loro malgrado in uno scontro a fuoco mediatico, i contendenti incarnano e portano a termine la stessa avventura: accompagnare la vendetta di un’adolescente protestante e ostinata nella terra indiana di Choctaw, dove si nasconde il pavido assassino di suo padre.

Stessa grinta, stessi peccati, stessi morti sulla coscienza, stessa voglia di whisky, stessa benda nera (ma diverso occhio chiuso), Wayne e Bridges producono sullo schermo una discorde eco emotiva ma esibiscono la medesima natura classica.

Le loro performance distanti per ‘corpo’, tenace e atletico il primo, pigro e gravato il secondo, rivelano tracce di emozioni precedenti e di stagioni cavalcate e differenti del cinema americano, dentro il quale condividono John Huston, la malinconia crepuscolare, lunghi anni di gavetta e lo spirito da ‘fondisti’.

A distinguere le interpretazioni corpose sono piuttosto i film che le comprendono e le svolgono. Se il vecchio maresciallo dell’esercito interpretato da John Wayne era protagonista dell’avventura disneyana e paterna di Hathaway, lo sceriffo bevitore di Jeff Bridges è spettatore ravvicinato di un mistero in gonnella che riuscirà comunque a risolvere, trascinandosi dentro un western sospeso e osservando quello che gli accade intorno per poi dare il colpo di grazia con una cavalcata finale fulminante. (Marzia Gandolfi )

RECENSIONE

Mattie Ross è una quattordicenne fermamente intenzionata a portare dinanzi al giudice, perché venga condannato alla pena capitale, Tom Chaney l’uomo che ha brutalmente assassinato suo padre. Per far ciò ingaggia lo sceriffo Rooster Cogburn non più giovane e alcolizzato ma ritenuto da tutti un uomo duro. Cogburn non vuole la ragazzina tra i piedi ma lei gli si impone. Così come, in un certo qual modo, gli verrà imposta la presenza del ranger texano LaBoeuf. I tre si mettono sulle tracce di Chaney che, nel frattempo, si è unito a una pericolosa banda.

“I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”. Con questo passo dal Libro dei Proverbi si apre il film che rappresenta l’ennesima sfida dei Coen. Questa volta i due registi decidono di confrontarsi al contempo con un genere che hanno (seppure a modo loro) già esplorato (il western) e con un’icona del cinema di nome John Wayne. Non era un’impresa facile realizzare un remake del film di Henry Hathaway che fece vincere l’Oscar al suo protagonista. Ma, come sempre, i Coen riescono a costruire un’opera totalmente personale pur rispettando (più dell’originale) lo spirito del romanzo di Charles Portis a cui la sceneggiatura si ispira.
Già la citazione biblica ne è un segno. Mattie è spinta a cercare giustizia da un carattere assolutamente determinato e lontano dall’iconografia della donna del West (Calamity Jane, Vienna/Joan Crawford e pochi altri esempi a parte) ma anche da un fondamentalismo che ha radici religiose. I Coen eliminano visivamente il prologo proponendo la vicenda come un flashback della memoria della donna Mattie. Una donna divenuta troppo precocemente tale perché nata in un mondo in cui dominano l’ignoranza (“Mia madre sa a malapena fare lo spelling della parola cat”) e la morte.
È un film sul distacco, sulla perdita, sulla separazione Il Grinta. Mattie non bacerà il cadavere del padre (per quanto sollecitata) ma assisterà all’impiccagione di tre condannati due dei quali potranno esprimere il loro pentimento o la loro rabbia. Il terzo non potrà farlo: è un nativo pellerossa. La stessa Mattie però dormirà nella stanza mortuaria accanto ai cadaveri degli impiccati. Da quel momento avrà inizio un lungo percorso in cui Rooster Cogburn, detto Il Grinta, sarà una sorta di disincantato ma al contempo dolente Virgilio pronto a raccontare di sé e del suo confronto quotidiano con una morte inferta o subita. Mattie lo vedrà per la prima volta non mentre arriva in città con i malfattori catturati (come nel film del 1969) ma emergere progressivamente alla visione mentre in tribunale gli viene chiesto conto degli omicidi (a favore della Legge certo ma sempre omicidi) compiuti. Jeff Bridges è perfetto nel rendere quasi tangibile questa figura di uomo della frontiera cinematograficamente in bilico tra la classicità e lo spaghetti-western.
Si lascia The Duke Wayne alle spalle e affronta un viaggio in un genere destinato a proporre, incontro dopo incontro e scontro dopo scontro, una riflessione su un modo di concepire il confronto sociale non poi troppo distante da quello in atto in questi nostri difficili tempi. Perché, non dimentichiamolo, anche il più apparentemente astratto film dei Coen morde sempre (e con grande lucidità) sul presente. (Giancarlo Zappoli )

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This is England (Meadows, 2006)

INDICE

SINOSSI
SCHEDA
TRAILER
VIDEO
SCENA FINALE

SINOSSI
Luglio 1983. Shaun ha 12 dodici anni, vive con sua mamma, suo padre è morto nella guerra delle Falkland. A scuola è vittima del bullismo ed è considerato da tutti un perdente, proprio in questo periodo turbolento, Shaun si trova sempre più isolato dal resto dei giovani ragazzi e passa le giornate alla spiaggia praticamente solo. Dopo l’ennesimo litigio a scuola, dovuto al suo abbigliamento da sfigato con i pantaloni a zampa di elefante, Shaun incontra un gruppo di skinheads che sembrano non curarsi dei suoi vestiti. Grazie a loro troverà degli amici veri che lo faranno sentire parte di qualcosa e il coraggio che gli è sempre mancato, riuscendo a respingere la timidezza per conoscere Smell, una ragazza più grande di lui.

Il gruppo è molto coeso nonostante sia formato da ragazzi e ragazze appartenenti a diverse sottoculture del periodo. Il gruppo è formato da Woody (skinhead), Lol (skingirl/sort), Smell (new romantic), Gadget (skinhead), Milky (skinhead original), Pukey (street skinhead), Kelly (skingirl), Pob (rude girl), Meggy (herbert) e Trev (skingirl).

Durante una festa a casa di Gadget, torna in città Combo, che è stato in prigione per 3 anni, per riprendersi il posto di capo banda portandosi dietro Banjo, un suo compagno di galera; purtroppo quando era dentro Combo ha frequentato alcuni naziskinheads che lo hanno convinto ad accogliere l’idea razzista e nazionalista del National Front inglese. Combo inizia immediatamente ad istigare i giovani del gruppo al razzismo dando brevi lezioni di vita e pronunciando discorsi sulla supremazia dei bianchi rispetto agli altri popoli, specialmente i neri. Milky, di origine giamaicana, si sente offeso e questo porta alla divisione del gruppo, nonostante i tentativi di Lol e Woody di mantenere uniti gli amici cercando di allontanare alcuni di loro, i più giovani soprattutto, dalle ideologie nazionaliste di Combo.

Una volta diviso il gruppo, Combo inizia l’indottrinamento di Shaun seguito da Gadget, Banjo, Meggy e Pukey. Quest’ultimo, dopo un discorso tenuto da un rappresentante del National Front, ha un violento diverbio con Combo a causa della sua impossibilità a condividere idee razziste. Quindi Pukey abbandona il gruppo di Naziskinheads tornando tra i vecchi amici.

Ma Combo non demorde, oltre a riappropriarsi della leadership degli skinhead cittadini vuole riavere il suo vecchio amore, Lol, che dopo la carcerazione di Combo è diventata la fidanzata di Woody. Nel frattempo Combo organizza anche dei raid contro gli immigrati, pakistani in particolare. La vita di Combo crolla dopo l’ennesimo rifiuto di Lol, invita tutti i suoi amici e poi con lo stratagemma di voler comprare della marijuana da Milky lo fa entrare in casa sua. Qui Combo capisce che la sua vita è un totale fallimento, soprattutto dopo che Milky gli descrive il suo rapporto coi familiari e le feste passate in famiglia. Combo perde la testa, aggredisce brutalmente Milky e lo riduce in fin di vita. Nella stessa occasione picchia anche il suo compare Banjo e caccia in malo modo Meggy, Smell, Gadget. L’unico che rimane nell’appartamento è il piccolo Shaun, che assiste a tutta la scena in lacrime.

In seguito vediamo la madre che rincuora Shaun sulle condizioni di Milky, fortunatamente non morto. Le immagini alla TV fanno intuire la fine della guerra delle Falkland. Shaun torna sulla spiaggia dove passava i pomeriggi da solo e getta nel mare la bandiera con la Croce di San Giorgio regalatagli da Combo.

SCHEDA
Il film descrive a meraviglia la sociologia di gruppo fra giovani marginali assistiti dal welfare inglese, senz’ombra di futuro. Ognuno, anche in questi gruppi che sembrano contrastare programmaticamente la fissità gerarchica della cosiddetta società borghese, ha una sua collocazione ed un suo ruolo ben preciso e non derogabile. C’è l’aggressivo mitomane, il testimone che segue comunque la maggioranza, l’astenico, la vittima, il ciccione. Le ragazze del gruppo sono sempre in seconda fila. Non partecipano ai giochi ma si limitano a vederli. Hanno la fissità inespressiva delle bambole di plastica.

A loro modo, sono pure dei bravi ragazzi (anche se questa valutazione può sembrare sorprendente; ma non per chi ha visto questo film). Il merito del regista è appunto quello di non avere costruito un film a tesi ma di aver realizzato il ritratto fedele di un tempo e di un gruppo. L’uno e l’altro, avvicinati con stupore e voglia di ritrarre, senza giudizi di merito, se non molto impliciti. Questo è un film per capire, non per giudicare.

In ogni caso, tutti (anche quelli che, nel gruppo, fanno un grande casino) sono degli sconfitti. Alcuni si rifugiano nel razzismo e nel nazionalismo. Ma anche queste sono stampelle che, oltretutto, non convincono tutti. Il collante di tutta la storia, l’unico che, nella sua apparente innocenza, può permettersi di infrangere le regole di questi sregolati ed attraversare i recinti che separano i vari componenti del gruppo, è il ragazzino che, recitando, esprime paura, coraggio, lucidità, aggressività e sottomissione. Una gamma di sentimenti amplissima, riflessa in un viso improbabile e, tutto sommato, anche inespressivo perché fisso. Il ragazzino infatti recita con i suoi occhi mobilissimi che si agitano in una faccia immobile che sembra essere quella di un manichino.

La vicenda si snoda su immagini sfocate di cronaca di quegli anni, rese con un color pastello sbiadito e sottolineate da una colonna sonora con le calde canzoni di quel tempo e con le improvvise e sconvolgente vibrazioni, fatte con poche note, estratte da chitarre pizzicate che emettono suoni appuntiti e roventi che ti entrano nel fisico, prima ancora che nella testa. di Pierluigi Magnaschi

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VIDEO

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SCENA FINALE

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I nuovi adolescenti (Charmet, 2000)

INDICE
SCHEDA
INTERVISTA
LA SCUOLA (video)
PENSIERI POSITIVI (video)
IL FUTURO (video)
LIBRO PER GENITORI


SCHEDA
Gustavo Pietropolli Charmet
I nuovi adolescenti.
Padri e madri di fronte a una sfida
Raffaello Cortina Editore pp. 296 – 19 euro

Il clima affettivo in cui dipana l’adolescenza è radicalmente cambiato perché è mutato il modo in cui gli adulti si trovano a esercitare il mestiere di padre e madre. Meno regole e norme e più attenzione a sostenere la crescita affettiva e relazionale del figlio, il suo diritto ad essere se stesso e a esprimere la propria indole seguendo i propri tempi interni di maturazione e acquisizione di competenze sociali. Il passaggio da un’infanzia privilegiata all’età adulta è vissuto con grande intensità emotiva. Noia, tristezza, paura e vergogna si alternano come affetti capaci di governare il comportamento dei ragazzi e il disagio che sperimentano. Questo imprime alle loro relazioni modalità espressive che pongono ai padri e alle madri ardui e difficili scelte di intervento, che l’autore passa in rassegna, suggerendo risposte possibili sulla base della sue esperienza di psicologo di rango

INTERVISTA A CHARMET

Intervista a Gustavo Pietropolli Charmet
Docente di Psicologia dinamica
all’Università statale di Milano

Professor Charmet, perché si parla di nuovi adolescenti?
“Uno degli aspetti fondamentali per coloro che interagiscono con i ragazzi, è quello di tenere presente che per capirli non serve più tanto ricordarsi bene della propria adolescenza. Nuovi comportamenti non ci autorizzano a semplificare la situazione. Siamo di fronte a dei contenuti nuovi, nuovi timori, bisogni. All’origine qualcosa è cambiato. Stanno cambiando i motivi per cui si soffre”.

In che senso?
“Io sono convinto che siano cambiati sia i contenuti che le forme non solo del disagio e del sapere ma anche della vita amorosa, della vita di gruppo, delle relazioni familiari, e che la scuola e la famiglia non siano al corrente del significato dei cambiamenti. Vedono le novità, si allarmano, si preoccupano, ma non riescono a dare un significato adeguato e questo complica la relazione educativa.

Spesso le novità spaventano, si tende o per una direzione o per un’altra. O si prende per buona la loro precocità, la loro autonomia, lo sviluppo di abilità sociali, oppure si esamina il lungo soggiorno in famiglia scambiandolo per patologia, immaturità, per carenza affettiva che evidentemente non è, dato che il 62% di giovani adulti, ultra trentenni, vivono ancora con la loro mamma.

Quindi mi sembra importante parlare di novità, che mi sembrano tantissime, e bisogna fare uno sforzo culturale per andare in questa direzione”.

In recenti fatti di cronaca abbiamo visto protagonisti adolescenti trucidatori dei propri genitori. Adolescenti che vengono definiti “normali”. È veramente così o si può parlare di qualcosa di patologico?

“Questa è stata un’amplificazione mass mediale. Credo che la preoccupazione vera dei genitori e degli educatori non sia oggi il fatto che i ragazzi prendano la decisione di uccidere la madre o il padre, ma esattamente il contrario. Cioè il conflitto tra le due generazioni è talmente pacifico e silenzioso che i conflitti sociali dei ragazzi, la loro protesta, le loro utopie, il loro impegno sono talmente miti che la sottomissione è impressionante. Quindi abbiamo una generazione di figli mammoni, non di matricidi.

Il problema non è la violenza ma lo spegnimento completo della capacità di combattere dei ragazzi”.

Di quale spegnimento sta parlando?

“Dal punto di vista educativo abbiamo il problema non di attenuare il livello dello scontro, ma di aiutarli anche a dire di no qualche volta.
Probabilmente l’interesse che questo tipo di eventi ha suscitato nell’immaginario è proprio legato al fatto che si comincia a sospettare che avere elementi silenziosi non sia l’effetto di un esagerato buonismo, ma che sia dovuto ad un’incapacità di porsi come diversi, che si sia spenta una naturale aggressività degli adolescenti e che quindi ci possa essere una violenza sommessa, ideologica, che tace. Socialmente questa situazione preoccupa i sociologi.

Può darsi che questa preoccupazione esprima in realtà la percezione che c’è qualcosa che non va, che si è dato troppo ma che questo dare troppo ha forse la finalità di metterli a tacere e di lavarsene le mani. In effetti sono ridotti al silenzio fino a quando a qualcuno non viene in mente di tirare fuori il coltello. Ora c’è l’idea che ci possa essere un livello di ribellione inespressa che cova sotto le ceneri”.

Quanto incide la famiglia oggi nella crescita e formazione degli adolescenti?

“Incide molto meno che in passato. Tutte le ricerche dimostrano che i ragazzi hanno due famiglie: la famiglia naturale e poi la famiglia che si sono costruiti con le loro mani, la famiglia sociale, il gruppo di amici, piccolo o grande a seconda dell’età, che ha un potere decisionale enormemente superiore a quello della famiglia. Il gruppo li accompagna, li sostiene, li consola, li tiene uniti, svolge una funzione di contenimento affettivo di gran lunga superiore a quello che svolge la famiglia.

Il gruppo adolescenziale però non ci mette niente a diventare cattivo, stupido o deviante. Questo è il vero problema, perché buona parte dei reati minorili, che sono effettivamente aumentati di numero, non sono reati individuali ma di gruppo. Buona parte delle condotte pericolose anche per la vita, non sono individuali ma di gruppo, non si rischia da soli ma in gruppo. Tutta la gestione del sociale è di gruppo non è individuale, tutte le sfide sono di gruppo non individuali. Le decisioni, i più grandi, non le prendono con il pediatra o con la madre, ma con il gruppo. Dal debutto sessuale, via via fino alle cose più banali come il tatuaggio o il modo di bere, è tutto gestito dalla famiglia sociale.

Dentro la cosiddetta famiglia normale c’è una vita di gruppo appassionata dove si prendono decisioni rischiose, il gruppo che non ne può più di annoiarsi, che non è mai capace di decidere niente, decide a volte di compiere qualcosa di stupefacente”.

Esiste veramente il distacco dalla politica?

“Nella scena domestica, intima, credo che i genitori abbiano favorito questo perché i figli non rimanessero delusi come loro. È merito dei loro genitori avere sconfitto le ideologie, ma hanno tolto la filosofia della speranza”

LA SCUOLA > VIDEO

PENSIERI POSITIVI > VIDEO

IL FUTURO > VIDEO

LIBRO PER GENITORI

Adolescenti in crisi, genitori in difficoltà. Come capire ed aiutare tuo figlio negli anni difficili (Charmet , Elena Riva, 2001)

Scheda

Matilde, 15 anni, una mattina decide di non andare a scuola. Sale su un tram e si avventura, da sola, nel triste squallore della periferia. Roberto, 15 anni, un giorno distrugge mobili e suppellettili della sua stanza dopo una telefonata con un amico.

– Perché adolescenti apparentemente “normali” possono giungere ad episodi così estremi?

– Cosa vogliono comunicarci?

– E noi come dobbiamo reagire?

È un mestiere difficile quello dei genitori. E diviene quasi impossibile con figli adolescenti, capaci di ferire con grande crudeltà, senza regole, pronti ad attaccare da tutte le parti. Ragazzi imprevedibili, creativi, generosi, ma anche annoiati, apatici, tristi, timidi, che si comportano come se non avessero nulla da perdere.

Cosa possiamo fare noi genitori? Dinanzi al figlio che smarrisce la direzione dobbiamo funzionare da adulti, dobbiamo riuscire a regalare a loro un senso, a ricostruire insieme le trame spezzate di verità affettive profonde. È quanto ci insegna il libro in questa nuova versione aggiornata e ampliata. Scritto da due noti psicologi che con gli adolescenti in crisi e le loro famiglie lavorano da anni, vi aiuterà a capire, ma soprattutto a raccogliere la sfida che i vostri figli adolescenti vi stanno lanciando.

Gustavo Pietropolli Charmet , docente di psicologia dinamica all’Università di Milano e giudice onorario del Tribunale per i Minorenni di Milano, presidente dell’Istituto “Il Minotauro”. È autore di numerosi saggi sul disagio e le relazioni familiari durante la crescita adolescenziale, tra cui: Amici, compagni, complici (Angeli, 1997), Adolescente e psicologo. La consultazione durante la crisi(Angeli, 1999); con A. Marcazzan, Piercing e tatuaggio. Manipolazioni del corpo in adolescenza(Angeli, 2000).

Elena Riva , psicologa e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, è socia dell’Istituto “Minotauro” e consulente presso i Servizi per la Giustizia minorile di Milano. È autrice di: Figli a scuola (Angeli, 1996); con G. Pietropolli Charmet, Adolescenti in crisi (Angeli, 1995) e con A. Maggiolini, Adolescenti trasgressivi (Angeli, 1998).

Indice

Premessa
(Genitori e crisi adolescenziale; La consultazione con lo psicologo)
Dalla famiglia delle regole alla famiglia degli affetti
(Quali compiti per la famiglia?; Essere genitori prima di tutto; La nuova famiglia affettiva; Elsa non vuole crescere; Conclusioni e consigli ai nuovi genitori)
Le madri dei ragazzi tristi
(La madre che lavora; Il bambino socializza; Spinta alla crescita; Giovanni lega la madre; Consigli dello psicologo alle madri che lavorano)
I padri dei ragazzi tristi
(La crisi del padre padrone; I nuovi padri; Il padre assente; Il figlio del padre disertore; Arriva lo psicologo; Il padre materno; Consigli ai padri di ragazzi tristi)
Le ragazze tristi
(Adolescenza e identità di genere: non voglio essere come mia madre; I genitori delle adolescenti tristi; Cinzia è in guerra con sua madre)
I ragazzi tristi
(La guerriglia di Alex; Il padre di Alex; Il nuovo processo di costruzione dell’identità maschile)
Adolescenze ribelli e adolescenze protette
(Lo sguardo sul corpo; L’educazione sessuale; La famiglia e gli amici; La famiglia affronta una nuova nascita; Consigli ai genitori dei nuovi adolescenti)
Genitori e nascita sociale
(Adolescenza: cosa cambia?; I genitori abbandonati; La Bella Addormentata nel bosco; Anche i genitori cambiano; Il dramma del Piccolo Principe; Carlotta lascia la scuola; Consigli ai genitori per affrontare la seconda nascita)
Al di là della punizione
(Adolescenza e trasgressione; La famiglia e le regole; Le risposte dei genitori alle trasgressioni; Assenza da scuola; Matilde non è andata a scuola; Consigli dello psicologo ai genitori che intendono punire i figli adolescenti)
Segreti di famiglia
(Bugie e segreti; Giorgio ruba in casa; Consigli dello psicologo ai genitori che hanno segreti)
Adolescenti tristi
(Avere tutto e non volere niente; Adolescenti fortunati?; A scuola come in famiglia; Uno spazio vuoto per pensare; Valentina è diventata “strana”; Consigli ai genitori di adolescenti tristi)
Quanta tristezza del figlio può tollerare un genitore?
(Etichette pericolose; Un figlio infelice; Rinuncia alla crescita; Privilegi infantili; Consigli dello psicologo ai genitori di ragazzi tristi).