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La prima neve

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La prima neve

Un film di Andrea Segre. Con Jean-Christophe FollyMatteo MarchelAnita CaprioliPeter MitterrutznerGiuseppe Battiston.

 Drammatico, durata 105 min. – Italia 2013

 

SINOSSI

La prima neve è quella che tutti in valle aspettano. È quella che trasforma i colori, le forme, i contorni.

Dani però non ha mai visto la neve. Dani è nato in Togo, ed è arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia.

È ospite di una casa accoglienza a Pergine, paesino nelle montagne del Trentino, ai piedi della Val dei Mocheni.

Ha una figlia di un anno, di cui però non riesce a occuparsi. C’è qualcosa che lo blocca. Un dolore profondo.

Dani viene invitato a lavorare nel laboratorio di Pietro, un vecchio falegname e apicoltore della Val dei Mocheni, che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa e al nipote  Michele, un ragazzino di 10 anni la cui irrequietezza colpisce subito Dani. Il padre di Michele è morto da poco, lasciando un grande vuoto nella vita del ragazzino, che

vive con conflitto e tensione il rapporto con la madre e cerca invece supporto e amicizia nello zio Fabio.

La neve prima o poi arriverà e non rimane molto tempo per riparare le arnie e raccogliere la legna.  Un tempo breve e necessario, che permette a dolori e silenzi di diventare occasioni per capire e conoscere. Un tempo per lasciare che le foglie, gli alberi e i boschi si preparino a cambiare.

In quel tempo e in quei boschi, prima della neve, Dani e Michele potranno imparare ad ascoltarsi.

 

NOTE DI REGIA

La luce entra nel bosco insieme alle ombre. Si alternano, si incrociano, giocano come vuoti e

pieni, come spazi di vita tra silenzio e rumore. Gli alberi sembrano voler scappare dal bosco.

Ma non possono. Crescono a cercare la luce, si allungano per superare gli altri, ma rimangono

tutti ancorati lì, uno affianco all’altro, in file regolari che segnano le prospettive.

È il bosco il luogo centrale dell’incontro tra Dani e Michele; è in quello spazio che i due si

seguono, si cercano, si respingono, si conoscono. È uno spazio in cui la natura diventa teatro.

Dove la realtà diventa luogo dell’anima e ospita significati e metafore che la trascendono.

Pronta a diventare sogno.

Come nel mio primo film Io Sono Li, anche La prima neve è costruito nel dialogo costante

tra regia documentaria e finzione, tra il rapporto denso e diretto con la realtà e la scelta di

momenti più intimi costruiti con attenzione ai dettagli della messa in scena. Così è anche

nel lavoro con gli attori: persone del luogo e attori professionisti interagiscono tra loro, in

un processo di contaminazione tra realtà e recitazione. Con il privilegio, in questo secondo

film, di aver finalmente potuto lavorare con l’energia e l’imprevedibilità di bambini e giovani

ragazzi.

ANDREA SEGRE

SITO FILM

TRAILER

 

 

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A Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

hbofamilyA Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

Documentario, durata 41′

Regia diAmy Schatz
Con Rosie O’Donnell, Ziggy Marley, Elizabeth Mitchell

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Le testimonianze di diversi bambini offrono riflessioni toccanti, profonde e spesso divertenti, su cosa significa per loro la famiglia. Tra i bambini, ve ne sono alcuni con situazioni familiari particolari, come chi ha due padri o due madri, una ragazza adottata dai genitori in Cina o tre fratelli che vivono con la madre e la nonna. Alle loro riflessioni si affiancano gli interventi di Rosie O’Donnell (che parla della propria famiglia con la figlia Vivienne Rose) e diversi intermezzi musicali, alcuni dei quali di Ziggy Marley (che canta con la madre e la sorella) e della musicista folk Elizabeth Mitchell (che canta con il marito e la figlia di sette anni).

IL PROGRAMMAZIONE SU LAEFFE

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    LUNEDÌ 1 LUGLIO ALLE 21:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    MERCOLEDÌ 3 LUGLIO ALLE 22:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    SABATO 6 LUGLIO ALLE 20:05

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    DOMENICA 7 LUGLIO ALLE 23:10

lo scafandro e la farfalla

Lo scafandro e la farfalla 3Lo scafandro e la farfalla

Un film di Julian Schnabel. Francia 2007

durata 112 min. Kids+13,

Indice

Trama

Recensioni

Video

…….

TRAMA

Il film è basato sull’omonima monografia di Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla, in cui Bauby descrive la sua vita dopo aver avuto un ictus all’età di 43 anni, che lo ha ridotto in uno stato di sindrome locked-in, lasciandogli come unico mezzo di comunicazione con il mondo il battito della palpebra sinistra. Il protagonista si risveglia su un letto d’ospedale, dopo 3 settimane di coma, impossibilitato a comunicare. Dopo un iniziale abbattimento morale, prende coraggio per continuare a andare avanti. Nei momenti di abbattimento, evade dalla realtà che lo circonda usando semplicemente la sua immaginazione e la sua memoria, ricordando i momenti del suo passato più felici, le cose che avrebbe voluto fare, le persone che ha trascurato cui ora si pente di non aver trascorso più tempo con loro, fino al litigio con suo padre.

 

RECENSIONI 

Una prova di grande umanità in un film di elevato livello artistico
Giancarlo Zappoli     mymovie.it

Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. È il caporedattore di ‘Elle’ e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film.
Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi handicap (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentrodi Alejandro Amenábar con l’interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l’attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico.
L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l’orrore della condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d’ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie ‘vere’. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell’eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé.

Lo scafandro e la farfalla: recensione

Se non l’avete visto, o se non l’avete mai sentito, fatevi un regalo e andatevi a vedere Lo scafandro e la farfalla. Che non sarà magari, almeno per la campagna di marketing e per il tipo di cinema che rappresenta, un film per le grandi masse, ma metterei la mano sul fuoco che alla fine potrebbe conquistare un po’ chiunque, anche i più scettici.

Certo, all’inizio può spaventare: si apre con una lunga sequenza in soggettiva. Lo spettatore si trova a guardare ciò che vede il protagonista Jean-Dominique Bauby, direttore di Elle, che si risveglia dopo tre settimane di coma dovuto ad un improvviso ictus. Il primo passo dopo il coma è lungo, e lo spettatore si trova a vedere tutto offuscato, ombre di persone, suoni appena accennati.

E’ l’inizio, meraviglioso, di un meraviglioso film. Che sfida le regole del cinema e riesce a raggiungere lo spettatore fin sotto la pelle e a restarci per molto tempo. E’ un progetto rischioso, che può sembrare anche furbo per chi il cinema lo guarda con la malizia e con l’occhio puramente tecnico. E così facendo, si potrà riscontrare un’assoluta perfezione delle immagini e dei suoni: ma c’è chi potrà pensare che il tutto sia fin troppo calcolato.

Julian Schnabel è invece un abile autore, che sa regalare la tecnica alle sue profondissime idee: hai detto poco. Lo scafandro e la farfalla non è solo la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico di Bauby, che scrisse e “dettò” (poteva comunicare solo col battito della palpebra sinistra) la sua biografia ad una redattrice lettera per lettera e morì tredici giorni dopo averlo pubblicato.

Il film di Schabel è un intelligente viaggio interiore all’interno di uno scafandro (il corpo paralizzato) in cui lo spettatore può immedesimarsi totalmente nel pensiero, grazie ad una voce-off che non diventa mai superflua ma spesso è capace di grande intensità e di notevole ironia, del protagonista e così vivere una vera e propria esperienza, di delicatezza ed umanità rare, e trovare così una farfalla.

Non la malattia, non il dolore, non la famiglia (che anche in questo film è divisa, con una bellissima moglie da cui si è separati e figli che non si vorrebbe vedere solo per non farli soffrire). O almeno non solo questo: Lo scafandro e la farfalla è un film sulla sfida, sulla pazienza, sulla persistenza. E poi, giustamente, un film sul cinema e sulla visione: non è un caso che il montaggio spesso coincida col battere delle palpebre di Bauby.

Standing ovation per Mathieu Amalric, che sotto una smorfia raggelata dagli eventi dimostra finalmente a chi ancora non l’ha capito cosa voglia dire recitare sul serio con gli occhi. E applausi a scena aperta alla fotografia, ai flash-back non inopportuni, ai personaggi di contorno che non sembrano mai superflui, alla ricca colonna sonora, che si apre e si chiude con la sempreverde La mer di Trenet. E applausi per Schnabel: che c’ha creduto, che c’ha provato, che c’è riuscito e ci ha fatto scorrere sincere lacrime. Scritto da:  -cineblog.it

 

RECENSIONE 2

Se è vero che ogni spettatore che scrive di cinema, per lavoro o per semplice passione, dovrebbe comunque conservare sempre uno spirito che sappia andare oltre i meriti meramente artistici della pellicola di turno, in alcune circostanze il fattore “cuore” si pone obbligatoriamente al di sopra della ragione stessa.

La storia è già di per sé di quelle straordinarie: Jean-Dominique Bauby fu un giornalista francese, redattore capo della nota rivista “Elle”. Colpito da un ictus nel dicembre del ’95 a 43 anni, quando si risvegliò 20 giorni dopo l’incidente si accorse che il suo corpo aveva del tutto perso sensibilità e poteva controllare soltanto la sua palpebra sinistra: si tratta di una rarissima condizione chiamata Locked-In syndrome.

Nelle suddette condizioni riuscì, incredibilmente e con impensabili modalità, a dettare pensieri ed emozioni così “scrivendo” il libro “Lo scafandro e la farfalla”. Morì nel ’97 per un arresto cardiaco, due giorni dopo la pubblicazione del libro.

Il film parla di tutto ciò, spingendosi perennemente oltre, addentrandosi il più possibile nella mente (attraverso una voce-off d’obbligo, comunque mai produttrice di verbosità) di Bauby (Mathieu Amalric, ottimo), quando non nel corpo: la spiazzante e lunga parte iniziale parte dalla soggettiva dell’occhio a fuoco/non a fuoco, quasi a mettere da subito lo spettatore davanti a una realtà terribile. Ma sorprende il modo in cui si evitano con molta puntualità patetismi e ricatti che pure ci si aspetterebbe di trovare (da confrontare con il meno bello e più scontato “Mare dentro” di Amenàbar): innanzitutto lo fa grazie a un uso sottile e mai invadente di un’ironia pure essa spiazzante, che contribuisce a spazzare via ogni facile pietismo.

Julian Schnabel non indulge sul volto devastato dell’uomo, preferendo ciò che resta allo stesso: i ricordi e l’immaginazione, mescolando la fanciullezza dei figli e momenti di intimità amorosa con viaggi immaginari dove la fantasia si pone tra acque e piante, invase da una farfalla splendida, ma comunque incapace di svettare in volo. E l’onnipresente presenza femminile che aleggia come massima espressione di quel raggiungimento di felicità andata perduta.

“Lo scafandro e la farfalla” è un film frammentario, fin sconnesso, fragilissimo ed incerto che quasi mette in discussione la sua evidente ricerca visiva. Per fortuna l’autore si muove con la consapevolezza dell’impossibilità di rappresentare l’irrappresentabile, e il film diventa al contempo, non necessariamente con volontà e premeditazione, una metafora del cinema stesso, su le possibilità che una visione può scaturire, sull’impossibilità di appagamento totale della stessa. Tuttavia si farebbe un torto al film nell’inquadrarlo come formato audiovisivo per riflettere sulla forma filmica, così come situarlo di fianco a una tavolozza di pittura neoespressionista, propria di Schnabel, da sempre più famoso come pittore che come regista.

Possiamo banalmente dire che “Lo scafandro e la farfalla” è un film sulla libertà interiore, capace di traiettorie di inaudita bellezza. E’ quindi un film che ci parla di un essere umano, dell’essere umano, semplicemente. E credeteci: commuove.

di Diego Capuano ondacinema.it

 

VIDEO

 

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Corpo celeste

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Anno:2011

Durata:100 min

Regia:Alice Rohrwacher

 

 

 

 

INDICE

Trama

Recensioni

Video

 

Trama

Marta è una tredicenne che, dopo dieci anni vissuti in Svizzera, fa ritorno, insieme alla madre, al Sud Italia della sua prima infanzia.

Reggio Calabria, oltre che città di sua madre, è anche il suo luogo di nascita: della città non conserva però alcun ricordo, ma a essa la lega un vago senso di appartenenza.

Marta cerca di adattarsi a questa sua nuova esistenza, sullo sfondo di un sud devastato dalla bruttezza edilizia, dallaspeculazione e dall’abbandono del territorio, culturalmente degradato dalla subalternità dei suoi abitanti agli invasivi modelli televisivi.

Il degrado umano e sociale non risparmia nemmeno la parrocchia, ambiente che dovrebbe orientare la sua crescita spirituale e accompagnare il percorso della bambina fino al sacramento della Cresima: questo itinerario è affidato, infatti, a don Mario, uno spregiudicato prete carrierista, galoppino elettorale per candidati politici, e alla figura di una patetica catechista (Santa), in compagnia di coetanee che sognano il mondo delle «veline». In questo mondo dominato dalla cultura televisiva di massa, non si salva neanche il catechismo, trasformato e degradato in una sorta di gioco a quiz, né, tanto meno, si salva la musica sacra, svilita dallo squallore musicale e letterario dei moderni canti di chiesa di ispirazione pop (significativo, a questo riguardo, è il refrain ripetuto dai bambini: «Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta»).

Marta si ritrova spaesata ed estranea a quell’ambiente, di cui è attenta spettatrice, ma che tuttavia non arriva a comprendere. La ragazza trova una risposta alle sue inquietudini esistenziali proprio nel mondo della Chiesa cattolica, grazie al breve e casuale incontro persona di Don Lorenzo (Renato Carpentieri), un anziano e marginale prete, insediato in un paese di montagna in totale abbandono, dal quale riceverà l’iniziazione alla conoscenza del Cristo e ai misteri della fede. Da lui imparerà che, pur nel suo squallore, anche il pianeta Terra (parafrasando la Ortese) è “corpo celeste o oggetto delsovramondo”.

 

Recensioni

minori.it

Un salto non da poco, quello della tredicenne Marta che, dopo aver vissuto per dieci anni in Svizzera, si trasferisce a Reggio Calabria per seguire la madre che ha deciso di fare ritorno alla sua città natale. Bionda, sguardo ingenuo ma curioso, un volto non comune e a tratti enigmatico, Marta è una specie di piccola extraterrestre, arrivata in Calabria da un “corpo celeste” sconosciuto, che si confronta con una realtà profondamente diversa da quella in cui è vissuta, con tutte le incertezze dettate dall’età di passaggio, nonché da un carattere introverso, schiacciato tra una madre affettuosa ma debole e una sorella maggiore che la prevarica in ogni occasione. È grazie a questo personaggio-guida, eccentrico rispetto al contesto che lo accoglie, che la giovane regista esordiente Alice Rohrvacher ci introduce con Corpo celeste nell’ambiente piccolo borghese che gravita attorno alla famiglia della protagonista e, soprattutto, alla locale parrocchia dove Marta incomincia a frequentare il catechismo in vista della cresima. È su questo microcosmo particolare che il film si concentra, registrando il disagio e la perplessità di Marta di fronte a personaggi, luoghi e situazioni troppo distanti dalla sua esperienza del mondo ma, soprattutto, incapaci di rispondere a quelle domande che ogni adolescente dotato di un minimo di sensibilità si pone di fronte all’enigma della fede. Attraverso il pedinamento della giovane cresimanda, allineando l’obiettivo di una macchina da presa sensibilissima al suo sguardo innocente, capace di comunicare il senso di circospetta estraneità verso un contesto ambientale autosufficiente, che si muove secondo logiche proprie imperscrutabili ai profani, il film mostra e svela una realtà oggettivamente deprecabile senza esprimere giudizi definitivi sui singoli personaggi, concedendosi, tutt’al più, qualche digressione nel grottesco. Forte di una breve ma intensa attività di documentarista, la Rohrvacher spoglia il film da qualsiasi tentativo di analisi sociale condotta attraverso gli usuali strumenti del cinema di fiction (se non per mezzo dell’eccessiva caratterizzazione di alcuni personaggi) per affidarsi interamente alla registrazione delle emozioni della protagonista, tanto più trattenute e soffocate quanto più evidente diviene nel corso del film il divario tra la sua ricerca di risposte al profondo disagio vissuto e l’offerta di un misticismo a buon mercato, ridotto ad oggetto di consumo, ad argomento da quiz televisivo, a rappresentazione da baraccone. Corpo celeste ha il grande merito di registrare il solco sempre più profondo tra una Chiesa rimasta ancorata a un substrato di valori e precetti difficili da aggiornare e modelli di vita giovanili nella pratica distanti anni luce dalla religione ma attraversati in profondità da un bisogno di spiritualità probabilmente più forte che nel recente passato. I tentativi di adeguare la liturgia, il catechismo e tutti i momenti di espressione della fede alle mode giovanili sono goffi e ricalcano un appiattimento della cultura cattolica, ormai spogliata da ogni “mistero”, su quella televisiva nazionalpopolare. In questo la regista compie un’operazione speculare rispetto a quella di Roberta Torre che, con I baci mai dati, mette in scena abilmente l’immaginario pop degli abitanti di un quartiere della periferia di Catania per orchestrare una farsa surreale sugli aspetti più prosaici della religiosità, quelli legati a un misticismo popolare fondato su un’idea della Provvidenza che rimanda più ai concetti di raccomandazione politica o addirittura di vera e propria “protezione” di stampo mafioso che ad altre e più alate fonti di ispirazione. Se nel film della Torre era una moderna statua della Vergine a impartire precetti e a compiere prodigi, in Corpo celesteci si affida all’arrivo in parrocchia di un vecchio crocifisso in legno che rappresenta il Cristo in maniera tradizionale, realistica, per rinnovare la fede dei devoti: la statua, che dovrebbe sostituire il crocifisso in acciaio e plexiglass che fino a quel momento ha adornato la chiesa, è una sorta di enigma per i giovani cresimandi che si chiedono come sia possibile rappresentare la crocifissione, un evento evocato nozionisticamente al solo fine di indottrinarli in vista della cresima ma mai realmente compreso in tutta la sua dirompente drammaticità. Il crocifisso, recuperato dall’intraprendente parroco-imprenditore della parrocchia dall’abside della chiesetta di un paesino abbandonato, è significativamente custodito da un vecchio prete pazzo, una sorta di eremita fuori dal mondo, incapace di arrendersi alle logiche della convenienza e del profitto che sembrano aver inquinato anche la Chiesa, uno dei pochi personaggi con cui Marta sembra riuscire a comunicare per tutto il corso del film. Così come il crocifisso non giungerà mai a destinazione, lasciando al centro della modernissima chiesa alla quale era destinato uno spazio vuoto, allo stesso modo Marta non parteciperà alla cerimonia della cresima: quelli del Cristo e di Marta diventano due “corpi estranei” rispetto a una realtà nella quale tutto sembra sottostare alle ferree logiche del vantaggio, dell’opportunità, della convenienza personale e che ha dimenticato le ragioni della fede e della tolleranza. E se la comunità di fedeli resterà priva di quel corpo di Cristo, attorno al quale si struttura la fede attraverso il sacramento dell’eucarestia, Marta dovrà fare i conti con il proprio corpo in crescita (le prime mestruazioni sopraggiungono proprio nel giorno della cresima), con l’urgenza di altre domande che nascono dal profondo di una natura umana che è fatta di carne, certo, ma anche di uno spirito che andrebbe nutrito attraverso la fede non tanto e non solo in Dio ma soprattutto nell’uomo.

Fabrizio Colamartino

Ritratto sincero di un’adolescente alle prese con i sacramenti, dentro e fuori la Chiesa. Giancarlo Zappoli mymovies.it

Marta ha 13 anni ed è tornata a vivere alla periferia di Reggio Calabria (dove è nata) dopo aver trascorso 10 anni in Svizzera. Con lei ci sono la madre e la sorella maggiore che la sopporta a fatica. La ragazzina ha l’età giusta per accedere al sacramento della Cresima e inizia a frequentare il catechismo. Si ritrova così in una realtà ecclesiale contaminata dai modelli consumistici, attraversata da un’ignoranza pervasiva e guidata da un parroco più interessato alla politica e a fare carriera che alla fede.
Alice Rohrwacher debutta alla regia di un lungometraggio con una prova che testimonia della sua abilità nel dirigere attori e non attori, garantendo quella naturalezza che per un film come Corpo celeste è una qualità indispensabile. Deve infatti sostenere la veridicità di una condizione di degrado culturale e ambientale locale con il massimo possibile di verosimiglianza. Perché il film della Rohrwacher si colloca come un Gomorra della spiritualità in cui (forse casualmente forse inconsciamente) proprio uno degli attori di quell’opera interpreta il ruolo di un parroco desolatamente impermeabile a una fede vissuta a capo di una comunità culturalmente fatiscente. In essa si aggira la piccola Marta, adolescente in formazione che solo nella madre sembra trovare un’amorevole comprensione. Tra balletti di bambine ispirati alla peggiore tv, frasi del catechismo deprivate di qualsiasi senso grazie a una catechista incolta ma volonterosa e vescovi e loro segretari dal volto grifagno o dallo sguardo raggelante, Marta va verso la Cresima attraversando dei gironi spiritualmente infernali in cui non manca neppure un sacrestano lombrosianamente così pericoloso da annegare gattini appena nati. Un appiglio affinché una sua possibile fede possa non essere totalmente dissolta nell’acido muriatico di un’insipienza eretta a sistema potrebbe venirle da un anziano e isolato sacerdote che le fa conoscere la ‘follia’ di Cristo.
Ciò che non convince nella sceneggiatura (a differenza di film come Cosmonauta e I baci mai dati sicuramente non teneri con la Chiesa) è la compressione dell’ottica. Noi conosciamo Marta solo per quanto attiene la sua vita in casa (in misura minore) e la sua attività in parrocchia. Come se il Catechismo per una ragazzina di 13 anni fosse oggi pervasivo come per un’educanda in un collegio di inizio Novecento. Marta non sembra avere altre occasioni di vita o di relazione sociale (la scuola ad esempio?). Non avendo esperienza diretta della realtà calabra che Rohrwacher ha voluto portare sullo schermo non ci si può permettere di negarne la verosimiglianza. Si può solo constatare che, per fortuna, il mondo ecclesiale italiano è molto più complesso e articolato.

 

Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Se una regista nemmeno trentenne è capace di creare con pochi mezzi e tante idee un film come Corpo Celeste, si può essere ottimisti sul futuro del cinema italiano. A Cannes il film di Alice Rohrwacher è parso a molti il film più interessante della Quinzaine, laboratorio del futuro dove hanno esordito fra i molti Fassbinder e Herzog, Carmelo Bene e George Lucas, Oshima e Jarmusch e i fratelli Dardenne. È presto per dire se Rohrwacher si aggiungerà alla lista, ma certo il suo è un esordio folgorante. Corpo celeste, molto liberamente tratto dal romanzo della Ortese, è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta, 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. La circostanza narrativa che la scoperta della ragazzina avvenga attraverso un corso di catechismo improntato ai più sconci luoghi comuni televisivi non deve ingannare. Corpo celeste è già diventato un piccolo culto per le associazioni anti clericali, per quanto la regista si affanni a ripetere a ragione che non si tratta di un film contro la Chiesa e tanto meno contro la religione. Semmai è un film contro la vera religione dell’Italia contemporanea, il conformismo televisivo e l’opportunismo politico, che sono la negazione stessa di ogni spiritualità. Non per caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio, il bravissimo Renato Carpentieri, che rivela a Marta la follia di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell’umanità. La questione è che ormai si scambiano, si possono scambiare i fatti per satira e il racconto nudo per intenzione caricaturale. In questo la Rohrwacher è favorita dall’esperienza di documentarista. Le scene e i personaggi più surreali del film sono in realtà i più vicini alla realtà. Il prete di parrocchia che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che s’ispira ai quiz televisivi (Chi vuol esser cresimato?) per “vendere” ai ragazzi il cattolicesimo, sono figure che s’incontrano a ogni angolo di periferia italiana. Come s’incontrano i ponti che collegano il nulla al nulla, le tangenziali inutili, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche. Questa è l’Italia che appare allo sguardo di un’adolescente cresciuta in Svizzera e questa sarebbe agli occhi di noi italiani adulti, se non volessimo dimenticarla. Un paese che ha perso il suo dio, la propria identità e va a cercarsi una ragione di stare insieme davanti a uno schermo televisivo, intonando canzoncine e slogan dementi ma alla moda («Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta»). Tanti anni fa, nel dopoguerra, un grande antropologo, Ernesto De Martino, descrisse la «crisi della presenza» delle società rurali del Mezzogiorno come profezia di un mondo che avrebbe smarrito ogni senso d’identità e appartenenza. Corpo celeste è in parte il racconto di questa profezia avverata, qui e ora. Un bellissimo film civile, quindi, e forse il primo effetto della rivoluzione cinematografica scatenata dal più importante film del decennio passato, Gomorra di Matteo Garrone. Con il quale non condivide i temi, visto che la criminalità organizzata è volutamente tenuta fuori dal ritratto, per quanto sia più dominante a Reggio Calabria rispetto a qualsiasi altra città d’Italia, Napoli e Palermo comprese. Ma ne ricorda i climi, la corruzione dei costumi quotidiani, i paesaggi e ne condivide l’attore protagonista, il sempre straordinario Salvatore Cantalupo. Un’altra prova del talento della regista è la capacità, come per Garrone, di far recitare allo stesso livello professionisti eccelsi come Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli, con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Per esempio la piccola protagonista, Yile Vianello, una delle migliori attrici adolescenti fra le molte vista a Cannes. Per non parlare della catechista Santa, Pasqualina Scuncia, un talento naturale di attrice che misteriosamente fin qui ha sempre fatto nella vita la tabaccaia. Un’Italia che non vedremo altrove, un piccolo film da non perdere, una giovanissima regista già avviata verso una splendida avventura nel cinema italiano e mondiale.

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Sister (Meier 2012)

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Regista: Ursula Meier

Anteprima nazionale: 13 febbraio 2012

Durata: 100 minuti

Musica: John Parish

Cast: Léa Seydoux, Gillian Anderson, Martin Compston, Jean-François Stévenin, Altro

Sceneggiatura: Ursula Meier, Antoine Jaccoud,Gilles Taurand

Trama

Il dodicenne Simon e sua sorella Louise vivono in Svizzera nelle case popolari del cantone Vallese, sulle Alpi. Simon, il bambino, mantiene entrambi rubando sci e attrezzatura sportiva ai ricchi sciatori in vacanza per poi rivenderli.

Simon sembra così riuscire a legare a sé la sorella inaffidabile e sempre pronta a trascurarlo per l’uomo di turno, ma proprio davanti a uno di questi il bambino farà la rivelazione capace di sconvolgere ulteriormente il debole equilibrio familiare e di spezzare la trama del film in due.

Si scopre infatti che Louise è in realtà la madre del ragazzino e che tutta la sua insofferenza nell’essere madre non viene celata a Simon, costretto ad accontentarsi di un amore fraterno da parte di una mamma che si fa chiamare “sister”.

Tuttavia nella solitudine più disperata di questa valle Simon e Louise, pur faticando a trovare un punto di contatto meno squallido di quello dei soldi, non possono fare a meno uno dell’altra come è evidente dallo sguardo che i due, cercandosi, si scambiano dalle cabine della funivia che vanno in direzioni opposte nella bellissima scena finale.

Recensione 

 

Il cinema ha spesso raccontato storie di giovani e giovanissimi ladri, di bambini e ragazzini che vivono ai margini della società procurandosi come possono il necessario non solo per sopperire ai propri bisogni materiali, ma anche per esigenze solo apparentemente meno tangibili. Se è vero, infatti, che dietro la concretezza di ogni nostra azione, di ogni nostro gesto, si nasconde un universo simbolico fatto di desideri, tabù, sogni e trasgressioni, per un bambino o un adolescente forse questo è ancora più vero e offre la possibilità di analizzare la semplice linea degli eventi che scorrono sullo schermo all’interno di un orizzonte di senso più complesso e articolato. Sister, della giovane cineasta franco-elvetica Ursula Meier(qui alla sua seconda prova nel lungometraggio), non viene meno a questo schema, anzi lo rende quanto mai esplicito, raccontando le vicende del dodicenne Simon e della sua consanguinea Louise poco più che adolescente, residenti in una località svizzera ai piedi di una stazione sciistica meta di turisti in cerca di piste innevate e lussuosi resort. Simon è un intruso in questo mondo dorato, dato che vive a fondovalle, in un piccolo appartamento di un condominio popolare (il cui squallore è reso ancor più evidente dal contrasto con il panorama circostante, costellato di boschi lussureggianti e cime innevate), ma si muove con estrema sicurezza, confondendosi con i turisti che ogni giorno in funivia raggiungono le piste per sciare. Nel corso delle sue ascensioni, infatti, il protagonista svaligia gli zaini lasciati incustoditi dai villeggianti, impossessandosi di ogni accessorio che in seguito rivende a prezzi stracciati ai meno fortunati valligiani. Louise, che, vista la maggiore età, dovrebbe essere per Simon una figura protettiva e accudente, invece vive alle sue spalle, confidando sull’abilità del ragazzino nel furto e sui ricavi che riesce a trarre da questa attività illecita. Ma c’è di più: Simon a volte è costretto a contrattare con la ragazza – una figura misteriosa che spesso si eclissa per giorni senza dare notizie, persa dietro improbabili avventure amorose – per ottenere, in cambio di soldi, un po’ di calore umano (poter dormire con lei, ottenere qualche carezza, qualche parola affettuosa) che per lui, poco più che bambino, rappresenta un bisogno emotivo irrinunciabile ma che lei, non ancora adulta, non riesce a dargli incondizionatamente. Anche i sentimenti, dunque, per Simon sono monetizzabili, riconducibili a un controvalore economico al pari di ogni altra merce o oggetto, né più né meno che per un adulto che cerchi conforto alla propria solitudine in un rapporto a pagamento. Se, dunque, come si diceva in apertura, nel furto compiuto da un bambino è possibile rintracciare il desiderio di risarcire un universo affettivo limitato, il bisogno di segnalare una condizione di disagio, nel caso di Simon costituisce l’unico mezzo concreto per ottenere ciò che gli manca, all’interno di un contesto nel quale tutto può diventare oggetto di scambio. È solo verso la metà del film che la Meier rivela quale oscuro segreto familiare grava sui due protagonisti, la ragione della loro affettività distorta, attuando un capovolgimento repentino del punto di vista dello spettatore sulla vicenda e una ridistribuzione dei ruoli (già abbastanza confusi) tra i personaggi che, tuttavia, non produce catarsi e non risarcisce dell’angoscia suscitata dal rapporto disfunzionale di Simon e Louise. Disagio sociale, familiare e affettivo trovano nella figura del protagonista e in quella di Louise, nella strana famiglia da essi formata, una sintesi di straordinaria efficacia: la loro è una condizione in cui l’abbandono da parte dei servizi sociali è reso ancora più evidente dall’isolamento dei luoghi in cui è ambientata la vicenda (eppure siamo nella civilissima Svizzera) e dal contrasto con l’atmosfera svagata e vacanziera della stazione sciistica che li sovrasta. Appeso a un filo, quello della funivia che copre la distanza e il dislivello (non soltanto fisico ma anche sociale) tra le due location del film, Simon percorre uno spazio soprattutto simbolico, sospeso tra due dimensioni. La prima, a cui forse ambisce di appartenere (anche se dichiara di non saper sciare e di non voler neanche imparare), è un universo alle spalle del quale vive, che lo respinge ed emargina socialmente ma grazie al quale sopperisce ai propri bisogni, un non luogo che si riempie e si svuota di presenze a seconda della stagione e dei capricci del tempo meteorologico. La seconda è un mondo all’interno del quale Simon si è ricavato una propria nicchia, il piccolo appartamento spoglio e disordinato (in fondo, un altro non luogo), specchio della disfunzionalità del nucleo familiare al quale appartiene, un rifugio nel quale, tuttavia, non trova spazio quell’affettività e quell’accoglienza di cui avrebbe bisogno. È proprio all’interno di quella funivia sospesa tra questi due non luoghi, quella dimensione a metà strada tra terra e cielo, che il film si conclude con un’inquadratura formidabile, capace di far incrociare gli sguardi dei due protagonisti, consci di non poter fare a meno, malgrado tutto, l’uno dell’altro, e lasciare il finale aperto alla speranza in un futuro forse più sereno. Sister, che alla scorsa edizione del Festival di Berlino ha ottenuto una menzione speciale della giuria, colloca la Meier dalle parti dei fratelli Dardenne, per i profondi risvolti sociali della vicenda narrata e, allo stesso tempo, per la capacità di non concedere nulla a quell’ansia dimostrativa che spesso affligge i film d’autore cosiddetti impegnati. Questo rigore, ovviamente, non contraddice lo spirito di denuncia insito nel racconto, ma filtra il tutto attraverso il ritratto sensibile di due giovani esistenze allo sbando, la descrizione del loro rapporto conflittuale ma umanissimo, il loro legame ambiguo eppure necessario. A far da contorno ai due protagonisti un microcosmo inedito, il dietro le quinte delle settimane bianche di tante famiglie più o meno abbienti, popolato di addetti alle funivie, inservienti, camerieri e cuochi: vite precarie, esistenze stagionali costrette a migrare inseguendo la neve e i suoi appassionati, il volto reale che si cela dietro un manto nevoso candido in superficie ma che nasconde una realtà sociale come tante altre. Il rigore della Meier si riflette, allo stesso modo, nel suo sguardo sul paesaggio: la regista non concede enfasi agli splendidi panorami alpini che circondano la stazione sciistica, restringendo il campo a una descrizione minuta delle azioni di Simon e ai luoghi nei quali compie i furti (spogliatoi, bagni, vestiboli, luoghi di transito, di passaggio, ancora non-luoghi, simbolo di un’esistenza ai margini), mentre a dominare sono gli inediti scorci di un fondovalle anonimo e desolato, non molto diverso dalle periferie di tante metropoli.

Fabrizio Colamartino  minori.it

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L’ottavo giorno

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L’ottavo giorno

Presentato in concorso al 49º Festival di Cannes, è valso ai suoi protagonisti Daniel Auteuil e Pascal Duquenne il premio per la migliore interpretazione maschile.
Regista: Jaco Van Dormael
Durata: 118 minuti
Anteprima nazionale: 22 maggio 1996
Musica: Pierre Van Dormael
Sceneggiatura: Jaco Van Dormael

Sinossi

Georges è un ragazzo affetto dalla sindrome di Down: da quando sua madre è morta, vive in un istituto cui la sorella l’ha affidato. La solitudine lo spinge a fuggire e, in una notte di pioggia, si imbatte in Harry, un quarantenne di successo che sta attraversando una profonda crisi esistenziale: interamente dedito al suo lavoro, l’uomo ha trascurato a tal punto la moglie e le figlie da costringerle a lasciarlo.

L’affettuosa invadenza di Georges – del quale, per una serie di contrattempi, Harry è costretto a occuparsi – sconvolge la sua vita fatta di regole astratte e fredde, basate sulla produttività e sul profitto, costringendolo a riscoprire emozioni che, per troppo tempo, aveva represso. Verrà licenziato, ma riuscirà a riconquistare l’affetto delle figlie e la stima della moglie grazie alla spontaneità appresa durante i giorni passati con Georges. Questi, invece, costretto a separarsi da Harry, rifiutato dalla sorella, allontanato dalla ragazza che ama, decide di suicidarsi lasciandosi cadere nel vuoto, dall’alto di un grattacielo.

Presentazione critica

Il film di Jaco Van Dormael si apre con un’inedita cosmogonia creata dalla fantasia di Georges, il giovane protagonista affetto dalla sindrome di Down, che immagina una creazione dell’universo diversa da qualsiasi altra, basata essenzialmente su una sorta di animismo che riesce a stabilire con qualsiasi essere – sia esso animato o inanimato – un senso di intimità e di contatto grazie al quale emerge la natura profonda e poetica del creato. La scommessa del film sta nel dimostrare come tali coordinate capovolte, attraverso le quali Georges riesce a orizzontarsi in un mondo tutto suo, possano essere colte e fatte proprie anche da chi, almeno apparentemente, se ne è allontanato per lasciare spazio soltanto alla logica del successo e del profitto. Anche Henry, difatti, alla sua prima apparizione, detta una serie di regole: quelle che possono trasformare un comune mortale in un uomo di successo, basate, al contrario della cosmogonia folle e spontanea di Georges, sul calcolo e sulla finzione.

Tra le altre ve n’è una che è interessante cogliere come chiave di lettura principale dell’intero film: Harry si occupa della formazione del personale di una grande banca e, il metodo che insegna ai suoi allievi per convincere i clienti è basato principalmente sull’imitazione delle pose, degli atteggiamenti, persino dei tic nervosi del cliente stesso. Appare immediatamente evidente come la filosofia di vita di Harry si basi sull’omologazione, dunque su una comunicazione che esclude il confronto con il diverso da sé. La prova cui viene sottoposto dall’incontro con Georges ha, perciò, dell’impossibile: come fare per assumere gli stessi atteggiamenti, le stesse espressioni di un ragazzo down e, in tal modo, giungere a comunicare con lui? È chiaro che sarà l’uomo a farsi conquistare non solo dalla folle logica, dall’animismo ingenuo, dalla tenerezza dei sentimenti, ma anche dall’improvviso erompere delle emozioni, dalla violenza goffa della gestualità di Georges che, se lo porteranno da un lato alla rovina economica, dall’altro gli permetteranno di riscoprire la propria reale indole di essere umano irriducibile a qualsiasi logica fredda e razionale.

Nel corso del racconto, infatti, ci viene proposta la progressiva conversione dell’uomo, i cui atteggiamenti divengono via via sempre più simili a quelli del ragazzo, arrivando fino a coincidervi: ad esempio, la scena in cui Harry discute con la moglie per rivedere le figliolette è praticamente identica a quella in cui Georges si reca a casa della sorella per chiederle di prenderlo con sé. L’ottavo giorno è un film tenero e ingenuo che, con le sue invenzioni stilistiche, le sue contaminazioni dai linguaggi più diversi (musica, fumetti, pubblicità), i suoi eccessi comici (Van Dormael, prima di fare il regista lavorava come clown), patetici e lirici, sembra ispirarsi alla stessa non-logica del suo protagonista/interprete, l’attore Pascal Duquenne che, grazie a una straordinaria carica vitale e una mimica eccezionale, riesce a rubare la scena al coprotagonista “normale” del film, il pur bravo Daniel Auteuil.

Con un finale amaro e antiretorico che ripaga lo spettatore di qualche lentezza e leziosità di troppo,L’ottavo giorno si inserisce in quello che potremmo definire quasi un genere cinematografico a sé stante: inaugurato da Rain Man (1988) di Barry Levison, il filone, che trova in Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis la sua definitiva consacrazione, vede nell’handicap fisico o mentale il segno di una libertà d’immaginazione e di una sensibilità superiori che divengono motivo di rivelazione al mondo cosiddetto normale di un modo di guardare la realtà diverso e sicuramente più autentico.

Fabrizio Colamartino minori.it

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Home (Meier 2008)

 000dfa8f_mediumTitolo originale HOME

Produzione Francia, Svizzera, Belgio

Anno 2008

Durata 98 min

Genere commedia drammatica

Regia Ursula Meier

 

 

Trama

La vita di una famiglia, composta da madre, padre e tre figli, scorre tranquilla e allegra nella loro isolata casa di campagna, situata a pochi metri da un’autostrada mai terminata. Ma la loro quiete viene interrotta da una notizia che speravano non dovesse mai arrivare: la strada verrà ultimata ed aperta al traffico in brevissimo tempo. Ciò accade e in pochi giorni l’autostrada viene invasa da migliaia di automobili. È la fine della serenità di questa famiglia; la confusione e il frastuono provocano il caos all’interno della loro casa, portando Marthe, la madre, ad un esaurimento nervoso, mentre Judith, la figlia più grande, fugge di casa. Il clima familiare si fa soffocante e Michel, il padre, decide di assecondare la moglie e tutti insieme prendono una decisione drastica e al tempo stesso suicida: barricarsi in casa, murando porte e finestre e isolandosi di fatto dal mondo. Ma proprio quando sembra che la situazioni diventi una tragedia e la famiglia sia condannata a morte per asfissia, è proprio la madre che abbatte una delle porte e permette all’aria di entrare. Tutta la famiglia, senza uno scopo, si allontana a piedi dalla casa, seguendo il sole.

 Recensione

Marthe, Michel e i loro tre figli vivono isolati lungo un’autostrada costruita da anni e mai inaugurata. Quel tratto d’asfalto è dunque parte del prato davanti a casa, o meglio ancora, parte di un gioco. Quando però l’autostrada viene messa in funzione e migliaia di macchine iniziano a sfrecciare, la famiglia attraversa impensate difficoltà ma alla fine scopre la solidarietà e l’amore al di sopra di tutto. Eccentrico e tenero, graffiante e a tratti esilarante,Home si candida come una delle commedie più originali dell’anno, grazie alle avventure di una famiglia bizzarra a cui è impossibile non affezionarsi. Accolto con entusiasmo all’ultimo Festival di Cannes, il film ha per protagonista una straordinaria Isabelle Huppert.La piccola casa nella prateria contro la volgare strada che sparge rumore e inquinamento: la metafora sembra chiara e il confronto manicheo, ma la posta in gioco di Home è ben altra. La lotta che si vede nel film è tutta interiore. Perché il fiume di macchine va soprattutto a incrinare l’equilibrio di questa famiglia, gettandola in una trincea estrema. Incapaci di rinunciare alla loro isola, i vari componenti della famiglia entrano in crisi e abbandonano il buon senso fino a perdere la ragione. La sceneggiatura si sposa perfettamente con la recitazione, la camera a spalla e il montaggio tagliente delle prime sequenze vengono poi sostituite con una realizzazione più statica e contenuta: scelte perfettamente adeguate al cambiare delle atmosfere e dei contenuti.

La scelta dei piani, come delle stesse immagini tendono a delineare l’isolamento dei personaggi. Anche la fotografia mostra questo scendere agli inferi dei vari membri della famiglia: i colori caldi iniziali vengono via via sostituiti dall’oscurità e da colori freddi.
Anche i rumori, il rumore dei motori e delle radio in lontananza sono solo l’eco di un mondo esterno vissuto come pericoloso.

Un film che ha come sua centrale caratteristica la mescolanza di toni (oltre che, come si è detto di colori e di suoni): momenti di dramma e di comicità di alternano con perfetta armonia compositiva così da dare allo spettatore un messaggio molto forte e chiaro sui contenuti autentici del film.

La critica francese

Thierry Méranger – Cahiers di Cinéma

«Se di favola si tratta, il suo contenuto non è così semplice. Nel film di Ursula Meier non c’è traccia di paradisi perduti o parabole ecologiste. Qualche scena d’interni, come quella della sala da bagno, è rivelatrice. Il luogo è decisivo, poiché mostra insieme l’apparente libertà dei corpi e la vertigine del soffocamento. La nudità originaria, infatti, non può essere accettata da tutti. La giovane Marion, coscienza pudica e sofferente della famiglia, non riesce ad adattarsi alla promiscuità dei corpi. Ed è così che dal frutto nasce il verme: la rinascita del traffico sull’autostrada non farà altro che svelare il carattere disfunzionale, i disaccordi e gli squilibri del sistema famigliare originale, mostrandone l’utopia e il pericolo mortale insito nella sua inscindibilità.
Ci si accorge, allora, che la figlia grande, Judith, egoista e fuori di testa, all’improvviso è uscita dal gruppo. Che la nevrosi materna e la devozione paterna – l’uomo non smette mai di alimentare la follia della moglie – costituiscono il collante dell’unità famigliare. Splendida e inquietante la complementarietà della Huppert e di Gourmet, rispettivamente musa e artefice di un ideale da incubo che fa scivolare il film da Tati verso Haneke. (…)
La sindrone buñueliana dell’angelo sterminatore, tipica della regista, si ritrova anche in Home, attraverso la dissezione dell’amour fou e la costante trasgressione della nozione di genere. Road movie dell’impasse, Shining del terzo tipo, Trafic* del settimo continente. Ci si rammenta anche che la meravigliosa Ursula ha di recente dato vita a un ritratto di Pinget, “re della contraddizione”. E tira fuori il meglio proprio dalle crepe di una sceneggiatura che ha il suo punto di forza nel fatto di non raccontare tutto».

Le Monde

«Sono rari i film capaci di tirare le fila di un intreccio imprevedibile. Il primo lungometraggio di Ursula Meier, una volta assistente di Alain Tanner, è al tempo stesso drammatico e burlesco, satirico e fantastico. Questa favola è immersa in un’estetica iperrealista che ricorda le pubblicità americane dedicate a glorificare gli elettrodomestici. (…)
Home segue il processo infernale di una famiglia che, nel voler coltivare la propria felicità marginale, non solo è braccata dai peggiori aspetti della civilizzazione (calca, mancanza di privacy, frastuono, inquinamento) ma si ritrova letteralmente imprigionata. Poiché la vita quotidiana di questi falsi Robinson diventa un incubo, i problemi nascosti della famiglia vengono a galla, e il film diventa la storia di una resistenza suicida. Non ci si comprende più, si dorme tutti nella stessa stanza che dà sul giardino, imbottiti di sonniferi, con le finestre sbarrate. Fino al soffocamento».

Di Grazia Casagrande wuz.it

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Un sapore di ruggine e ossa ( Audiard 2012)

 

Un sapore di ruggine e ossa

 

Titolo originale: De Rouille Et D’osNazione: 

Francia, BelgioAnno: 2012

Genere: Drammatico

Durata: 120′

Regia: Jacques Audiard

 

 

INDICE:
-Trama

-Recensione

-video

Trama:
Tutto comincia nel nord della Francia. Ali si ritrova improvvisamente con un figlio di cinque anni nelle sue mani. Sam è suo figlio, ma sa poco di lui. Senza casa, senza un soldo e senza amici, Ali si rifugia dalla sorella in Antibes. Qui le cose migliorano, loro vivono nel suo garage, e lei si prende cura della bambina. Ali si imbatte in Stephanie durante una rissa in un night club. Lui la accompagna a casa e le lascia il suo numero di telefono. Lui è povero, lei è bella e sicura di sé. Stephanie lavora con le orche in Marineland. Quando uno spettacolo finisce in tragedia, una chiamata nella notte li fa incontrare. Quando Ali la incontra, vede la sua principessa confinata su una sedia a rotelle: ha perso le gambe e la felicità. Lui la aiuta con amore ma senza compassione e pietà. E lei imparerà ad apprezzare nuovamente la vita.

Recensione (giovanecinefilo.it)

Costretto suo malgrado a badare al figlio, lo spiantato Ali si trasferisce a casa della sorella ad Antibes dove si mette a lavorare in discoteca. Fuori dal locale conosce Stéphanie, una bella e turbolenta addestratrice di orche: la riaccompagna a casa dopo una rissa di cui è stata vittima, le lascia il numero di telefono. Tempo dopo, mentre Ali continua ad arrancare passando da un lavoro all’altro, Stéphanie ha un terribile incidente sul lavoro e perde entrambe le gambe. Un giorno, rimasta sola in casa, compone il numero dello sconosciuto buttafuori. La porterà in spiaggia. Questo è soltanto l’inizio del nuovo film di Jacques Audiard, che senza pretendere di replicare la densità narrativa di un capolavoro come Il profetaracconta una storia d’amore brutale, inconsapevole eppure necessaria, tra due anime costrette a ridefinire i loro confini e le loro coordinate. Schivando le categorie e le etichette (ma anche sfuggendo alla tentazione di fare un film sul corpo: la mutilazione è più un innesto che un obiettivo), Audiard trascina i suoi personaggi in una narrazione libera dalle costrizioni, capace di affiancare al dramma più straziante un’inattesa ironia e una sensualità travolgente, perdendo (perdonabilmente) qualche colpo quando si immerge quasi con spirito “sociale” nello sgradevole sottobosco del lavoro, riprendendosi del tutto quando colpisce i suoi protagonisti con lampi di epicità, coraggio, grandezza – segni di una straordinarietà già presente ma ancora tutta da conquistare, sfidando la paura di sé e dell’altro. Il loro “racconto di formazione” è infatti una terribile marcia a ostacoli che Audiard organizza con perizia e un pizzico di sadismo: i personaggi sono messi costantemente e spietatamente alla prova, fino alle estreme conseguenze – ma non è tanto la meta a interessare Audiard, quanto il tragitto: alla fine del giochi, il proprio destino è scritto nelle ferite, nelle lacerazioni e nelle ossa rotte, memorie indelebili, sempre presenti, della strada percorsa per trovare o ritrovare la luce. L’uso degli effetti speciali, abbinato al realismo della messa in scena e alla predominanza della camera a mano, crea un contrasto che amplifica se possibile la magnifica prova di Marion Cotillard, struccata ed emaciata per gran parte del film eppure sempre incredibilmente magnetica; con il rischio di sminuire la performance del pur adeguato Matthias Schoenaerts: ma vale la pena correrlo. Inaudito e perfetto, persino commovente, l’uso espressivo nella colonna sonora di “Firework” di Katy Perry, in una delle scene più intense e significative del film.

Video

Trailer

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L’incidente

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Voglio fare il bagno

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Che cosa sono io per te

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Mi piaceva essere guardate

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Elephant di Gus Van Sant

Elephant

di Gus Van Sant 

Ratings: Kids+16 , durata 81 min. –

USA 2003

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

Sinossi

Analisi tematica

Analisi narrativa e stilistica

Il regista

Trailer

Il film

 

 

Sinossi

Una giornata d’autunno in una high school di Portland (Oregon, USA). John è costretto a sostituire suo padre alla guida dell’automobile perché l’uomo, visibilmente ubriaco, è incapace di condurre il veicolo. Elias è nel parco antistante la scuola, scatta delle fotografie a una coppia di ragazzi, poi si avvia verso l’edificio. Giunto in ritardo a scuola, John lascia il padre in automobile e viene redarguito dal preside che lo trattiene nel suo ufficio per punizione. Nathan, che sta giocando a football, si avvia anch’egli verso la scuola dove ha un appuntamento con Carrie, la sua fidanzata; entrato nell’edificio, è oggetto degli sguardi ammirati di tre studentesse (Brittany, Jordan e Nicole), si incontra con Carrie e le chiede di partecipare ad una festa che si terrà la sera stessa. Il preside lascia andare John che, entrato in una stanza vuota, si mette a piangere; sopraggiunge Acadia che lo rincuora e va subito via per partecipare a un seminario sui diritti delle minoranze sessuali. Elias incontra John che si mette in posa per farsi scattare una foto; i due ragazzi si salutano, poi John esce dalla scuola e si imbatte in Alex ed Eric, altri due studenti che stanno facendo il loro ingresso nell’edificio armati fino ai denti. Mentre Alex sta seguendo una lezione di fisica [si tratta di un flashback], Nathan e un altro ragazzo lo bersagliano con palline di carta bagnate. Dopo essersi ripulito, Alex entra nella mensa, si guarda attorno e prende appunti: d’un tratto si porta le mani alla testa, sembra assordato dai rumori dell’ambiente circostante. Michelle viene rimproverata da una professoressa perché non ha indossato gli shorts regolamentari durante l’ora di ginnastica, poi va negli spogliatoi dove si cambia fingendo di non ascoltare i commenti poco lusinghieri delle altre studentesse sul suo aspetto fisico. Dopo aver attraversato i corridoi della scuola, Elias entra nella camera oscura per sviluppare le sue fotografie; commenta con un’amica le immagini che ha stampato esce di nuovo nel corridoio; qui incontra John, gli scatta una foto [la sequenza è una replica della scena precedente] ed entra in biblioteca. Brittany, Jordan e Nicole camminano per i corridoi dell’istituto chiacchierando; si imbattono in Nathan [anche questa sequenza è una replica], continuando a parlare entrano nella mensa; mentre consumano il pranzo notano John che, all’esterno, si imbatte in Alex ed Eric che entrano armati nell’edificio; poi vanno in bagno e vomitano ciò che hanno mangiato. Alex è a casa [ancora un flashback], sta suonando al pianoforte “Per Elisa” di Beethoven, viene raggiunto da Eric che inizia a giocare a un videogame il cui unico obiettivo è quello di abbattere delle figure che si aggirano in un deserto, poi entrambi navigano in internet alla ricerca di siti dove è possibile acquistare armi per corrispondenza. Al mattino, dopo la colazione, Alex ed Eric ricevono un pacco tramite corriere: è un fucile mitragliatore con il quale si esercitano a sparare mirando a una catasta di legna. Michelle percorre i corridoi della scuola, incrocia Elias che sta scattando la foto a John [la sequenza è ancora una replica delle due precedenti] e raggiunge velocemente la biblioteca dove ha il compito di riordinare i libri sugli scaffali. Dopo aver fatto la doccia insieme [ancora un flashback], Eric ed Alex si preparano studiando su una piantina della scuola i percorsi che dovranno seguire per poter abbattere il maggior numero di persone. In automobile raggiungono l’edificio e, poco prima di entrare si imbattono in John [ancora una replica della sequenza precedente]. Quest’ultimo, intuito il pericolo, tenta di impedire a quante più persone può di entrare nell’edificio, poi torna all’automobile dove però non trova più il padre. Nel frattempo, all’interno, Alex ed Eric attendono invano che esplodano delle cariche che hanno piazzato in vari punti della scuola: decidono di dare comunque il via alla carneficina uccidendo per primi Michelle ed Elias che si trovano in biblioteca. Poi è la volta di Brittany, Jordan e Nicole, sorprese da Alex quando ancora sono nel bagno, e di uno dei partecipanti al seminario sui diritti delle minoranze sessuali. Qui entra in scena Benny, un ragazzo di colore che, al contrario di tutti gli altri sembra sapere esattamente cosa fare: aiuta Acadia a fuggire attraverso una finestra e poi lascia la stanza seguendo il rumore degli spari. Eric, nel frattempo, sta minacciando il preside con il fucile: Benny sopraggiunge silenzioso alle sue spalle ma il ragazzo si gira di scatto e lo fredda prima di sparare al preside. John, all’esterno dell’edificio, ritrova il padre e con questi si ferma ad ascoltare gli spari in lontananza. Alex, individuati Nathan e Carrie, li segue a distanza fino alla mensa, entra nella sala deserta, si siede e viene raggiunto da Eric. Dopo un breve scambio di battute quest’ultimo viene abbattuto da un colpo di fucile: Alex, che ha percepito un rumore, apre la porta della cella frigorifera dove sorprende Nathan e Carrie che lo scongiurano di non sparare. Mentre recita una filastrocca, Alex prende con cura la mira… * La presente sinossi, per quanto dettagliata, non rende conto del complesso intreccio tra piani temporali diversi su cui si articola Elephant. Per un’esigenza di chiarezza, si è scelto di mettere in particolare evidenza i casi in cui la medesima scena viene ripresa da punti di vista diversi e riproposta in momenti differenti del racconto, nonché i vari flashback che spostano l’azione in momenti precedenti rispetto all’hic et nunc della narrazione. (tratto da minori.it)

Analisi tematica

Elephant nasce come reazione polemica alla straordinaria copertura informativa data alla strage compiuta nel 1999 da due studenti presso la Columbine High School di Littleton (Colorado) dai mezzi di informazione (in alcuni casi degenerata in una forma perversa di intrattenimento) e, soprattutto, alle facili risposte offerte dai media all’indomani dei tragici eventi: accuse nei confronti del cinema, dei videogame e di un certo genere di musica rock che, secondo il giudizio comune, sarebbero stati alla base della carneficina. Gus Van Sant, che nel corso della sua carriera ha interrogato incessantemente il mondo giovanile e adolescenziale, anche nel complesso legame che esso instaura con il sistema dei media (si pensi solo al provocatorio finale di Da morire), non crede a queste tesi, dettate più dallo sgomento di una società tradita da due ragazzi appartenenti alla classe media e apparentemente non problematici che da una profonda riflessione. Per questo concepisce un testo filmico di rara lucidità ed efficacia, soprattutto per la capacità di disinnescare ogni tentazione feticista nei confronti dell’evento in sé, compiendo un’operazione di distanziamento sul piano della messa in scena e di disorientamento dal punto di vista narrativo. Del resto, esprimendo in più occasioni la sua ammirazione per Bowling a Columbine, il documentario di Michael Moore che prende le mosse dalla strage nel liceo per analizzare lo stretto rapporto esistente negli Stati Uniti tra pulsioni violente (spesso estreme, come nel caso delle stragi nelle scuole) e costruzione di un generale clima di allarme e paura proprio per mano degli stessi media, Van Sant dichiara allo stesso tempo di voler restare idealmente nel solco polemico tracciato con grande abilità da Moore e di prenderne nettamente le distanze dal punto di vista formale. In Elephant , dunque, la denuncia dei problemi della società americana (e, più in generale di quella occidentale) non passa attraverso un’analisi razionale e puntuale delle cause e degli effetti ma si offre attraverso il puro e semplice dato fenomenico, emerge dalla “normalità” – dalla monotonia e dalla banalità – di un giorno qualsiasi in una qualsiasi località della provincia statunitense, descritta in quanto universo apparentemente sano, puro e indenne dal male (un procedimento che, tra l’altro, ricalca i più classici stilemi narrativi del cinema statunitense di genere, soprattutto dell’horror e della fantascienza). Van Sant, semmai, sembra voler prendersi gioco dei tentativi di motivare l’esplosione di follia dei due giovani assassini disseminando il campo di indizi che in seguito si rivelano illusori: i dispetti ai danni di Alex da parte dei compagni, la “crisi di nervi” che coglie il ragazzo nella mensa della scuola, il documentario sul nazismo guardato insieme ad Eric poco prima della strage, quest’ultimo che gioca a un videogame il cui unico obiettivo è quello di sparare a delle figure umane che si aggirano in un deserto, sono solo alcuni tra gli elementi che era possibile cogliere tra i tanti nel flusso degli eventi, degli accenni o poco più che non hanno una consistenza tale da assurgere a cause determinanti, anzi semmai mettono in evidenza la pretestuosità e l’inutilità di una simile ricerca. Del resto, tutto nel film suggerisce una pressoché totale serenità, a incominciare dall’immagine della scuola, così lontana da quella tradizionale (lezioni noiose scandite da orari rigidi all’interno di luoghi deputati) che, significativamente, l’unica sequenza in cui assistiamo a una vera e propria lezione in classe è collocata su un piano temporale anteriore al giorno della strage, ovvero fuori dal fulcro della narrazione. La high school di Elephant somiglia a un campus universitario nel quale il tempo è sottratto alla stretta contingenza degli orari (ma ciò avviene anche a causa della scomposizione della linea narrativa operata da Van Sant), dove i ragazzi sono liberi di girare, entrare e uscire, percorrerne i corridoi intessendo una fitta rete di rapporti amicali. I protagonisti, del resto, ci vengono presentati sempre intenti in attività che, pur rientrando tra le materie di studio, non appartengono alle classiche occupazioni scolastiche: sport, fotografia, un improbabile seminario sui diritti delle minoranze sessuali, attività sussidiarie che non hanno un risvolto concreto, un’applicazione pratica, piuttosto sembrano concepite per “riempire” un tempo sostanzialmente vuoto perché sottratto alla contingenza del quotidiano. Si parla fugacemente di un’interrogazione di matematica, ma l’unica situazione in cui ci vengono mostrati dei contenuti didattici in senso più o meno tradizionale è quella in cui Eric ed Alex, rimasti soli a casa di quest’ultimo, guardano alla televisione un documentario sul nazismo. D’altronde, tranne che in pochissime occasioni, la famiglia e l’istituzione scolastica sono lasciate fuori campo, assenti o, perlomeno, distanti e distratte:. John si ritrova fin da subito a dover accudire il padre, incapace di guidare perché ubriaco; il preside sembra incapace di redarguire il ragazzo per il ritardo; i genitori di Alex sono poco più di due ombre sfocate inquadrate controluce, due fantasmi che abbandonano la scena dopo una manciata di battute prive di senso. Con il suo pedinamento ossessivo dei ragazzi di Portland Van Sant ci parla di un mondo nel quale ormai non esiste alcuna possibilità di contatto tra le generazioni, neanche quella basata sul tradizionale conflitto interno al mondo scolastico tra docenti e allievi o a quello familiare tra genitori e figli, un mondo nel quale ognuno vive in una propria realtà parallela alle altre che, solo per brevissimi tratti, trovano delle forme di convergenza, proprio come suggerisce la complessa struttura narrativa del film. I discorsi di tutti, inoltre, vertono su un tempo futuro molto – forse troppo – prossimo (la stessa serata o i giorni appena successivi) da occupare piacevolmente (un concerto, una festa, una cena con barbecue) ma che verrà presto negato dall’irruzione dei due assassini. Un’atmosfera “spensierata” che accomuna vittime e carnefici: “soprattutto, ci dobbiamo divertire” dice Alex ad Eric, con estrema naturalezza appena incrinata da una punta di cinismo, poco prima di partire per la loro missione criminale. Un universo nel quale tutto è garantito, tutelato, dato per scontato, nel quale ciò di cui ci si deve preoccupare è solo un eterno presente a portata di mano (si veda con quale semplicità e rapidità i due assassini entrano in possesso di una delle armi, grazie ad internet), immediatamente disponibile. Un presente dal quale ogni angoscia legata al vivere quotidiano è eliminata – se non la fatica dello stesso vivere – in favore di un’attenzione per tutto ciò che è accessorio, marginale, superfluo (le tre amiche anoressiche che chiacchierano di shopping, diete e moda), per l’apparenza (il seminario sui diritti delle minoranze sessuali, incentrato sugli elementi più appariscenti dell’omosessualità), per il corpo che viene via via ammirato, fotografato, allenato, esibito (o, al contrario, nascosto, come nel caso di Micelle, unica presenza timida e sgraziata in un universo di adolescenti tutti belli, spensierati e disinvolti), continuamente pedinato dalla macchina da presa del regista. Un corpo che, dunque, diviene elemento assolutamente centrale e, paradossalmente, al tempo stesso marginale, trascurabile: liberato dalle fatiche della quotidianità grazie alle tecnologie, dagli obblighi sociali in virtù di una visione superficiale dell’idea di libertà, dalle gabbie dei giudizi morali grazie a una visione tollerante della sessualità, il corpo diviene essenzialmente un elemento ludico, da “mettere in gioco”, magari nel senso più banale del termine, ad esempio come bersaglio di un videogame. Probabilmente l’unico “messaggio” che è possibile cogliere in Elephant riguarda il pericolo di un eccessivo allontanamento dell’individuo dalla coscienza della propria finitezza. Il gesto di Alex ed Eric non può essere interpretato come un atto di “ribellione” (per quanto folle), i due ragazzi perdono quell’aura da eroi romantici e perversi che, pur con qualche disagio, sarebbe stato possibile assegnargli se avessero agito in un contesto sociale ancora capace di affermare valori, di proibire, di condizionare gli individui, ma è semplicemente il punto estremo del distacco psicologico rispetto alla consapevolezza dei limiti della propria esistenza che riecheggia nei gesti, negli atti, nei dialoghi di tutti i personaggi del film. In Elephant si percepiscono in maniera nettissima i termini di un simile mutamento antropologico che, in quanto tale, impone alla società nel suo complesso la rinuncia all’individuazione di facili capri espiatori in favore di un profondo esame di coscienza da parte dei suoi istituti portanti: famiglia, scuola e sistema dei media in primis.(tratto da minori.it)

Analisi narrativa e stilistica

Ricchissimo dal punto di vista dei temi affrontati in virtù della sua capacità di farsi metafora inesauribile della società contemporanea, nella sua scarna evidenza di resoconto antispettacolare di una serie di eventi riportati sullo schermo nella loro essenzialità, Elephant è altrettanto inesauribile dal punto di vista dello stile, la cui analisi si rivela capace di illuminare ulteriori aspetti del discorso sviluppato da Van Sant. Così come il regista “smonta” le tesi accusatorie dei media dominanti (televisione e stampa) sulla “responsabilità” della strage a carico di cinema, videogiochi e internet, mostrando come queste siano solo alcune delle componenti della vita degli adolescenti e probabilmente non le più determinanti nelle loro scelte, allo stesso modo rinuncia a narrare le vicende nel senso classico del termine, operando una serie di opzioni stilistiche nettissime. A Van Sant, infatti, non interessa spiegare, ma non perché sia animato da spirito nichilista o da semplice voyeurismo, bensì proprio per il motivo opposto: la strage è un evento assurdo, orribile, proprio perché è stata programmata nei minimi dettagli e, allo stesso tempo, è assolutamente immotivata, dunque non può essere sottoposta alle leggi della narrazione tradizionale fondata sulla linearità/razionalità. Di fronte al massacro di Columbine, Van Sant ha lo stesso atteggiamento di quei registi che, all’indomani della seconda guerra mondiale, si rifiutarono di portare sullo schermo il massacro del popolo ebreo nei campi di concentramento: quella catastrofe, che segnava la fine della Storia, annunciava anche la fine delle storie e, quindi, era impossibile darne conto attraverso le consuete tecniche narrative. Raccontare un evento, infatti, vuol dire chiarirne le cause, illustrarne le dinamiche, segnalarne gli effetti; e raccontare al cinema significa scegliere di esporre le cose da un certo punto di vista, decidere quali siano i tempi, gli spazi, le azioni da mostrare, le parole da far pronunciare ai personaggi. Per questo Van Sant sceglie come struttura portante del film il piano sequenza, ovvero una ripresa in continuità e in movimento che segue il soggetto senza operare tagli, stacchi di montaggio, cioè senza sovradeterminare (almeno all’apparenza) la “realtà” rappresentata. La realtà che viene mostrata in Elephant , inoltre, non è quella scritta da uno sceneggiatore e messa in scena dal regista, ma essenzialmente quella rielaborata dagli interpreti del film – dei veri liceali di Portland scelti tra le centinaia di ragazzi che avevano risposto all’annuncio della produzione – a partire da un canovaccio di situazioni e suggestioni messo a punto da Van Sant. Ai ragazzi è stato chiesto di improvvisare situazioni assolutamente normali, ordinarie (salutarsi, baciarsi, chiacchierare, scattare delle fotografie) e infatti nel film “non succede niente”, tranne che, ovviamente, nell’ultima mezz’ora, quella della strage. La genialità di Elephant risiede nel riuscire a riproporci una serie di situazioni e di figure sfruttate intensivamente dal cinema (specie da quello statunitense se solo si pensa alle decine e decine di commedie scolastiche o di drammi a sfondo sociale con protagonisti adolescenti prodotti negli ultimi decenni) ribaltandone totalmente il senso, mostrandoci attraverso poche, sapienti pennellate, l’altra faccia – quella più autentica e reale – della vita nelle scuole. Rinunciando a rappresentare in favore del semplice mostrare, sacrificando la messa in scena tradizionale di situazioni tipiche e personaggi caratteristici in favore di una più semplice collocazione nello spazio delle figure, Van Sant evita di creare stereotipi basati sulla consuetudine, sul pregiudizio o sull’ignoranza, a differenza di quanto era stato fatto dai media all’indomani dell’eccidio di Columbine. Attraverso questo metodo viene ancor meglio ribadita la tesi di fondo del film, ovvero che non è possibile tracciare un quadro a se stante della condizione vissuta dagli adolescenti e che, più in generale, l’individuo è sempre meno immerso in un contesto realmente “sociale” a vantaggio di una frammentazione dei rapporti e delle relazioni che restituisce un quadro complessivo refrattario a qualsiasi idea di unità. Singole identità, dunque, private della possibilità di diventare personaggi (ossia tipi psicologici o modelli sociologici) dalla coincidenza tra tempo della storia e tempo del racconto (che lascia poco spazio all’articolazione di situazioni di incontro e dialogo) dovuta all’adozione del piano sequenza, ma anche alla scelta di utilizzare quasi sempre il grandangolo, un obiettivo che dilata gli spazi isolando ulteriormente le figure dallo sfondo, facendole apparire minuscole rispetto a un contesto di volta in volta eccessivamente oppressivo o dispersivo. Il biondissimo John e la sua maglietta gialla con l’icona del toro spagnolo, Nathan e la maglia rossa con al centro una croce (il segno di un’inevitabile predestinazione a divenire bersaglio), Elias, alto, magro con il giubbetto nero, Benny con la canottiera gialla e le treccine rasta, più che personaggi sono sagome, silhouette facilmente individuabili, anche e soprattutto dal punto di vista visivo, ma delle quali si conosce ben poco a causa degli scarni dialoghi che alludono, oltretutto, a personaggi e situazioni di cui lo spettatore non sa né saprà nulla. L’omissione di questi e di molti altri dettagli contribuisce a creare un sorprendente “effetto di realtà” (lo spettatore non ha la sensazione che la storia sia stata costruita in funzione della sua visione e, allo stesso tempo, il pedinamento lo fa sentire un intruso) ma anche a intricare una matassa narrativa che contrasta fortemente con la scelta del piano sequenza in quanto strumento linguistico privilegiato, nonché con l’apparente linearità di un racconto scandito da una serie di cartelli recanti il nome dei vari personaggi di volta in volta pedinati dalla macchina da presa. In realtà, le didascalie si rivelano false piste, o tutt’al più semplici indicazioni utili per assegnare un nome a un volto, per consentire allo spettatore di raccogliere una serie di informazioni da rielaborare successivamente, rimettendo insieme i pezzi di un puzzle nel quale non esiste una figura depositaria di un punto di vista unico sugli eventi. È infatti il montaggio il principale strumento creativo utilizzato da Van Sant per costruire il racconto: il regista scompone la successione cronologica degli eventi narrati attraverso l’uso eterodosso di una serie di figure della narrazione cinematografica: flashback, flashforward, ma soprattutto la replica/ripetizione in almeno tre occasioni della medesima scena da punti di vista diversi e l’inserimento, di volta in volta, di differenze e scarti minimi ma significativi nella successione degli eventi. In tal modo Van Sant raggiunge il duplice obiettivo di relativizzare ancor più incisivamente la visione apparentemente a senso unico della strage (non c’è un solo movente come non esiste un solo modo di guardare i fatti che compongono la vicenda) e di sottolineare l’estraneità e l’isolamento dei vari percorsi individuali che, pur senza coincidere perfettamente, convergono fatalmente su un unico, paradossale orizzonte di senso – la strage, capace di accomunare in un medesimo destino di morte e autodistruzione vittime e carnefici – all’interno del quale, tuttavia, viene negata la possibilità di una catarsi collettiva. Attraverso il suo stile freddo e distaccato, infatti, Van Sant sceglie di mettere ognuno dei personaggi di fronte a una morte che, in qualche modo, ne ratifica o ne ribalta il ruolo costruito nel corso del film: Elias, l’intellettuale sempre alla ricerca di modelli per il suo portfolio fotografico, scatta la sua ultima immagine ad Alex un attimo prima che questi lo freddi nella biblioteca, violando con ferocia la sacralità di un luogo destinato a conservare memoria e cultura; Nathan e Carrie concludono la loro fuga nella ghiacciaia, vera e propria negazione del calore e dell’affetto che i due si sono scambiati nel corso del film; Brittany, Jordan e Nicole, sofisticate e superbe restano intrappolate nel gabinetto della mensa dove si sono attardate per vomitare il pranzo appena consumato e per controllare il proprio aspetto allo specchio; persino le attese dello spettatore rispetto al personaggio di Benny, apparentemente l’unico in grado di fronteggiare quanto sta accadendo, vengono deluse da una fine tanto prevedibile quanto sconfortante. Neanche i due assassini possono sottrarsi a questa visione glaciale della morte: Eric viene improvvisamente colpito a morte sotto lo sguardo impassibile di Alex, con il quale, tuttavia, ha condiviso non solo la ferocia della carneficina ma anche momenti di intimità e di affetto subito prima di partire per la sua folle missione. (tratto da minori.it)

Il regista
Gus Van Sant è un cineasta che ha attraversato fasi molto diverse di una carriera sempre molto interessante, nonostante non sia mai stata apprezzata con lo stesso entusiasmo da pubblico e critica. Il primo periodo è debitore di un’estetica filmica desunta, in egual misura, dal cinema indipendente americano, dalle avanguardie cinematografiche e artistiche, alle quali, per formazione culturale, è sempre stato molto vicino, caratterizzata da uno spiccato lirismo metaforico in grado di risvegliare arditi accostamenti di montaggio alla Ejzenstejn con la bellezza senza tempo di spazi vangoghiani irrorati dalla luce mirata di Vermeer. Il secondo si caratterizza per la precisione formale e l’estrema correttezza ideologica dei contenuti delle major hollywoodiane (nelle cui fila ha fatto parte per alcuni anni e per alcuni film). Il terzo, radicalmente diverso dal precedente periodo “mainstream”, si pone l’obiettivo dichiarato di descrivere un progressivo annichilimento dei sentimenti e delle aspirazioni umane, in grado di sublimare in una crisi generalizzata del mondo contemporaneo, in uno smarrimento sconfortante per i personaggi coinvolti. Questi ultimi, non sarà un caso, sono spesso degli adolescenti. (minori.it)
Trailer:

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Il film

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