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Manuale a uso dei bambini che hanno genitori difficili

Manuale a uso dei bambini che hanno genitori difficili

Autore: Van den Brouck J.
Raffaello Cortina Editore – Pagine: 118

Anno: 1993

Prezzo: 9,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con molto humour, Jeanne Van den Brouck, pseudonimo dietro cui si nasconde una psicoanalista parigina, cerca tutte le situazioni familiari in cui possono incappare i bambini di ogni età, attraverso le quali essi devono costruire la propria personalità e “educare” i loro genitori difficili, questi immaturi, bugiardi, timidi, superdotati, assenti, stremati, gelosi, delinquenti, pasticcioni, sadici.

“Questo libro è indirizzato ai bambini, come dice il titolo, ma io lo raccomando agli adolescenti e agli adulti. E se per caso qualche genitore vuole essere à la page, come me che ho trovato questo libro geniale, scommetto che farà altrettanto”

“Educare i propri genitori – è questa da sempre la responsabilità dei figli autenticamente vitali, ma che nessuno ha mai spiegato loro… Non dimentichiamo che, mentre l’educazione di un figlio richiede in media da quindici a diciotto anni, l’educazione dei genitori può durare mezzo secolo e qualche volta di più”.

Françoise Dolto

Un genitore quasi perfetto ( Bettelheim 1987)

Un genitore quasi perfetto

Autore: Bruno Bettelheim – Editore: Feltrinelli 1987 – Pagine: 456

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INDICE


RECENSIONI

Corriere.it La crescita è un percorso che genitori e bambini fanno insieme: insieme si diventa grandi e insieme si torna bambini, per amarsi e capirsi meglio. I figli chiedono rapporti profondi, onesti e consapevoli, per trasformarsi a loro volta in adulti autentici e affettivi. Bruno Bettelheim ci incoraggia a trovare dentro di noi le risposte alle loro esigenze: se ammettiamo la complessità delle nostre passioni, se ricordiamo la nostra infanzia e gliela sappiamo raccontare, se prendiamo sul serio il loro punto di vista, se accogliamo le loro trasgressioni – anche senza accettarle -, se li sosteniamo sempre con tutta la nostra fiducia, saremo genitori forse imperfetti, ma passabili. E il nostro amore non li deluderà. (corriere.it)

Recensione di Di Carlo, A., L’Indice 1988, n. 6

Ebreo viennese e psicoanalista, Bruno Bettelheim ha vissuto nel 1938 l’esperienza della deportazione e del lager nazista. Sfuggì al campo di concentramento ed emigrò in America nel 1939, dove, in un libro divenuto famoso, Il prezzo della vita (1960), narrò la sua personale tragedia e l’orrore del campo di sterminio vissuto da milioni di deportati. Questo accenno ad un’opera sui campi di sterminio nazisti, fatto per recensire un’opera di riflessione pedagogica non è evidentemente casuale; in effetti è come se i problemi che Bettelheim affronta in questo suo nuovo libro, fossero ancora i problemi e le domande che in quegli anni lontani hanno attraversato la sua esistenza. Il lager è per Bettelheim un vero punto di svolta, è l’inizio di una riflessione sul valore profondo della libertà e della soggettività umana. La situazione estrema in cui è vissuto gli ha insegnato cita la comprensione di se, delle proprie ed altrui emozioni, è un potente strumento di difesa della propria integrità, della propria autonomia interiore: nel lager comprende che la capacità di comunicare e la fedeltà ad un nucleo profondo di valori e di ideali rappresentano uno strumento fondamentale di sopravvivenza. I temi di cui stiamo parlando non riguardano solo l’antica esperienza del lager, li ritroviamo con altre modalità e contenuti nell’analisi critica che Bettelheim ha fatto e fa della condizione di anemia, di frammentazione, di dipendenza e in ultima analisi di isolamento emotivo, che caratterizzano le società di massa tecnologicamente avanzate in cui tutti noi viviamo Li ritroviamo infine in questo libro “Un genitore quasi perfetto” (o meglio “abbastanza buono” per essere più fedeli al titolo originale) in cui gli stessi temi sono tradotti in termini pedagogici e ripensati all’interno della relazione genitori-figli. Il libro è il bilancio di una lunga esperienza psicoanalitica ed è una riflessione sul valore e sul significato delle dinamiche affettive nella crescita umana. La maturazione emotivo-affettiva (questo uno dei temi centrali) è un difficile, complesso, cammino verso l’identità e l’autenticità del sé. Motore di tutto questo sono le identificazioni profonde grazie alle quali il bambino accoglie nel mondo interno condotte, modi di sentire e di pensare dei genitori, del mondo familiare, dell’ambiente sociale. Si matura ci dice Bettelheim, per la qualità di queste relazioni, per la forza della presenza dell’altro, per la stabilità del contatto personale, che si instaura tra adulto e bambino. Se pensiamo per un momento al problema dell’esercizio dell’autorità, del controllo di se e dell’autodisciplina, scopriamo che ciò che ha peso e significato nell’imparare a vivere le regole comuni, non sono gli ordini e ancor meno le minacce e le punizioni. Ciò che conta è un sistema di valori coerente, quell’insieme fatto di comunicazione affettiva e di fermezza interiore che crea le condizioni per introiettare stabilità e autocontrollo. All’obbedienza basata sulla paura e il conformismo, Bettelheim contrappone il primato della crescita attraverso identificazioni con chi sa e sa fare: questo è per liti il nucleo generatore della forza dell’io, quel nucleo che consente di affrontare poi le vicissitudini dolorose e i conflitti connessi alla condizione umana. Dobbiamo aggiungere che per Bettelheim i processi di identificazione hanno questa qualità protettiva se la natura del rapporto genitori-figli è sempre meno quello che sembra essere divenuto nelle società industriali e postindustriali del nostro tempo, dominate dalla separatezza emotiva, dalla solitudine di giovani ed adulti, dal conformismo di massa. Di fronte a questa condizione di vita si avverte con chiarezza, in Bettelheim, la sottile nostalgia per una società in cui i giovani imparavano a vivere e a lavorare grazie a rapporti personali e ravvicinati con gli adulti e a sistemi sociali ricchi di appartenenza. Se il rapporto personale e la ricchezza delle identificazioni, la vicinanza e la continuità delle generazioni, sono i luoghi della maturazione della mente, è soprattutto la conoscenza di se che fa da catalizzatore di ogni relazione maturativa e di ogni vera crescita personale. Il tema della maturazione affettiva intesa come accrescimento della consapevolezza di se, tema così strettamente legato al pensiero psicoanalitico, può essere considerato un vero leit-motiv del libro. Per Bettelheim la sostanza del procedimento analitico è nella conoscenza di sé. Egli sa molto bene che questa conoscenza è il risultato di un difficile cammino attraverso zone oscure della mente. In una sua recente opera, “Freud e l’anima dell’uomo” (1982), egli ha sottolineato proprio questo punto, cioè che il senso del lavoro analitico è nella scoperta di una verità interiore e non certo nei facili adattamenti all’esistente come ha creduto certa psicologia americana. Ebbene, anche in un libro di educazione familiare come questo, l’attenzione al nucleo forte del sapere psicoanalitico riemerge e si ripropone come via maestra per comunicare (se questo è possibile) con il bambino, con l’adolescente. Nel libro non troviamo quindi un insieme di consigli pedagogici da fornire a genitori in difficoltà (anche se non mancano evidentemente i principi regolatori e i modelli di condotta) ma soprattutto l’indicazione di un atteggiamento interiore: la necessità di conseguire una consapevolezza di sé per arrivare alla conoscenza dell’altro. In breve, le fantasie, i sentimenti di un bambino, ci dice Bettelheim, possono facilmente trovare il muro delle nostre difese, ma se riusciamo a calarci nelle nostre emozioni mettendoci in certa misura in ascolto di noi stessi, se avvertiamo un contatto più profondo e comprensivo con le nostre esperienze passate, possiamo utilizzare tutto questo per ridurre le difese e creare uno spazio mentale più ampio che consenta all’altro di vivere e di crescere. Il rapporto con un bambino dovrebbe, in altri termini, poter accrescere la nostra capacità di insight personale e tradursi nella consapevolezza delle ambivalenze e dei conflitti che attraversano la condizione umana. Un bambino cresce perché si sente compreso, ma un bambino è compreso se il genitore sa mettersi in ascolto delle proprie emozioni: nel duplice ascolto di sé e dell’altro nascono l’empatia, la capacità di identificazione, le spinte ad utilizzare risorse profonde, le vere qualità che danno forza e spessore al rapporto pedagogico. Nella sua parte centrale, infine, il libro di Bettelheim può essere letto come un piccolo trattato di psicoanalisi del gioco infantile. Bettelheim vi riassume tutta una tradizione di pensiero che ha fatto del gioco una delle vie per attingere i significati inconsci dei comportamenti del bambino. Ma il gioco non è solo una esperienza da interpretare, è uno dei luoghi alti della maturazione in cui le emozioni e la ragione si incontrano, in cui è possibile vedere emergere in trasparenza uno degli obiettivi del lavoro analitico: l’integrazione della vita emotiva e della vita intellettuale. Il gioco è dunque un luogo della mente, la stanza dei giochi (Spielraum), come è vista da Bettelheim, è uno spazio di libero movimento aperto al sogno e alla realtà, nel gioco il bambino può vivere emozioni ricche di significato e sperimentare un autentico esercizio di libertà intellettuale. Anche in queste parti del libro dedicate al gioco torna il tema, caro a Bettelheim, che maturare è accogliere alcune parti di se ed elaborarle in un tempo interiore, un tempo che varia da soggetto a soggetto, che coincide con un itinerario di scoperta, un movimento verso la verità. Il gioco è appunto questo, per questo senso forte, per questo suo spessore psicoanalitico e antropologico, serve a preparare gli apprendimenti futuri e la padronanza delle emozioni. Un’opera di teoria dell’educazione dunque, questa di Bettelheim, un libro che si colloca nella sua linea di ricerca degli ultimi anni, una ricerca psicopedagogica da cui sono nate anche le opere sulla fiaba e sull’apprendimento della lettura. Non vi sono in questo libro che pochi accenni a quelle situazioni psicopatologiche intorno a cui ha lavorato a lungo e che ha narrato in altre opere molto note (si veda per tutte La fortezza vuota, Garzanti 1976, 1979, 1987). In questo nuovo libro vi è, come si è detto, il tentativo di fornire una lettura dei rapporti tra genitori e figli, i rapporti di tutti i giorni, in situazioni di normalità, un tentativo Atto alla luce di una idea di educazione che ci è sembrata di grande rilievo, animata com’è da un intenso desiderio di intimità e di stabilità emozionale, dal desiderio di una vita ricca di affetti e di forza simbolica, quale può nascere in chi ha avuto a lungo esperienza della sofferenza mentale e, insieme, il sostegno della “saggezza” psicoanalitica.

 

ALCUNE FRASI TRATTE DAL LIBRO

  • Nel processo di sviluppo della personalità molte esperienze infantili sono dovute di necessità affondare nell’inconscio. Quando la personalità adulta è pienamente e saldamente formata, non sarebbe più necessario prendere le distanza dall’infanzia, ma a quel punto ormai tale distacco è divenuto per molte persone parte integrante della loro personalità. La scissione dalla propria infanzia, benché momentaneamente necessaria, se diventa permanente ci depriva di esperienze interiori che potrebbero mantenerci giovani di spirito e inoltre consentirci una maggiore e più profonda intimità con i nostri figli. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987.
  • L’empatia, così importante perché un adulto possa comprendere un bambino, comporta che si consideri l’altro nostro pari; non per ciò che riguarda il sapere, l’intelligenza o l’esperienza e men che meno la maturità, bensì rispetto ai sentimenti e alle emozioni che ci muovono tutti, adulti e bambini. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987
  • I genitori che investono emozioni positive nei giochi dei loro figli infondono in loro la sicurezza che da grandi saranno in grado di far fronte ai compiti della vita adulta. Tale sicurezza scaturisce nel bambino dalla soddisfazione di stare facendo un gioco bello, importante, ricco di senso, ed è alimentata dalla conferma che al riguardo riceve dalla parallela soddisfazione dei genitori. La comprensione a livello emotivo dell’importante significato che il gioco riveste nel presente per i figli, dà corpo e concretezza al suo ruolo nel prepararli per il futuro. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987.
  • Il genitore deve resistere all’impulso di cercare di costruire il figlio che lui vorrebbe avere, e aiutarlo invece a sviluppare appieno, secondo i suoi ritmi, le sue potenzialità, a diventare quello che lui vuole essere, in armonia con al sua dotazione naturale e come risultante della sua individualissima storia. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto

 

BRANI TRATTI DAL LIBRO

Se un bambino che possiede le abilità necessarie per riuscire bene a scuola invece va male

Il contenuto del subconscio può divenire accessibile attraverso un’attenta analisi dei pensieri, dei sentimenti, delle motivazioni profonde: per quanto si tratti di un processo assai difficile, è tuttavia possibile portare alla coscienza ciò che si muove nel subconscio. Tra conscio e inconscio vi è invece una barriera impenetrabile: ciò che si agita nell’inconscio è ciò che per la coscienza è assolutamente inaccettabile ed è stato quindi rimosso. La piena consapevolezza dei materiali inconsci può essere raggiunta solo attraverso la più grande resistenza. Occorrono uno sforzo e una determinazione concentrati e un duro lavoro intellettuale per penetrare la barriera che separa la coscienza dall’inconscio e, in molti casi, questo è possibile solo fino a un certo punto, se non addirittura del tutto impossibile.

Tornando al nostro esempio, l’idea che vi sia un parallelo tra l’assemblaggio delle funzioni di una macchina e il funzionamento di un bambino (e ci si comporti poi di conseguenza), potrebbe essere per alcuni genitori un pensiero talmente aberrante che essi semplicemente non lo accettano. Per loro, tale parallelo, che pure determina i loro pensieri e le loro motivazioni, rimane inconscio. Altri genitori, riflettendoci sopra e sforzandosi seriamente di analizzare i propri pensieri e le proprie motivazioni, riescono a riconoscere che, sia pure senza esserne consapevoli, essi avevano effettivamente stabilito un parallelo tra il funzionamento del figlio e quello di una macchina. In questo caso, il parallelo non era stato rimosso nell’inconscio, ma era rimasto, fino al momento della sua riscoperta, nel subconscio.

In entrambi i casi, molti ne parlano nello stesso modo, dicendo per esempio che vorrebbero che il loro bambino desse delle “prestazioni” migliori, o “rendesse” di più a scuola (uno dei motivi più diffusi per cui ci si rivolge agli specialisti). Se invece a un genitore sta a cuore soprattutto che suo figlio abbia una vita soddisfacente e sia felice, è poco probabile che ne parli in questo modo. Anzi, è il parallelo operato nel subconscio tra due fenomeni assolutamente non paragonabili, come una macchina ben funzionante e una vita vissuta bene, che suscita nei genitori, quando i loro sforzi non riescono a “produrre” esattamente i risultati previsti, quel senso di intima insoddisfazione nei confronti propri e del figlio. Ne deducono allora che ci deve essere qualcosa che non va nelle loro “tecniche” educative, che devono avere applicato un “sistema scorretto”, perché altrimenti avrebbero ottenuto i risultati giusti. È questo tipo di mentalità che induce i genitori a ricorrere ai manuali per imparare “come fare” a fare i genitori, quando il problema vero non è “fare” ma essere dei bravi genitori.

Con questo non voglio dire che un genitore non debba preoccuparsi di fare del suo meglio con i figli, o che bisogna lasciare tutto al caso. È compito dei genitori offrire una guida ai figli, attraverso il loro comportamento e i valori sui quali impostano la loro vita. Ma bisogna liberarsi dall’idea che esistano dei metodi infallibili che, se applicati correttamente, produrranno automaticamente risultati determinati e prevedibili. Qualunque cosa facciamo con e per i nostri figli dovrebbe scaturire naturalmente dalla nostra comprensione, comprensione anche emotiva, delle singole situazioni e del particolare rapporto che vorremmo avere con i nostri figli.

Nel suo libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Robert Pirsig dimostra che persino quando montiamo un congegno meccanico il fatto di ubbidire alle istruzioni ci priva della sensazione di essere creativi nel nostro lavoro. E questa, per un essere umano, è una perdita molto più grande del vantaggio che otteniamo quando seguire correttamente le istruzioni ci permette di montare facilmente i pezzi di un meccanismo; sicché persino nel caso di una macchina da montare i sentimenti che investiamo nel nostro lavoro sono determinanti per la soddisfazione che ne possiamo trarre. È raro sentirsi davvero contenti di noi stessi e di nostro figlio quando nei nostri rapporti applichiamo consigli pensati da qualcun altro: questo toglie al rapporto quella spontaneità che lo rende un’esperienza umanamente significativa e quindi realmente soddisfacente.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 33

A volte do a me stessa consigli ammirevoli, ma sono incapace di seguirli

Abbiamo tutti una forte propensione a comportarci come Mary Wortley Montagu, che scrisse in una lettera alla Contessa di Mar: “A volte do a me stessa consigli ammirevoli, ma sono incapace di seguirli.”

Dunque i consigli che non intaccano la tranquillità dei genitori o le loro idee vengono seguiti più facilmente, a dispetto del parere contrario espresso da altri “specialisti”. Questo spiega come mai venga tuttora seguito da molti il consiglio di lasciar piangere i neonati invece di prenderli in braccio e coccolarli. Qui non si tratta tanto del fatto che questa linea di condotta sia più comoda per i genitori, perché i vagiti di un lattante danno fastidio; il problema è più sottile: tutti ci irritiamo con chi ci provoca un disagio, e inconsciamente il genitore prova risentimento per il pianto prolungato di suo figlio. E se, benché sia irritato, lo prende in braccio ugualmente (come, altrettanto frequentemente, gli viene consigliato di fare), si può star certi che il rimedio non funzionerà, perché tutto il suo modo di fare sarà nervoso e irritato. Ecco dunque confermato che prendere in braccio i bambini quando piangono non serve! Infatti, mentre compiere i gesti richiesti è abbastanza facile, molto difficile è dare vero conforto alle persone verso le quali proviamo risentimento, anche se si tratta dei nostri figli. Perciò, se un consiglio viene seguito controvoglia, il più delle volte si rivelerà controproducente.

Mi è capitato spesso di parlare con genitori che ricorrevano a sistemi alquanto bizzarri nell’educare i figli; e quando domandavo loro come gli fosse venuta l’idea di agire in quel modo, quasi tutti rispondevano di aver letto, o sentito dire, che quello era il sistema migliore. Quasi sempre risultava inoltre che gli era stato dato anche il consiglio opposto, ma, siccome seguirlo era sembrato scomodo o inadatto al loro caso, avevano spulciato la letteratura esistente fino a che avevano trovato un suggerimento che confermasse la loro valutazione della situazione.

In altre parole, è difficile leggere dei consigli su come dovrebbe comportarsi un genitore senza avere intense reazioni personali, reazioni che interferiscono nella comprensione dei consigli stessi, per non parlare dell’obiettività necessaria per evitare di proiettarvi elementi che essi non contengono affatto. D’altro canto, visto che il consiglio lo abbiamo cercato, diventa difficile ignorano: dobbiamo farci i conti, accettano, rifiutano, del tutto o in parte; dobbiamo comunque continuare a rifletterci sopra. Tuttavia, dato che, se abbiamo chiesto consiglio, è perché ci troviamo in un momento di crisi acuta (per esempio perché nostro figlio è violentemente geloso del fratellino, o ha paura dei cani, o non vuole andare a scuola, o bagna ancora il letto, oppure mangia troppo o non vuole mangiare nulla), ci mancano il tempo e l’agio di esaminare il consiglio ricevuto con quella equanimità che ci consentirebbe di compiere una scelta oculata. L’urgenza è troppo grande, perché davvero nostro figlio si rifiuta di andare a scuola, continua ad avere il terrore dei cani, continua a mangiare troppo o a non mangiare, a fare cose pericolose, o ad avere incubi dai quali ci chiede di proteggerlo. E se anche non ci chiede esplicitamente di “fare qualcosa”, noi ci sentiamo in obbligo di aiutarlo, il che non ci facilita certo nell’assumere un atteggiamento obiettivo. E se per caso il problema dovesse momentaneamente recedere, noi continuiamo a domandarci preoccupati quale potrebbe esserne stata la causa, perché sappiamo fin troppo bene per esperienza che la tregua non durerà, o che il problema rispunterà sotto altra forma. Sicché non possiamo evitare di continuare a rimuginare sul consiglio ricevuto, sui suoi vantaggi e svantaggi, il che il più delle volte ci impedisce di valutare obiettivamente se e in quale misura sia adatto a risolvere il nostro problema.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 39

Motivi che spieghino il suo fallimento

Se un bambino che possiede le abilità necessarie per riuscire bene a scuola invece va male, devono esistere dei motivi che spieghino il suo fallimento, dei motivi che, per quel bambino, devono evidentemente essere più pressanti del desiderio di ottenere tutte quelle gratificazioni.

Per poter comprendere tali motivi dobbiamo scoprire da quale prospettiva il fallimento scolastico può apparire più desiderabile del successo. Solo la convinzione aprioristica dei genitori che non possa esistere una simile prospettiva impedisce loro di capire come mai il figlio abbia scelto il fallimento invece del successo. Se solo si sforzassero di vedere le cose da un’angolatura che renda intelligibile la scelta del figlio, allora il suo modo di ragionare apparirebbe anche a loro comprensibile e del tutto logico; e, quel che più conta, il conflitto si risolverebbe ed essi saprebbero come indurre il bambino a modificare la sua scelta in modo che si conformi maggiormente alla loro.

Il caso di Emma può servire a illustrare questo punto. Emma era una ragazzina i cui genitori si erano sempre distinti in campo intellettuale e attribuivano la massima importanza al successo scolastico. Tuttavia Emma aveva un rendimento mediocre, diversamente dal fratello maggiore, che, con evidente soddisfazione dei genitori, era sempre stato il primo della classe. Comunque la ragazza se l’era sempre cavata in tutte le materie, se non che, improvvisamente, incominciò a prendere insufficienze in tutto. Ovviamente, questo angustiò molto la madre, che da sempre era preoccupata per lo scarso entusiasmo di Emma per lo studio; aveva provato a ridurre la quantità di tempo che la figlia passava davanti al televisore, e a indurla a leggere “libri validi”, ma tutto era stato vano. Né erano serviti a chiarire l’enigma i colloqui con gli insegnanti: anch’essi erano sconcertati dall’improvviso calo del rendimento di Emma.

La madre, infelice e confusa, si rivolse allora allo psicologo perché le consigliasse come fare a indurre la figlia a leggere buoni libri e a fare meglio a scuola. La donna diede sfogo alla sua preoccupazione per il disinteresse della ragazza per la lettura, per la sua abitudine di andarsene a zonzo con gli amici o rimanere per ore davanti al televisore; e non fece mistero della propria esplicita e severa disapprovazione nei confronti della figlia. L’unico dato al quale non fece cenno, finché non le venne chiesto direttamente di descrivere la situazione familiare, fu che diversi mesi prima il marito se n’era andato di casa.

La separazione evidentemente era così dolorosa per lei che preferiva non parlarne e non pensarci, benché si rendesse conto di come avesse creato gravi difficoltà per tutti in famiglia. Dal canto suo, ora sentiva più forte di prima l’obbligo morale di vigilare a che i figli non si sbandassero. Aveva dunque insistito perché Emma studiasse con maggiore impegno, ottenendo però l’effetto opposto.

Alla donna non era neppure venuto in mente che potessero esistere validi motivi per il comportamento della figlia; l’indolenza e la ricerca di piaceri insulsi le erano parsi una spiegazione sufficiente.

Se invece fosse partita dalla convinzione che la figlia doveva avere per le proprie azioni motivi altrettanto validi di quelli che aveva lei per desiderare che invece leggesse buoni libri e si impegnasse negli studi, allora forse le sarebbe venuto in mente di porsi la seguente domanda: come mai Emma, che pure aveva sempre ottenuto la sufficienza, ora improvvisamente era stata bocciata in tutte le materie, e non solo in una o due? La donna svolgeva lavoro di ricerca in campo scientifico ed

era quindi abituata a prendere in attenta considerazione tutti i dati concomitanti prima di giungere a una conclusione circa le cause di un fenomeno. Eppure, quando il problema riguardava sua figlia, non si era posta domande del tipo: quale importante fattore potrebbe spiegare un cambiamento così radicale del rendimento scolastico di mia figlia? Oppure: quali altri eventi significativi hanno avuto luogo più o meno contemporaneamente al fallimento scolastico di Emma? Se avesse riflettuto su questi interrogativi, le sarebbe apparso evidente che, in concomitanza con il peggioramento a scuola, si era verificato un grosso cambiamento nella vita della ragazza: la partenza del padre molto amato. E la connessione tra i due eventi le sarebbe parsa quanto meno ipotizzabile.

Il timore che il fallimento del suo matrimonio potesse avere conseguenze distruttive sulla vita dei figli, e il ferreo proposito di evitare che questo avvenisse, avevano impedito alla donna di percepire le vere intenzioni della figlia, tanto più che le sue emozioni personali si erano innestate sulla convinzione di fondo che non potessero esistere motivi validi per andare a scuola. Il suo giudizio negativo sulle motivazioni della che attribuiva a pigrizia, superficialità, gusto per i piascadenti, e il dispiacere che ne provava, le avevano impedito di cercare una spiegazione più generosa del comportamento della ragazza. Essendo sicura della correttezza del proprio giudizio, le era semplicemente impossibile capire come Emma volesse quello che voleva lei: riportare il padre in seno alla famiglia.

Contrariamente all’idea della madre che il suo insuccesso scolastico fosse una prova della scarsa importanza attribuita allo studio, in realtà la ragazza aveva assimilato la convinzione dei suoi genitori che lo studio potesse cambiare la vita di una persona e conseguire risultati importanti. Tant’è vero che aveva deciso di fare leva appunto sui sentimenti di suo padre verso il rendimento scolastico dei figli per conseguire il risultato che in quel momento per lei contava più di qualsiasi altra cosa: il ritorno del padre in seno alla famiglia. Emma era abbastanza intelligente da rendersi conto che, se avesse continuato a essere promossa, suo padre l’avrebbe interpretato come un segno che tutto andava bene nonostante la sua assenza e dunque non c’era bisogno di lui. La sua inaspettata e imprevedibile bocciatura, invece, l’avrebbe forse preoccupato al punto da farlo tornare: allora tutto sarebbe tornato come prima, compresi i suoi voti a scuola. Prendere l’insufficienza in tutte le materie, dunque, era stato una specie di stratagemma per far tornare a casa il padre, anche se, naturalmente, a livello di coscienza, la ragazzina avvertiva soltanto la vaga sensazione che, senza l’aiuto dei padre, non riusciva a studiare. Sua madre, tutta presa dai propri problemi, si limitava a sperare che non ci fossero conseguenze più gravi, ma Emma era più ottimista: era convinta che la rottura fosse reversibile, e si dispose a fare quanto in suo potere per ricomporre la famiglia. Per quanto riguardava il valore dello studio, l’accordo con la madre non poteva essere più totale, anche se la madre non lo poteva capire.

Dunque un comportamento che apparentemente indica una divergenza tra genitori e figli, può in realtà essere motivato dal medesimo scopo; solo che i mezzi usati per raggiungerlo sono molto diversi. Emma, è vero, si era comportata in modo ingenuo e immaturo, senza tener conto delle conseguenze lontane delle sue azioni. Ma, alla sua età, come avrebbe potuto essere altrimenti? E inoltre, considerando le cose realisticamente, che altro avrebbe potuto fare per scuotere veramente suo padre?

Più spesso di quanto non si creda, i figli vogliono le stesse cose che vogliono i loro genitori. Il bambino nutre un così profondo attaccamento per i genitori, la sua vita è così inestricabilmente legata alla loro, che non può fare a meno di rispondere istintivamente a quello che passa per la loro mente e per il loro cuore. Solo che i bambini il più delle volte reagiscono ai contenuti dell’inconscio dei genitori, più che ai contenuti presenti alla coscienza, giacché essi stessi sono molto più in contatto con l’inconscio di quanto non lo siano gli adulti. Il bambino, dunque, reagisce soprattutto all’inconscio del genitore.

Nel mondo infantile, dove il sole sorge e tramonta in virtù del padre e della madre, dove non c’è nulla che sembri impossibile per loro, quella che noi chiameremmo realtà oggettiva conta ben poco.

Per quanto ardentemente desiderasse che il marito tornasse da lei, la madre di Emma, essendo vincolata alle leggi della realtà e ben conoscendo come funziona il mondo, e soprattutto come funzionava il suo ex marito, si sentiva impotente a cambiare quella situazione. Inoltre, poiché il suo abbandono l’aveva ferita profondamente, ora nutriva sentimenti ambivalenti nei suoi confronti. Essendo personalmente convinta che nulla avrebbe potuto farlo ritornare in famiglia, non le venne in mente che la figlia potesse essere motivata dal desiderio che il padre ritornasse a stare con loro.

Invece, i sentimenti di Emma verso il padre non erano ambivalenti, sicché la ragazzina aveva reagito solo a una faccia dell’ambivalenza materna: a quella che desiderava la ricostituzione della famiglia, quella che coincideva con i suoi stessi

desideri. Perciò si era buttata (inconsciamente, beninteso) con tanta decisione a realizzarli, e le sembrava incomprensibile che la madre la criticasse. Emma, che viveva nel presente, non poteva nutrire preoccupazioni circa il suo futuro, come invece faceva la madre; quello che occupava tutto il suo animo era il dolore, reale e presente, per la perdita del padre.

La ragazzina non conosceva il padre, per esperienza diretta, nella sua veste di marito odi uomo adulto dai molteplici interessi fuori della famiglia. Per lei era essenzialmente suo padre: gli altri aspetti della sua vita rivestivano scarsa realtà.

Ora che si era spezzato il rapporto per lei così importante tra padre e figlia, non riusciva a pensare ad altro che al suo bisogno di ricostituirlo. Non era in grado di vedere il rapporto tra i suoi genitori quale realmente era; lo vedeva come un bambino desidera che sia. Visto da questa prospettiva, il ritorno del padre appariva molto più possibile e molto più facilmente realizzabile di quanto non sembrasse a sua madre. Perciò Emma si dispose a fare tutto quello che poteva perché il suo desiderio, che nella sua percezione coincideva con quello della madre, si realizzasse.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 81

Se un bambino è incapace di studiare

Pertanto, se a un bambino, che è incapace di studiare, perché inizialmente era stato portato a detestare lo studio e a farne il pretesto della sua ribellione contro i genitori, ma che ha rimosso il desiderio di ribellione perché lo trovava troppo angosciante, se a un tale bambino chiedessimo se vuole bene ai suoi genitori, egli risponderebbe di sì senza esitare. E direbbe la verità: infatti era stato appunto il suo amore per i genitori a provocare tanto risentimento all’idea che per loro fosse più importante il suo rendimento a scuola che non la sua persona. Tuttavia il bambino rifiuterebbe come assolutamente incomprensibile l’idea che non studiare o non stare attento in classe sia una forma di ribellione ai genitori, perché tale intenzione è ormai rimossa e quindi inaccessibile alla sua coscienza. E se gli si domandasse come mai non studia, visto che l’amato genitore lo vorrebbe tanto, quel bambino, del tutto sconcertato da una simile contraddizione, si limiterebbe a rispondere: “Vorrei studiare di più, ma non ci riesco.” E questo è davvero tutto quello che sa, a livello di coscienza. Di fronte a un paradosso del genere non stupisce che sia il genitore sia il figlio si sentanto così disorientati.

Ho in precedenza affermato che il bambino è fortemente influenzato dai processi inconsci del genitore; ma è altrettanto vero che il genitore, senza rendersene conto, reagisce in maniera significativa ai processi in atto nell’inconscio de figlio. Di norma, in molte altre situazioni, i genitori accettano come un proprio dovere la responsabilità di rispondere positivamente alla naturale mancanza di capacità tecniche e di conoscenze dei figli, e cercano di supplirvi risolvendo i problemi che i figli non sono in grado di affrontare da soli. Ma quando la loro ansia cosciente circa il futuro del figlio che va male a scuola viene accéntuata dalla sensazione inconscia che si tratti di un atto di ribellione nei loro confronti, allora è facile che pendano la pazienza. Avvertendo questo elemento di ribellione inconscia nel comportamento del figlio, i genitori tendono ad aumentare ancora di più le loro pressioni su di lui. Tali pressioni e l’intensità delle emozioni che vi stanno dietro, ben avvertite dal bambino, vengono da lui sentite come una prova di più che quello che importa veramente ai suoi genitori è solo il suo rendimento: conclusione che ferisce profondamente i suoi sentimenti. La ferita alimenta la sua inconscia ribellione, accentuandola, sicché ora prova risentimento non solo contro la scuola, ma anche contro il genitore. Il che, a sua volta, aumenta l’irritazione del genitore, e tutti si sentono sempre più infelici.

I tentativi di appianare la situazione ricorrendo a lezioni supplementari sortiscono di solito scarsi o comunque solo circoscritti risultati, perché il conflitto originario era tra il bambino e il genitore, e non tra il bambino e la scuola. Indipendentemente dai risultati che si possono ottenere mediante il supporto delle lezioni private, il conflitto inconscio sottostante potrà essere risolto soltanto dal genitore, che dovrà innanzi tutto smettere di assillare il figlio perché faccia meglio a scuola, e in secondo luogo, alleviarne la sensazione angosciosa che a lui, al genitore, stia più a cuore il suo rendimento scolastico che non la sua persona.

Una volta che i genitori abbiano riconosciuto dentro di sé che gli insuccessi scolastici del figlio sono dovuti al suo risentimento, basato sulla convinzione che ai genitori stiano più a cuore i suoi voti che non la sua individualità di persona che ha bisogni, desideri e angosce particolari, allora i loro sforzi per dimostrare al figlio quanto in realtà tengano a lui, lo amino e vogliano solo che sia felice, riusciranno a capovolgere la situazione. Solo a quel punto potrà risultare rassicurante per il figlio sapere che le preoccupazioni che i genitori nutrivano per il suo rendimento scolastico costituivano un aspetto poco importante (e anche, come ora hanno capito, sbagliato) della più generale preoccupazione per il suo benessere e la sua felicità. Se poi a tale presa di coscienza da parte dei genitori si accompagna anche, come di solito quasi automaticamente avviene, un mutamento del loro atteggiamento, il figlio ne verrà aiutato a prendere coscienza a sua volta delle motivazioni che gli avevano fatto rifiutare lo studio. Il fatto che i suoi genitori siano riusciti a comprendere tutti i meccanismi in gioco, elimina la necessità di mantenere rimosse le sue motivazioni: quello che i genitori possono accettare in lui, anche il bambino lo può accettare. Avendo acquistato una certa consapevolezza dei propri processi inconsci, le sue motivazioni tornano a essere accessibili al controllo cosciente, ed egli è libero, ora, di decidere se vuole o meno riuscire bene a scuola.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 89

Le motivazioni di nostro figlio

Forse i lettori si chiederanno che rapporto esiste tra il fatto di esserci formata un’idea delle motivazioni di nostro figlio e quello di interrogano o meno al riguardo. Ebbene, nel caso che approviamo le sue motivazioni, non c’è bisogno di fare domande. Per esempio: supponiamo che per un lodevole impulso di generosità nostro figlio desideri regalare uno dei suoi giocattoli preferiti, ma noi non possiamo permetterlo. In tal caso, basta che gli spieghiamo perché non può regalare quel particolare giocattolo, esprimendogli contemporaneamente il nostro apprezzamento per l’impulso generoso. E se pure ci sbagliamo nel valutare certe sfumature delle sue motivazioni, il bambino stesso sarà probabilmente ben felice di correggerci, perché la nostra spontanea approvazione gli farà sentire che lo capiamo. -La sua fiducia in noi ne verrà confermata e, cosa molto importante, lo indurrà a esser altrettanto aperto con noi in occasioni future.

Quando l’approvazione del genitore è impossibile, le cose cambiano. Allora diventa ancora più importante soppesare bene le motivazioni di nostro figlio, ma va valutato con la massima attenzione anche il grado di consapevolezza che egli stesso può averne. Se non possiamo approvare le sue ragioni, dobbiamo domandarci: che effetto avrà allora su di lui essere costretto a rivelarcele? Si sentirà a disagio? Si sentirà indotto a mentirei? E quando, sentita la sua risposta, saremo costretti a criticare quello che ci ha detto, questo fatto non lo indurrà a pensare che dire la verità ha conseguenze negative per lui?

Un caso ancona diverso è quello in cui l’adulto, oltre a disapprovane il comportamento del bambino, è incapace di immaginarsi le sue motivazioni. Se le nostre domande portano a risposte chiarificatrici, tanto di guadagnato, a un certo livello; ma a un altro livello nel bambino il bruciore per essere stato sottoposto a un interrogatorio rimane. Ammettiamo pure che egli ritenga di essere stato ascoltato senza pregiudizi e di avere avuto la possibilità di convincerci che aveva ragione, il che è un’ottima cosa; ma nessuno gli può togliere la sensazione che non l’avevamo capito, prima: altrimenti che bisogno avremmo avuto di porgli tante domande? Questo non accrescerà certamente il Suo rispetto per un adulto che dà prova di così scarsa immaginazione ed è così pronto ad attribuirgli motivazioni poco accettabili. Dunque, nella migliore delle ipotesi, la reazione del bambino sarà ambivalente: i miei genitori sono giusti, ma ci vuole una bella fatica da parte mia per farle mie ragioni; perché non si sono fidati che fin dall’inizio io sapessi quello che stavo facendo?

E poi, naturalmente, esiste sempre la possibilità che egli non sappia il perché delle sue azioni. Se le nostre domande obbligano nostro figlio ad ammettere di non sapere perché ha fatto una certa cosa, la nostra reazione sarà probabilmente di non credergli e di pensare che stia facendo dell’ostruzionismo. E il bambino scoprirà che il suo comportamento è incomprensibile non solo a lui stesso, ma anche agli adulti alla cui maggiore esperienza della vita è affidata la sua sicurezza. Risultato: una ulteriore diminuzione del rispetto del bambino per i suoi genitori e una maggiore riluttanza ad accettare la loro guida, dato che non sanno capirlo meglio di quanto egli stesso non sappia fare.

Dover ammettere pubblicamente di non conoscere le proprie motivazioni, anziché limitarsi a sospettano dentro di sé, è un’esperienza a dir poco imbarazzante per un bambino o un ragazzo. Se è costretto a riconoscere una cosa del genere come un dato di fatto, come potrà mai fidarsi di se stesso? Se ne sa così poco sulla propria persona e se i suoi genitori ne sanno poco più di lui, che speranze può avere di riuscire mai a comprendere se stesso e le proprie motivazioni? Come potrà comportarsi in modo più avveduto in futuro? Essere costretto a guardare in faccia la propria ignoranza circa se stesso incrina la fiducia in sé del bambino e inquina il rapporto con l’adulto, le cui domande lo hanno costretto a una così avvilente ammissione.

Inoltre, quando gli viene domandato perché ha compiuto una certa azione, il bambino che non lo sa ha tuttavia l’impressione che dovrebbe saperlo. Perciò, oppure perché non può ammettere con se stesso di non saperlo, le domande dell’adulto possono indurlo a mentire. Come osservò Oliver Goldsmith, “Non fatemi domande, e non vi dirò bugie”. Sentirsi costretto a mentire distrugge il rispetto di sé del bambino, lo fa séntire un impostore, se non peggio; e lo allontana dall’adulto, che con le sue domande l’ha fatto sentire così scontento di se Stesso.

Dunque, se non siamo arrivati da soli a formarci un’idea delle possibili motivazioni di nostro figlio, non possiamo prevedere se sarà in grado o meno di rispondere la verità, né possiamo prevedere le conseguenze indesiderabili che il nostro interrogatorio potrà avere. D’altro canto, se sappiamo in anticipo quale sarà la probabile reazione di nostro figlio, e ci sembra di conoscere con buona approssimazione quali debbano

essere state le sue motivazioni, allora interrogano non può avere altro senso se non quello di metterlo con le spalle al muro.

Riassumendo: se il bambino non sa quali sono le vere ragioni del suo comportamento, interrogarlo lo farà sentire impotente. insicuro e incerto circa la validità delle sue azioni. Se, avendo compreso le sue motivazioni, intendiamo svelargliele, sarebbe molto meglio per entrambi se lo facessimo senza prima fargli perdere la fiducia in se stesso. Se le ragioni di nostro figlio sono ai suoi stessi occhi riprovevoli, delle due l’una: o mentirà, a noi e forse anche a se stesso, che è molto peggio; oppure sarà costretto a rinnegare le sue ragioni, cosa che certamente non servirà a farci amare da lui né ad accrescere la sua fiducia di saper agire con intelligenza.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 115

Sforzarsi di metterci nei panni dell’altro

Avere una reazione empatica significa sforzarsi di metterci nei panni dell’altro, così che i nostri sentimenti ci facciano intuire non soltanto le sue emozioni ma anche le sue motivazioni. Significa comprendere l’altro dall’interno, non dall’esterno, come potrebbe fare un osservatore interessato o anche coinvolto, che cerchi di capire i motivi dell’altro con l’intelletto.

Freud parlò della simpatia che esiste tra l’inconscio di una persona e quello di un’altra, intendendo che è possibile comprendere l’inconscio di un altro solo attraverso il nostro. Non è possibile spiegare adeguatamente con le parole che cosa significa provare certe emozioni, come l’amore, la collera, la gelosia, l’angoscia, o certi stati emotivi come la depressione o l’esaltazione. Ma se li abbiamo vissuti a nostra volta, sappiamo come deve sentirsi l’altro, e allora ci sentiamo molto vicini a lui, lo comprendiamo molto meglio che se dovessimo basarci soltanto su quello che lui ci può dire. Pensino i grandi poeti per comunicare sentimenti molto profondi devono ricorrere al linguaggio simbolico; parlano per metafore e allegorie, perché non esiste espressione diretta atta a comunicare quello che vogliono comunicare. E noi, per arrivare al senso di una poesia, dobbiamo leggere anche tra le righe, dobbiamo affidarci a quello che le parole del poeta suggeriscono al nostro inconscio, rispondere ai simboli, alle allusioni, alle metafore.

Non possiamo aspettarci che i nostri figli sappiano dirci quello che provano nell’intimo, quello che succede nel profondo del loro animo, tanto più che in gran parte questi processi sono accessibili alla loro coscienza ed essi non possono idi formularli. Per comprendere che cosa li muove nel loro no dobbiamo affidarci alle nostre reazioni di empatia: mentre con la ragione cerchiamo di tradurre quello che vogliono dirci con le loro parole e azioni, il nostro inconscio, proiettandosi nell’oggetto contemplato, cercherà di coglierli in rapporto ai nostri vissuti personali, passati e presenti. Così facendo, potremo dire di capirli veramente, e nello stesso tempo scopriremo di capire meglio noi stessi.

Per meglio spiegare la natura e l’effetto terapeutico dell’empatia mi rifarò al caso di un ragazzino di otto anni, riferito dalla psicoanalista infantile Olden. Nei primi tempi della terapia, il bambino dettò all’analista un racconto che iniziava con “Mia madre è una figlia di… Mio padre è un figlio di… Mia madre è schifosa. La mia analista è schifosa e orrenda”, e proseguiva su questo tono. Era la violenta espressione della sua rabbia divorante, per cui era stato sottoposto a trattamento. Ben sapendo che l’analista non avrebbe reagito al suo scoppio di collera come erano soliti fare i suoi genitori, i suoi insegnanti e il resto delle persone, il bambino volle che fosse chiamato un altro adulto a leggere quello che aveva dettato: così l’analista avrebbe visto come reagiva di solito il mondo nei suoi confronti. Venne dunque chiamata una terza persona, che lesse il racconto molto attentamente e con grande simpatia. Non ricevendo la reazione scandalizzata e di condanna alla quale era abituato, il ragazzino disse in tono provocatorio: “È una bella storia, vero?” Al che la persona che aveva letto il suo irato messaggio rispose con grande compassione: “É una storia molto triste.”

L’imprevista risposta spiazzò il ragazzino, che considerava il suo racconto un attacco pieno di livore e di rabbia. Quando si fu riavuto dalla sorpresa volle sapere perché l’altra lo definiva triste, e si sentì rispondere che era triste, molto triste, perché mostrava quanto poco egli si amasse: un bambino deve odiarsi profondamente per vedere negli altri solo il male, ed essere così in collera con il mondo.

Provando a sentirsi come una persona che vomita rabbia contro coloro ai quali dovrebbe sentirsi più vicina, che più dovrebbe amare, la donna poté vivere dentro di sé le fonti più profonde dei sentimenti di quel bambino. Le risultò chiaro così che solo una profonda tristezza poteva spiegare una tale rabbia, la tristezza causata dalla disperazione per non essere capace di amarsi. Per il piccolo paziente il sentirsi compreso nei suoi sentimenti più profondi e il vederli accettati con simpatia, anziché rifiutati, come accadeva di solito, segnò l’inizio di un profondo cambiamento nel modo di vedere se stesso e il mondo. Un’analoga accettazione da parte della sua analista non avrebbe sortito il medesimo effetto, in quella fase iniziale della terapia; il bambino, infatti, era abbastanza intelligente da sapere che per l’analista accettare i pazienti faceva parte del suo mestiere. Ma il fatto che una persona che non aveva un simile obbligo e che praticamente non lo conosceva potesse capire che il problema non era l’aggressività come avevano sempre pensato gli adulti, bensì la tristezza, gli diede la speranza che prima o poi le persone per lui più importanti, i suoi genitori, potessero rispondere positivamente alla sua infelicità, invece che solo negativamente alla sua collera. Nessuna domanda, per quanto ben intenzionata, avrebbe potuto ottenere quel risultato: gli avrebbe solo confermato la convinzione che nessuno lo capiva e voleva capirlo.

Quel bambino di otto anni, pur così intelligente, non sarebbe potuto risalire alle sorgenti della sua rabbia divorante. L’intensità dei sentimenti di collera dei bambini costruisce una sorta di muro impenetrabile, che nasconde tutto ciò che vi sta dietro. È  un’esperienza che dovrebbe esserci familiare, giacché anche molte persone più mature sono incapaci di riconoscere le fonti della loro collera. E il motivo è che chi vive sotto l’influsso psicologico di sentimenti così intensi da dominare tutta la vita (in particolare se si tratta di sentimenti come la collera) è incapace di pensare razionalmente. Questa emozione riempie a tal punto tutto il loro essere che non riescono a prenderne le distanze abbastanza da comprenderne le cause.

Prendere le distanze da emozioni divoranti, penetrare al di là di esse fino alle loro origini è difficile anche per le persone mature. In realtà, l’esserne capaci è uno dei segni della vera maturità; una caratteristica fondamentale della maturità è appunto la capacità di uscire, per dire così, da se stessi e dalle proprie emozioni, anche le più intense, per contemplarle con imparzialità. Ma non tutti ci riescono, e non sempre, neppure quando è passata da un pezzo l’adolescenza. A maggior ragione dunque, se vogliamo capire nostro figlio quando è mosso da intense emozioni, dobbiamo cercare di comprendere con l’empatia quello che si agita nel suo intimo, e rispondere con il sentimento e con l’azione a quanto abbiamo in tal modo scoperto dentro di noi. Ma per poterlo fare, non dobbiamo permetterci di farci trascinare dalle nostre reazioni al comportamento manifesto del bambino o del ragazzo.

Il piccolo paziente della Olden poteva solo dire “Mi riempie rabbia!” e quel qualcosa che lo riempiva di rabbia era il suo conscio, era l’inconscio la sorgente della sua collera. Se gli fosse chiesto di essere più preciso, avrebbe potuto solo cavarne fuori delle razionalizzazioni, essendogli ignoto il contenuto del suo inconscio. Avrebbe oscuramente avvertito, però, le sue razionalizzazioni erano vuote, superficiali, marginali; e le domande dell’adulto non avrebbero fatto altro che accrescere la sua furia, perché l’avrebbero obbligato a riconoscere i limiti della sua comprensione di sé.

Oggi i genitori sanno, intellettualmente, che agiscono in noi potenti emozioni che determinano gran parte delle nostre azioni, e che possono occorrere anni di duro lavoro per portarle a livello di coscienza; sanno anche che questo non è un processo che si possa avviare a comando, anzi, esservi obbligati può rendere ancora più inaccessibile il materiale dell’inconscio. Dato che il motivo della rimozione di quei certi sentimenti era il fatto che riconoscerli sarebbe stato troppo angosciante o pericoloso, sentirsi chiedere di rivelarli accresce l’angoscia e dunque il bisogno di mantenerli rimossi. Come mai allora i genitori, che intellettualmente sanno tutte queste cose, all’atto pratico trovano così difficile agire di conseguenza? A mio avviso, il problema (come in quasi tutte le difficoltà che si creano tra genitori e figli) scaturisce dal desiderio cosciente da parte di noi genitori di avere intimità con i nostri figli, e dalla sensazione, inconscia, che essi possano essere veramente nostri solo se non ci tengono nascosto nulla: poiché si tratta di nostro figlio, non dovrebbe esserci nulla che lo riguardi, neppure la sua vita interiore, che ci possa sfuggire. Siamo disposti a riconoscere che nostro figlio ha un inconscio, ma, se è ammissibile che esso rimanga ignoto a chiunque altro, a noi, che siamo i suoi genitori, non può e non deve restare nascosto!

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 122

Quando ci rispondono “Non lo so”

Quando ci troviamo a un punto morto con nostro figlio e non riusciamo a evocare una reazione di empatia nei suoi confronti, dovremmo almeno cercare di provare simpatia per la posizione in cui egli si è venuto a trovare. Usando le nostre risorse di adulti possiamo proporgli noi una soluzione, assicurandoci, penò, nel caso che egli accetti il nostro suggerimento, che non lo faccia solo per compiacerci o per evitare altre discussioni. Per questo motivo è preferibile invitarlo a vagliare la nostra idea ed eventualmente a perfezionarla. In tal modo è più facile che escano fuori le sue vere reazioni, e inoltre si acuiscono le sue facoltà di giudizio critico, cosa che non avverrebbe ponendogli una domanda diretta. Invitandolo a reagire alla nostra idea (“Che cosa ne pensi?”), invece che ad accettarla semplicemente, o a difendere la sua, il bambino imparerà come funziona la sua mente e, dovendoli esprimere in parole e frasi intelligibili, si chiariranno anche a lui i suoi pensieri.

Ho già accennato a come la prospettiva di un adulto sia molto diversa da quella di un bambino, e a come sia spesso difficile, pertanto, immaginarsi per quali vie un bambino arrivi alle sue decisioni. Tuttavia, se ci sforziamo di vedere le cose dal suo punto di vista, e quindi offriamo i nostri suggerimenti facendogli capire che il nostro modo di ragionare coincide in parte con il suo e che approviamo, o quanto meno non siamo inclini a disapprovare, le sue intenzioni, allora il bambino sarà felice di dirci liberamente quello che ha in mente.

Ma quando siamo in collera, qualcosa nel modo in cui esigiamo le sue spiegazioni gli dà l’impressione che nutriamo delle riserve sulle sue idee, se già non le disapproviamo. Qualunque bambino sa leggere la disapprovazione nel tono di voce del genitore, nell’espressione del viso, nell’atteggiarsi del corpo e in altri segnali subliminali che noi non ci accorgiamo di emettere, ma ai quali i bambini sono estremamente sensibili. Se nostro figlio teme una reazione negativa a quello che sta per dirci, non riuscirà a rispondere serenamente alle nostre domande, anzi potrebbe turbarsi al punto da non sapere più quali fossero le sue intenzioni. È raro trovare un bambino talmente sicuro di sé e del suo rapporto con il genitore da essere libero da questa forma di ansia. Anche se non è mai stato criticato in precedenza, il bambino vive qualunque critica come rivolta non semplicemente a quello che pensa o che fa in quel momento, ma alla persona che è. Perciò la maggior parte dei bambini espongono agli adulti i loro pensieri con un certo timore che possano essere trovati carenti o pensino con la paura di essere rimproverati o puniti per averli albergati. Tale paura è l’altra faccia del bisogno di approvazione; quello che più di tatto preoccupa il bambino è che lo si faccia sentire inadeguato o cattivo dove a lui inizialmente non pareva di esserlo; e tutto per aver dato voce ai suoi veri pensieri.

Con una preoccupazione del genere è difficile uscire allo scoperto con le proprie opinioni; perciò il bambino le modifica, in modo da non dare adito a obiezioni da parte di chi lo interroga. Spesso si rende conto di non stare dicendo esattamente quello che pensa; altre volte invece non è consapevole di avere censurato i suoi pensieri per renderli più accettabili al genitore. Anche molti adulti non sono del tutto consapevoli di dare una versione opportunamente riveduta, né del perché lo fanno, e quanto più un individuo è giovane, tanto più frequentemente succede così.

Il fatto di non essere coscienti del perché stiamo facendo una certa cosa non significa però che essa non susciti in noi dei sentimenti; significa solo che non ce li sappiamo spiegare, quanto la loro logica si vede negato l’accesso alla coscienza.

il bambino che, per tener buono il genitore, non dice o modifica le sue ragioni per aver voluto fare una certa cosa, prova irritazione con se stesso e risentimento per il genitore, perché non riesce a essere sincero e coraggioso come vorrebbe: l’ansia circa la possibile reazione del genitore glielo rende impossibile suo malgrado. Nel timore che disapproviamo quello che per dirci, cambia idea e risponde alla nostra domanda con “Non lo so”. Una risposta del genere, pensa, è neutra e dunque non può farci arrabbiare. E invece il più delle volte ci fa arrabbiare moltissimo, perché la prendiamo come un rifiuto a risponderci, e perché ci fa pensare che nostro figlio o è così stupido da non sapere quello che fa, o non si fida di noi abbastanza da confidarsi.

In verità, il più delle volte, “Non lo so” è la descrizione corretta dello stato di confusione in cui si trova nostro figlio, e non una scusa o un modo di evadere la nostra domanda. Può darsi che inizialmente sapesse benissimo che cosa stava facendo e perché, e fosse anche convinto della bontà della sua azione e dei suoi motivi. Ma il modo in cui lo abbiamo interrogato in proposito gli ha fatto intendere che noi lo disapproviamo, e ora ha le idee confuse: quello che fino a un momento prima sembrava giusto, ora improvvisamente non lo sembra più molto; e il bambino si sente preso tra due fuochi.

Noi genitori dobbiamo renderci conto di quanto siamo importanti per i nostri figli: non appena avvertono la nostra disapprovazione, subito diventano insicuri circa le loro opinioni. Quello che al bambino sembrava giusto, ora appare sbagliato, e non perché sia mutata la sua percezione di quell’azione, bensì perché essa ha provocato la disapprovazione del genitore. A questo punto egli non sa più quello che pensa: la sua azione rappresentava, a suo modo di vedere, la corretta risposta alla situazione per come la viveva lui, ma ora si scopre che era sbagliata, visto che Io mette in conflitto con il genitore. E un problema che non riesce a sbrogliare: la sua mente immatura non è in grado di comprendere la relatività dei punti di vista; il bambino sa soltanto che una cosa non può essere contemporaneamente giusta e sbagliata; di conseguenza è realmente e completamente sconcertato.

Ecco dunque che le nostre domande, che avevamo posto per il desiderio di capire meglio nostro figlio, provocano solo confusione in lui come in noi. Poiché “Non lo so” è una dichiarazione di incompetenza, il fatto di dovere rispondere così riempie il bambino di risentimento, e siccome la sensazione di essere ignorante e inetto gli è venuta in seguito alle nostre domande, egli dà a noi, che gliele abbiamo rivolte, la colpa dello stato di confusione in cui si è venuto a trovare.

Anche un genitore si sente sconfitto e irritato quando il figlio risponde alle sue domande con un “Non lo so”. In qualunque altra situazione, quando nostro figlio dichiara la sua ignoranza siamo più che disposti a colmargliela, perché sappiamo che è naturale che un bambino sia ignorante o confuso su tante questioni. Anzi, di solito ci piace l’idea di essere la principale fonte di informazione di nostro figlio. Invece quando, disapprovando il suo comportamento, gliene chiediamo conto e ci sentiamo rispondere “Non lo so”, tendiamo a scartare l’idea che possa aver agito senza sapere perché, e non prendiamo in considerazione la possibilità che sia davvero incapace di rispondere alla nostra domanda perché le sue ragioni sono sepolte nel suo inconscio.

Dal canto suo il bambino avverte, sia pure oscuramente, che è la grande importanza che il genitore riveste ai suoi occhi a rendergli impossibile rispondere altro che “Non lo so”. E trova ingiusto essere rimproverato per una risposta che il genitore stesso ha provocato. Sotto questo profilo, il bambino si mostra più perspicace dei suoi genitori, che nella sua risposta colgono solo l’esasperante ostinazione di chi non vuole dire quello che desiderano sapere, e non sanno vedere la ragione che vi sta dietro: la soverchiante importanza che le loro opinioni rivestono agli occhi del figlio, che gli impedisce di dire qualcosa che teme possa fan loro dispiacere o imitarli.

Una situazione analoga si crea quando nostro figlio a nostro avviso non rende abbastanza, a scuola per esempio, e alle nostre domande risponde “Non ci riesco”. Mentre in altre occasioni, quando nostro figlio ci dice di non saper fare una cosa reagiamo quasi sempre con accettazione e simpatia, qui le cose sono diverse. Il nostro atteggiamento è già in partenza di critica negativa, e la risposta di nostro figlio non può che essere evasiva. Il bambino infatti avverte il nostro atteggiamento di critica e vi reagisce, non necessariamente a livello conscio, con una diffidenza e una resistenza, che vanno ad aggiungere nuove frecce all’arco della nostra disapprovazione. Gli sembra che non accetteremo per buone le sue ragioni, dunque perché esporcele? Meglio confessare di non essere capace che non di non averne voglia; e beninteso in molti casi l’incapacità esiste davvero, anche se spesso è dovuta a cause inconsce.

Se vogliamo che nostro figlio ci dia la versione autentica, dobbiamo comunicargli, con il tono di voce, con l’atteggiamento, con la formulazione stessa delle nostre domande, che prenderemo per buona la sua risposta. Allora non si sentirà Costretto a cercare delle scuse o a pretendere ignoranza o incapacità. Reso sicuro dalla nostra sincera disponibilità, sarà felice di alimentarla chiarendo a noi (e a se stesso) quello che pensa.

Si daranno sempre dei casi, tuttavia, in cui, pur riuscendo comprendere, grazie alla nostra capacità di empatia, le ragioni di nostro figlio e a comunicargli la nostra comprensione, ma potremo onestamente associarci alla sua visione delle cose, o approvare la sua condotta. Ma se il bambino, o il ragazzo, sicuro della nostra buona volontà, riuscirà anche ad accettare la nostra guida con uno stato d’animo positivo. Forse le nostre obiezioni non gli faranno piacere, ma non si sentirà sconfitto; e se, come è nostra speranza, modificherà le sue idee e la sua condotta, non lo farà per paura, ma per amore, non perché terne la nostra disapprovazione o un castigo, ma perché desidera conservarsi la nostra stima. È davvero incredibile come si sia pronti a fare qualunque sacrificio pur di meritarci il rispetto e la disponibilità delle persone che per noi sono importanti e che sappiamo essere in sintonia con il nostro modo di pensare e di sentire. Gli stessi sacrifici invece ci costano moltissimo, se vi ci sentiamo costretti da persone della cui buona volontà dubitiamo. Nel primo caso è un piacere e dunque di solito ci viene bene, nel secondo è al massimo un dovere spiacevole, e il più delle volte ci riesce a metà.

Visto che è così difficile evitare le situazioni che possono provocare in risposta un “Non lo so”, è molto meglio non interrogare mai un bambino o un ragazzo sulle sue ragioni. Anche ammesso che conosca le proprie motivazioni, è sempre preferibile non domandargliele, perché, anche se da parte nostra non c’è l’intenzione di criticarlo, lui potrebbe credere altrimenti. Il fatto è che, nell’esperienza di quasi tutti i bambini e i ragazzi, è raro che gli si chieda di dare spiegazioni circa un comportamento che approviamo pienamente. Per esempio, non è nelle nostre abitudini chiedere a nostro figlio: “Perché hai studiato così tanto per prendere quei bellissimi voti a scuola?” Gli domandiamo: “Perché non hai fatto i compiti?” e non: “Perché sei venuto a fare i compiti quando ti stavi divertendo così tanto a giocare con i tuoi amici?” Raramente, per non dire mai, chiediamo: “Perché sei così gentile con tuo fratello?” o: “Perché hai messo in ordine così bene la tua stanza?” Saremo anche prodighi di lodi con nostro figlio quando si comporta bene, ma è improbabile che ci venga in mente di domandargliene le motivazioni (benché esse possano essere altrettanto complesse e persino altrettanto preoccupanti di quelle che sottendono a una cattiva condotta). I nostri figli, dunque, sanno bene che nei nostri “Perché?” è implicita una sfumatura di disapprovazione.

Imparare a mentire

Neppure quando un bambino è così sicuro di sé o così certo di essere nel giusto da essere in grado di spiegare le sue ragioni, le cose vanno sempre lisce. Supponiamo che nostro figlio abbia picchiato un compagno; noi gli chiediamo perché l’ha fatto, e lui in tutta sincerità ci risponde che l’altro se lo meritava: “L’ha voluto lui.” Se lo interroghiamo più a fondo, ci spiegherà che l’altro lo ha fatto arrabbiare, l’ha provocato.

A questo punto molti genitori reagiranno dicendo che non bisogna lasciarsi provocare (benché essi stessi possano a volte trovare difficile mettere in pratica questa massima), o che arrabbiarsi non è un motivo sufficiente per mettersi a menare le mani. In ogni società civile, la violenza fisica va evitata il più possibile. Ma quello che è possibile per un adulto supera speso la capacità di autocontrollo di un bambino, perché è diverso il grado di maturità, la misura in cui riesce a padroneggiare gli impulsi. Quando i genitori se ne escono con massime di questo genere, tutto quello che il bambino ricava da questa esperienza è che suo padre o sua madre non lo capiscono; ma può anche concluderne: “Quando gli dico sinceramente perché ho fatto una certa cosa, l’unica ricompensa che me ne viene in cambio è sentirmi dire che ho torto!” E sorprendente quante esperienze di questo genere collezioni in pochi anni di vita un bambino normale: e ogni volta impara che la conseguenza della sua sincerità è essere criticato dalla persona per lui più importante. Se tale è stata l’esperienza del bambino, gli sarà difficile resistere alla tentazione di ricamare sui fatti, per renderceli più appetibili, essendo convinto che non si può permettere di dirci la verità nuda e cruda.

Una delle spiegazioni che i bambini più comunemente danno per aver picchiato un compagno è: “E stato lui a cominciare!’ Non si tratta del tentativo di scaricare sull’altro la colpa (come alcuni genitori potrebbero pensare), bensì di una descrizione veritiera della situazione psicologica che si è creata: il comportamento dell’altro ha provocato una tale marea di emozioni molto intense, che la capacità di controllarsi ne èstata sopraffatta. Il genitore, che ha potuto notare come l’altro bambino non abbia picchiato per primo, dirà probabilmente “Non è vero!’, intendendo che l’altro non gli ha dato motivo di rispondere con le botte; ma dal punto di vista del bambino motivi ce n’erano in abbondanza. Può anche darsi che un adulto riesca in genere. a mettere in pratica il principio della non-violenza, ma ci sembra realistico aspettarsi il medesimo autocontrollo da parte di un bambino?

Il problema, in questo e in molti altri casi, è che il genitore, avendo valutato la situazione dal proprio punto di vista e stabilito come reagirebbe lui, si aspetta chissà come che lo stesso faccia suo figlio. Ma il bambino è molto più sensibile alle proprie emozioni e molto meno capace di  controllare i propri impulsi. Persino il codice penale prende in considerazione l’atteprie emozioni e molto meno capace di controllare i propri imnuante della diminuita capacità di autocontrollo, e non dovremmo farlo noi, che siamo dei genitori, invece di pretendere che i nostri figli mostrino una padronanza di sé superiore alla loro età?

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 127

Segreti e bugie (Leigh, 1996)

Segreti e bugie

di Mike Leigh. Ratings: Kids+16, durata 141′ min. – Gran Bretagna 1996.

INDICE

TRAMA

RECENSIONE

Trama

Hortense, una giovane optometrista di colore, all’indomani della morte dei genitori adottivi decide di conoscere le proprie origini e, per questo, si rivolge ai servizi sociali che, in base alle leggi vigenti, le forniscono le informazioni utili per risalire all’identità dei genitori biologici. La sua madre naturale è Cynthia, un’operaia bianca che vive con la figlia Roxanne – anche lei nata da un rapporto occasionale – in una cadente casa nei sobborghi londinesi. Madre e figlia sono in continuo conflitto: Roxanne, insoddisfatta del suo lavoro di netturbina, sfoga la sua frustrazione su Cynthia, depressa per natura e ossessivamente preoccupata per la vita sessuale della figlia, fidanzata con l’introverso Paul.

Intanto Maurice, fratello di Cynthia, si divide tra il suo lavoro di fotografo e l’agiata ma triste vita coniugale con Monica, una donna nevrotica, depressa a causa della sterilità, un fatto, questo, che forse ha contribuito ad allontanare anche affettivamente Maurice e Cynthia. Il ventunesimo compleanno di Roxanne sembra l’occasione buona per riunire la famiglia ma, proprio pochi giorni prima della festa, Hortense rintraccia Cynthia, dapprima sospettosa (visto il differente colore della pelle della ragazza), impaurita e diffidente verso questa parte rimossa del suo passato, poi sempre più coinvolta da un rapporto che soddisfa il suo bisogno di affetto.

Gli incontri tra le due donne si susseguono frequenti, naturalmente all’insaputa di tutti e, quando giunge il giorno della festa, Cynthia invita anche Hortense, presentandola come sua amica. Tutto si svolge nella più assoluta normalità e cordialità fino a quando Cynthia non riesce più a tenere per sé la reale identità di Hortense: tra lo sconcerto generale Roxanne abbandona la festa e solo l’intervento di Maurice riesce a farla tornare in sé. La giornata si conclude all’insegna delle reciproche confessioni (Cynthia parla a Roxanne dell’uomo dal quale l’ha avuta e Monica confessa alla cognata di essersi allontanata da lei a causa dell’impossibilità di avere figli) e di una definitiva riconciliazione della famiglia cui appartiene, ormai non più soltanto biologicamente, anche Hortense. Un’ultima sequenza vede Roxanne e la sorellastra, ormai diventate amiche, chiacchierare nel giardino della vecchia casa di Cynthia sotto lo sguardo sereno di quest’ultima

recensione

Sguardi al di là delle maschere

Segreti e bugie è stato il film che ha permesso al grande pubblico di conoscere il talento di Mike Leigh, regista appartato della scena inglese (almeno fino a questo clamoroso successo di critica e pubblico) capace di esprimere le inquietudini della società contemporanea attraverso storie e personaggi comuni e al tempo stesso emblematici. Attraverso il suo stile semplice ed efficacissimo, che alterna abilmente momenti nei quali prevale uno sguardo distaccato e ironico ad altri in cui è capace di avvicinarsi ai personaggi per rivelarne con sensibilità il lato più intimo, Leigh affronta il tema della difficoltà dei rapporti umani, dell’incomunicabilità, del gioco delle apparenze e delle formalità dietro cui ciascuno si trincera per non esporsi al giudizio o all’invadenza degli altri. Ma non solo: un’idea di quanto ampio sia il ventaglio delle questioni affrontate in questo film ce la offrono le prime due sequenze, quella in cui Hortense partecipa al funerale della madre adottiva e la successiva dove Maurice è alle prese con una cerimonia nuziale, una delle tante a cui assiste, dato il suo mestiere di fotografo.

Due immagini che evocano parentele, formalità, celebrazioni, ma anche – guardando solo un po’ più in là della superficie – legami di sangue, sentimenti, figli, ricordi rimossi, la vita intera con il suo portato di aspettative spesso deluse e il rapporto inevitabile con la morte. Dal punto di vista della struttura narrativa il film è costruito in maniera esemplare: la prima parte è occupata dalla presentazione dei cinque personaggi principali (Hortense, Maurice, Roxanne, Cynthia e Monica) ognuno alle prese con la sua occupazione, con il suo lavoro; la parte centrale sull’intrecciarsi delle loro storie attraverso incontri a due a due che chiariscono via via la natura dei rapporti che li uniscono (ma, soprattutto, delle distanze che li separano); quella finale, interamente dedicata alla festa di compleanno (“corale” anche grazie all’uso di inquadrature totali che creano un senso di attesa nello spettatore per la rivelazione della verità) è una resa dei conti in forma di dramma collettivo durante il quale cadono tutte le maschere e le finzioni.

Se la relazione tra Cynthia e Hortense è sicuramente centrale e risolutiva ai fini drammatici, le altre sono tutt’altro che accessorie: ad esempio, Monica con la sua sterilità, i suoi imbarazzi, la sua casetta leziosa, è l’esatto opposto della cognata Cynthia che vive in un’abitazione cadente, è goffa ma spontanea e fin troppo prolifica; allo stesso modo la rabbia repressa, il rancore, l’inquietudine proletaria di Roxanne sono all’opposto della pacatezza, della dignità e dell’equilibrio borghese di Hortense. Del resto Leigh dissemina il suo film di una serie di indizi, di piccole notazioni curiose e apparentemente prive di senso che nel corso del racconto assumono un valore emblematico. Un esempio per tutti le professioni di Maurice e Hortense: il primo, con le sue fotografie, fissa l’immagine pubblica delle persone, ufficializza “visivamente” unioni e relazioni nella loro veste più convenzionale ma, allo stesso tempo, tenta in ogni occasione di tirare fuori da ognuno la parte migliore, più positiva; la seconda aiuta gli altri a vedere meglio, a guardare meglio la realtà al di là dei veli che le si frappongono. Non è forse ciò che faranno rispettivamente Maurice che con pazienza ritesserà la rete dei rapporti tra i vari membri della sua famiglia (proprio come un buon padre, come affermerà al termine della festa la sua segretaria, coinvolta suo malgrado nel trambusto creato dalle rivelazioni di Cynthia) e Hortense, che con la sua comparsa fa cadere le ipocrisie che gravano sui rapporti tra i vari componenti del nucleo familiare? (minori.it)

I temi del Film

Il ritorno del rimosso
Il segreto di Segreti e bugie (che, paradossalmente, aveva avuto come titolo di lavorazione The Truth, ovvero “La verità”) è anche quello di saper rovesciare gli stereotipi (come, ad esempio, quello del confronto tra i relativi livelli di benessere – nell’accezione più ampia del termine – di bianchi e neri risolto nettamente a favore dei secondi) e di saper parlare con chiarezza, senza scadere nel didascalico, delle molteplici cause di crisi dell’istituto della famiglia nella nostra società. Il nucleo dolente è, evidentemente, il rapporto tra genitori e figli: figli che arrivano troppo presto nella vita dei protagonisti (come nel caso di Cynthia), che non arrivano mai (Monica e Maurice), che tornano nei momenti meno opportuni (Hortense) o che, al contrario, vorrebbero andare via per sempre (Roxanne). Il ventaglio delle possibilità, pur essendo ampio, contempla solo gli estremi: come nel caso di Cynthia che, nella sequenza in cui “riconosce” Hortense dopo aver escluso categoricamente la possibilità di un legame di sangue, addirittura mostra di aver dimenticato (rimosso) la persona e l’occasione (una violenza sessuale) del concepimento, o, al contrario, come in quello di Monica, sterile eppure condannata dal proprio corpo, ad ogni mestruazione, a ricordarsi dolorosamente di essere capace di concepire, ma soltanto in teoria.

Dall’altro lato si scontrano due immagini filiali altrettanto opposte: da un lato Roxanne che, come la maggior parte dei figli, sa solo guardare ai lati negativi dei genitori e che, nel rapporto con Cynthia, riversa le proprie frustrazioni, dall’altro Hortense, figlia adottiva che, dopo la morte dei genitori putativi (paradossalmente “più adatti” ad accoglierla di quanto non fosse Cynthia perché di colore come lei), sente la necessità di conoscere le proprie origini biologiche, andando incontro al rischio di scontrarsi – come poi avviene in effetti – con una realtà molto lontana da quanto avrebbe potuto immaginare. Con la sua pelle nera, il suo garbo e la sua gentilezza, la sua normalità (anche e soprattutto dal punto di vista fisico, in confronto agli altri personaggi, tutti connotati da tic, ossessioni, fisionomie strambe o eccessive), Hortense rappresenta il cosiddetto “ritorno del rimosso”. Concretamente e coerentemente con il suo status di figlia illegittima non riconosciuta e successivamente adottata, ovvero in quanto frutto di un “errore” di gioventù che è stato nascosto e si è voluto occultare, dimenticare, ma anche come ritorno, come venire nuovamente a galla di sentimenti, relazioni, affetti messi a tacere o, più banalmente, ignorati più per abitudine che non per malvagità. Paradossale, dunque, che proprio lei, disconosciuta e adottata, “figlia del peccato”, sia la più “normale” e, in fondo, la più forte rispetto a tutti gli altri personaggi e che proprio a lei tocchi il compito di riportare alla luce una serie di emozioni accantonate, di far scoppiare il dramma che poi, fortunatamente, si risolverà positivamente. (minori.it)


 

È nato un papà

È nato un papà

 

 

 

Quando nasce un figlio, nascono anche una madre ed un padre insieme a lui.

 

Quindi anche per i papà la nascita di un figlio genera gioie, dubbi, insicurezze e domande “come sarà nostra/o figlia/o? Che padre sarò? E che madre sarà la mia compagna? Come saremo tutti insieme? Cosa cambierà nel rapporto di coppia?”

 

Tali emozioni possono essere anche condivise con altri papà, ecco perché il Centro “Tempinsieme zerotre” intende favorire la nascita di gruppi per papà.

 

Questo percorso vuole dare voce al dialogo interiore dei padri, che se non ha un luogo in cui uscire allo scoperto, talvolta rischia di generare vissuti di inadeguatezza, di ansia, di insofferenza, ecc.

Il gruppo dei padri vuole essere un luogo accogliente e non giudicante in cui consegnare  i propri vissuti e le proprie attese rispetto alla paternità.

Sarà quindi uno spazio di dialogo e di confronto fra chi sta vivendo un’esperienza simile, in cui ognuno avrà la possibilità di portare la propria irripetibile e irriducibile unicità.

 

Il gruppo è rivolto a chi sta per diventare papà oppure a chi lo è appena diventato.

 

Insieme esploreremo alcuni temi centrali nell’esperienza del “diventare padri”:

• le fantasie e le aspettative verso il figlio che sta per nascere o che è  appena nato

• che padre sono  e vorrei essere per mio figlio?

• mio  padre e  la mia esperienza di figlio

• essere genitore

 

I gruppi saranno condotti da Walter Brandani, insegnante, educatore professionale e mediatore familiare.

Indirizzo email: info@walterbrandani.it

Sito internet:     www.walterbrandani.it

 

Primo incontro: martedì 8 maggio

Dalle ore 20.45 alle ore 22.15

Cadenza: un incontro al mese

Presso:

il Centro Tempinsieme zerotre – Castello Monteruzzo a Castiglione Olona

Informazioni e iscrizioni:

Walter Brandani, via email: info@walterbrandani.it      cell:  3470128839

Oppure Segreteria Gqp: via email: gqpquasiperfetti@libero.it    cell. 340 4534516

Il ragazzo con la bicicletta ( Dardenne 2011)

di J.Dardenne, L. Dardenne.  Titolo originale Le Gamin Au Vélo., Ratings: Kids+13 , 87 min. – Belgio, Francia, Italia 2011.

 

 

INDICE

1)RECENSIONE: un film sull’affidamento

2)RECENSIONE: RACCONTARE L’INFANZIA INCOMPRESA

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

4)TRAILER – SCENE FILM



1)RECENSIONE: un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore

Cyril, dodici anni, vive in comunità. È alla disperata ricerca del padre che ha cambiato casa e numero di telefono e non si fa vivo da diverso tempo. Non si capacita del fatto che sia sparito nel nulla e non gli abbia nemmeno lasciato la bicicletta cui teneva molto. Gli educatori cercano in tutti i modi di convincerlo a desistere dalla sua ricerca, ma Cyril è testardo, non ascolta nessuno e un giorno scappa dalla comunità per raggiungere in autobus la vecchia casa del genitore e scoprirla ormai disabitata. Quando arrivano anche gli educatori, il ragazzo cerca ancora di fuggire, rifugiandosi in un vicino studio medico. Qui, come ultimo e disperato gesto di resistenza, si aggrappa al corpo di una giovane signora e la abbraccia con tutta la forza che ha.

È in questo primo e provvisorio abbraccio che prende senso e valore l’ultimo film dei fratelli Dardenne. Il Cyril de Il ragazzo con la bicicletta è fratello minore dei tanti adolescenti o giovani che hanno attraversato nel corso degli ultimi quindici anni il cinema dei due registi belgi dall’Igor de La promesse (1996) alla giovane Rosetta (1999), dal Francis de Il figlio(2002) ai poco più grandi Bruno de L’enfant – una storia d’amore (2005) e Lorna de Il matrimonio di Lorna (2008). Con loro condivide l’ostinazione nel perseguire un sogno o un progetto, un’autonomia obbligata da un mondo adulto assente o infantile che lo circonda, il desiderio represso e soffocato di costruire relazioni e affetti, la fatica di sopravvivere a eventi o tragedie inattese, l’accesso quasi inevitabile al mondo della criminalità. A distanziarlo da loro (e a rendere meno cupo il film), giunge però già nelle prime battute della storia questo gesto di improvvisa e gratuita vicinanza con un altro essere umano. Una vicinanza che Cyril non sa ancora elaborare, ma che di fatto diventerà la sua vera ancora di salvezza, la direttrice di senso che lo sosterrà anche nei momenti più difficili. La donna che abbraccia si chiama Samantha, è una parrucchiera senza figli che si dimostra subito attenta alle sorti del ragazzo: riesce a recuperargli la bicicletta, accetta di ospitarlo a casa sua durante i weekend, lo aiuta nella ricerca disperata del padre. Quando finalmente i due trovano il giovane uomo e scoprono che non ha nessuna intenzione di prendersi cura di Cyril è Samantha la persona che sta accanto al dodicenne e assiste all’unico vero sfogo rabbioso del ragazzo, trattenendolo da gesti autolesionisti con un secondo e ancor più significativo abbraccio. La condizione di Cyril non migliora immediatamente, anzi i “quattrocento colpi” che egli, come quasi ogni ragazzo della sua età, è disposto a sperimentare, lo condurranno nelle braccia di un piccolo delinquente e da qui al coinvolgimento in un’arruffata e tragica rapina. E tuttavia, grazie all’intermediazione della donna e al suo modo di porsi non autoritario ma deciso e presente, Cyril troverà qualcuno disposto ad accompagnarlo nei suoi giri in bicicletta e, fuor di metafora, di offrirgli quell’affetto di cui ha bisogno.
Il ragazzo con la bicicletta è insomma un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore da parte di un adulto, un film su una vocazione all’accoglienza e sulla difficoltà di riconoscerla questa accoglienza da parte di chi ha bisogno. Ma è anche un film che riflette su una genitorialità che sembra sempre più allontanarsi dai vincoli di sangue, specie in situazioni di disagio e degrado, di povertà e assenza di prospettive. I Dardenne, da questo punto di vista, proseguono con coerenza e testardaggine – la stessa dei loro personaggi – un discorso sull’essere umano, sulle condizioni di povertà che la società contemporanea gli costruisce attorno e sulle possibilità di riscatto a cui può accedere attraverso un gesto, uno sguardo, un sentimento gratuito. E se in quest’ultimo film si possono riscontrare alcune debolezze sul piano della sceneggiatura e un minor rigore sul piano della rappresentazione visiva (viene meno per esempio l’uso frenetico della camera a spalla, la grana della pellicola è più pastosa segno di un abbandono forse definitivo al 16mm) è altrettanto vero che pochi altri cineasti avrebbero saputo trattare una materia pluricodificata – a partire dal titolo che allude a Ladri di biciclette di De Sica e ad una prima parte del film che ricorda molto il capolavoro di Truffaut I quattrocento colpi – con una certa originalità di tocco e di scrittura. “Affidarsi” ai Dardenne, anche in questo caso, significa mettersi nelle mani di cineasti che intendono indagare il reale e i suoi anfratti più oscuri e drammatici per elevarli a possibili territori di riscatto. Come avveniva nel cinema di Robert Bresson a cui i fratelli belgi sembrano guardare con sempre più sentita adesione.

Marco Dalla Gassa MINORI.IT
2)RECENSIONE:

Raccontare l’infanzia incompresa    

Di Marzia Gandolfi   –    mymovie.it

 

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’Enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore.

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

Autore: Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Dov’era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell’israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall’istituto e una volta fuori, montare sull’unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L’immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l’amore del padre, l’amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l’ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l’unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano. È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L’enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell’estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un’ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s’illumina del sorriso dell’infanzia.

4)TRAILER

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Super 8 (Abrams, 2011. Età dai 12 anni)

INDICE
SINOSSI
RECENSIONE
TRAILER

SINOSSI
Super 8
Un film di J.J. Abrams. Fantascienza, Ratings: Kids+13, durata 112 min. – USA 2011.

Ohio, estate del 1979. Nel tentativo di girare un scena particolarmente efficace per un film in super 8 da mostrare ad un festival provinciale, un gruppo di ragazzi è involontariamente testimone di un terribile disastro ferroviario dal quale “qualcosa” fugge.
La questione è talmente importante che la loro cittadina si riempie di militari intenti ad indagare mentre misteriosamente dalle case spariscono oggetti tecnlogici, persone e cani. Alla fine starà ai ragazzi riuscire a mettere insieme i pezzi di una storia che procederà comunque, con o senza il loro intervento, e dalla quale dovranno uscire vivi.
“Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù! Ma chi li ha?” dice Richard Dreyfuss nella scena finale di Stand By Me, riassumendo nel 1986 il senso di una stagione del cinema americano che si andava chiudendo dopo aver messo al centro dell’immaginario cinematografico il mondo della preadolescenza di provincia e aver creato un vero e proprio sottogenere. Cuore e motore di quell’ondata fu Steven Spielberg, a lui e ai primi film della sua Amblin Entertainment è esplicitamente ispirato Super 8.
Al suo terzo film J.J. Abrams gira la sua opera più complessa, l’unica in grado di fondere le molte diverse ossessioni della sua carriera anche televisiva. Partendo dall’idea di aderire agli stilemi e all’estetica di certo cinema spielberghiano (i ragazzi, le biciclette, la provincia, la fine degli anni ‘70, i problemi con i padri…), gradualmente Abrams contamina il suo film-omaggio di elementi personali. Invece che immedesimarsi totalmente e girare un film amblin al 100% Abrams sceglie di non rinunciare ai suoi controluce che provocano bagliori lenticolari, al suo gusto per la gestione del mistero, ai filmini d’epoca che rivelano segreti, al grande incidente o all’utilizzo di figure mostruose come metafora delle paure (come avveniva già nel Cloverfield da lui prodotto e nell’unica puntata di Lost di cui è stato regista, quella pilota).
Super 8 non va quindi considerato come la riproposizione di una storia e un modo di fare cinema vecchi di 30 anni, ma la messa in scena del cinema di Spielberg visto dagli occhi di Abrams. Infatti mentre nella prima parte il film abusa di topoi Amblin, nella seconda, quella in cui alla descrizione dello scenario si sostituisce l’avvicinarsi dell’incontro ravvicinato, comincia a dosare quello, applicandolo solo in certi punti (l’inquadratura rivelatoria della bacheca con tutti gli annunci di cani scomparsi e il particolare anatomico della creatura che si svela solo a distanza ravvicinata gridano Spielberg a squarciagola).
Se c’è invece qualcosa che davvero marca la separazione tra il cinema di oggi e di ieri, tra Abrams e Spielberg, è il modo in cui i due guardano al cielo. La meravigliosa speranza, poesia e commozione con la quale il regista di Incontri ravvicinati del terzo tipo aspettava i suoi alieni buoni è totalmente assente, al suo posto uno sguardo che più che essere rivolto in alto guarda in basso. Gli alieni moderni di Abrams hanno il medesimo ruolo di quelli di District 9 o Monsters, sono lo specchio delle barbarie umane e non delle loro aspettative più alte. Citazionismi e ricalchi a parte, alla fine il senso dell’operazione è dimostrato dalla capacità di raccontare una piccola storia che si inserisce in una più grande. Super 8 ha il merito di riuscire a ricongiungere trama e personaggi alla maniera di E.T.. Uno stile fondato prima di tutto su un casting a regola d’arte, che trova sei ragazzi perfetti per dare vita ai sei caratteri scritti su carta, tra i quali si distingue l’eccezionale Elle Fanning (sorella dell’altro prodigio Dakota Fanning, ma cosa danno da mangiare in quella famiglia?). E in seconda battuta concentrato a non perdere mai di vista la coerenza interna data dai caratteri infantili, volontà simboleggiata dal piccolo piromane (uno dei personaggi più riusciti) che anche nella più terribile delle situazioni si chiede dove siano le sue miccette. (Niola Mymovie)

RECENSIONE

Super 8 è il risultato di una filiazione poetica pienamente realizzata sia quanto ai modi di produzione, sia per quanto riguarda le forme della rappresentazione, sia, infine, per ciò che concerne i temi affrontati. Diretto da J.J. Abrams (forse più conosciuto in quanto autore e produttore televisivo, grazie alla tanto innovativa quanto fortunata serie Lost) Super 8 è allo stesso tempo prodotto da Steven Spielberg, vero e proprio demiurgo del cinema statunitense dalla metà degli anni Settanta in poi. Abrams – classe 1966, nato a New York ma cresciuto a Los Angeles, entrambi i genitori produttori televisivi – appartiene a quella generazione di americani (e non solo) che, adolescenti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, sono cresciuti non solo con i film di Spielberg nelle vesti di regista (valgano per tutti due o tre titoli come Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E. T. L’extraterrestre) ma anche e soprattutto con i moltissimi titoli prodotti dal geniale tycoon di Cincinnati: da Ritorno al futuro di Robert Zemeckis aGremlins di Joe Dante, da Piramide di paura di Barry Levinson a Casper di Brad Silberling. Di certo Super 8 per l’ancor giovane Abrams deve aver rappresentato il raggiungimento di un traguardo importante (e, probabilmente, il coronamento di un sogno) come quello di lavorare fianco a fianco non solo con uno dei più importanti produttori di Hollywood, ma anche con colui che ha ispirato un modo di concepire il cinema in quanto rappresentazione di un immaginario infantile e adolescenziale ingenuo e sognante nei contenuti ma con i piedi ben piantati per terra quanto a schemi produttivi e strategie di marketing.

Si racconta che Abrams, in compagnia dell’amico e sodale Matt Reeves (divenuto in seguito anch’egli regista) nel 1981, all’età di quindici anni, riuscirono a sottoporre al giudizio di Spielberg un cortometraggio, girato proprio in super8, ottenendo il plauso del regista e l’offerta di un lavoro estivo in una piccola produzione televisiva. Un viatico messo a frutto nel migliore dei modi dai due amici, nella realtà della loro crescita professionale e, nel caso di Super 8, messo in scena attraverso la narrazione delle vicende di sei amici preadolescenti con la passione per il cinema – horror fantascienza in testa – che decidono di girare un cortometraggio per partecipare a un piccolo festival e che, del tutto involontariamente, si trovano coinvolti in una serie di eventi a dir poco eccezionali. Non è casuale, dunque, la collocazione delle vicende narrate nel 1979, anno in cui il regista aveva all’incirca l’età dei protagonisti e, allo stesso tempo, fine di un decennio che aveva visto nascere un tipo di cinema come quello di Spielberg e George Lucas che si sarebbe sviluppato come vera e propria industria dell’entertainment negli anni Ottanta.

Se dal punto di vista dell’omaggio a quel cinema Abrams mette in campo non solo forme del racconto e stile della narrazione chiaramente spielberghiani, ma anche una straordinaria fotografia e un uso della cinepresa che ricalcano alla perfezione luci e movimenti di macchina tipici dell’epoca, per ciò che concerne la rievocazione dell’infanzia riesce a conferire ai personaggi ingenuità e freschezza ma, al tempo stesso, profondità e incisività del tutto inconsuete per il genere di riferimento. Del resto, fin dall’incipit il film non ci presenta la consueta immagine della provincia statunitense: se lo sfondo è quello delle solite villette con giardino ben curate, tipiche dei film mainstream americani, l’atmosfera è decisamente lugubre, con il giovane protagonista Joe alle prese con il lutto per la perdita della madre, morta in fabbrica per un incidente sul lavoro. La morte, il senso di perdita, l’abbandono, il conflitto tra genitori e figli aleggiano per tutto il corso del film, conferendo inusitato spessore a una trama che dovrebbe soltanto ricalcare gli stereotipi del monster movie. Stereotipi che, del resto, lo stesso Abrams, nelle vesti di produttore, aveva scardinato alcuni anni fa con il film Cloverfield (diretto dall’amico Reeves) nel quale il gigantesco mostro che attaccava una New York post-11 settembre, faceva la sua comparsa soltanto in alcune fuggevoli inquadrature riprese dalla telecamera digitale di uno dei protagonisti – sorta di aggiornamento della cinepresa super 8 degli adolescenti di questo film – formidabile epitome delle paure che agitano il nostro presente.

Così, se nella sua confezione esteriore il film rende nostalgico omaggio a un certo cinema degli anni Settanta, nei temi affrontati e nel risalto dato ai caratteri dei personaggi (tutt’altro che figurine unidimensionali) riesce ad affrancarsi da una sudditanza poetica nei confronti di quel cinema che oggi risulterebbe irrimediabilmente datata. Di certo anche nei film del maestro Spielberg lo sfondo famigliare non era mai neutro – si pensi all’assenza della figura paterna nella famiglia del piccolo protagonista di E. T. L’extraterrestre, alla famiglia disgregata dell’eroe di Incontri ravvicinati del terzo tipo, al padre problematico di Hook – Capitan Uncino – tuttavia mai in uno dei suoi film avevamo incontrato universi domestici così problematici e, allo stesso tempo, tanto verosimili nell’intreccio dei rapporti tra le figure del racconto.

Tutto il senso di Super 8 ruota, in fondo, intorno alla scena più straordinaria del film, quella in cui i cinque ragazzini, in compagnia della coetanea Alice (la straordinaria Elle Fanning, già interprete di Somewheredi Sofia Coppola), coinvolta nel progetto come interprete, inizialmente perplessa, poi sempre più partecipe ed entusiasta, si trovano presso una stazione ferroviaria in disuso per girare una delle sequenze del loro cortometraggio. Si prova la scena dell’addio tra il protagonista del “corto” e Alice nei panni della moglie di questi, con un’interpretazione straordinaria dell’attrice in erba, in lacrime al termine della sequenza (il perché di tanta empatia emergerà nel corso del film, dalle vicende personali della ragazzina). Il sopraggiungere di un treno è un’occasione troppo ghiotta per il giovanissimo cineasta che vorrebbe approfittare di quell’imprevisto per conferire maggiore realismo e allo stesso tempo più enfasi drammatica alla sequenza. Preparato il set alla meglio, azionato il motore della cinepresa Super8, dato il via agli attori che incominciano a recitare, accade l’incredibile: il treno si scontra con un’automobile che sta attraversando i binari e deraglia paurosamente, provocando un incidente ferroviario di proporzioni colossali che darà il via a una serie di eventi a catena che costituiscono forse la parte meno interessante del film, uno sfondo di vicende fantastiche e tremende allo stesso tempo che contrappuntano l’estate di un gruppo di ragazzini consapevoli di non essere più dei bambini ma non ancora degli adulti.

Il treno, dunque, come simbolo di un’età che fugge, di occasioni che passano e non ritorneranno, di addii immaginari come quello dei due protagonisti del cortometraggio, di incontri reali come quello tra Alice e Joe, di passioni come quella per il cinema, che nascono come un gioco ma si sviluppano in quanto strumento si rielaborazione della realtà (come nel caso del giovanissimo regista Charles), come mezzo per circoscrivere le proprie paure (è il caso di Alice) o per elaborare un lutto (come è per Joe). Il cortometraggio horror girato dai giovani protagonisti della pellicola, del resto, si presenta fin da subito tutt’altro che come un passatempo da bambini: invitati al banchetto funebre in onore della madre di Joe i quattro amici del ragazzino si chiedono se l’amico, toccato così profondamente dalla morte, sarà ancora disposto a partecipare alla lavorazione del cortometraggio, visto che si tratta di un film di zombie. I ragazzini gireranno il loro film utilizzando come sfondo il vero scenario del disastro ferroviario, ovvero proiettano ed esorcizzano le loro inquietudini su una dimensione reale, mettendo in scena il loro orrore metabolizzato attraverso citazioni cinematografiche e invenzioni sceniche ingegnose, in un tentativo non già di distrazione dal presente ma di appropriazione di una personale dimensione espressiva che dia un senso al loro disagio.

Allo stesso modo, anche Super 8 è qualcosa di più che un semplice prodotto di intrattenimento: non solo è un film che parla non superficialmente di conflitti tra genitori e figli, di famiglie problematiche, di adolescenza, del senso di perdita, di abbandono e di morte, ma anche di una fase della storia americana tutt’altro che semplice. Si tratta di accenni, indizi apparentemente casuali che fanno capolino dall’altoparlante di una radio lasciata accesa o dalle colonne di un quotidiano inquadrato di sfuggita che rimandano notizie sull’incidente nucleare di Three Miles Island, sugli ultimi rigurgiti della Guerra fredda, su quell’ottimismo reaganiano che mostrerà tutti i suoi limiti nei decenni a seguire e che nel film trovano la loro materializzazione non tanto nella mostruosità dell’essere alieno sfuggito al disastro ferroviario quanto nella costante presenza, per tutta la seconda parte del lungometraggio, di soldati in divisa che occupano militarmente oltre al villaggio che fa da sfondo alla vicenda anche la scena del film con un apparato di uomini e mezzi dalle dimensioni inquietanti.

Quanto il cortometraggio girato dai sei protagonisti sia tutt’altro che un pretesto per raccontare altro ma si costituisca in quanto elemento essenziale nell’economia di senso del film lo rivelano gli ultimi dieci minuti di Super 8: archiviato un finale in tutto e per tutto spielberghiano (qui l’omaggio a Incontri ravvicinati del terzo tipo e a E. T. L’extraterrestre si fa smaccato) che forse paga qualcosa in più del dovuto al patetico, ai titoli di coda vengono affiancate le immagini del cortometraggio finalmente montato e al quale è stato dato il titolo di The Case. Le riprese, che nel corso del film sembravano avere l’unica funzione di far progredire la linea narrativa principale, si costituiscono in quanto narrazione in se e per se coerente e conclusa, sia pur all’interno di – anzi forse proprio grazie a – una dimensione giocosa, appassionata e dissacrante. (Fabrizio Colamartino minori.it)

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Il calamaro e la balena (Baumbach 2005)

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SINOSSI

Il calamaro e la balena un film di Noah Baumbach. Titolo originale The squid and the whale. Drammatico, durata 81 min. – USA2005. –

Tutto scorre apparentemente tranquillo nella vita di quella che potrebbe essere una qualsiasi famiglia di Brooklyn, padre, madre e due figli, ma a dispetto della facciata perfettamente integra le fondamenta barcollano non poco, fino a crollare fragorosamente. Così, a seguito della separazione tra Bernard, scrittore senza più editori, e l’esasperata Joan, decisa a liberarsi dall’ego e dall’ombra del marito, i figli Walt e Frank si troveranno a fare la spola tra gli appartamenti dei due genitori. Gli adulti si daranno da fare imbarcandosi in relazioni improbabili, chi con un giovane istruttore di tennis, chi con un’acerba ma smaliziata studentessa, influenzando giocoforza le vite dei ragazzi, in una girandola di confusione adolescenziale di mezza età.
Noah Baumbach scrive e dirige l’autobiografia della propria adolescenza, facendoci assistere al racconto da un punto di vista privilegiato: quello di chi lo ha vissuto. Visione cinica quanto trasparente di un particolare collasso familiare e delle sue conseguenze più immediate, Il Calamaro e la Balena (si lascia scoprire allo spettatore il perché del titolo) è un’opera che gioca sulla fragilità dell’essere umano e l’impalpabilità dei suoi sentimenti, sospesi in equilibrio improbabile tra routine, sicurezza e felicità dimenticata per strada. (Giovanni Idili Mymovies)

RECENSIONE

Il calamaro e la balena, uscito in sordina sugli schermi cinematografici italiani, ha avuto una candidatura agli Oscar 2006 come migliore sceneggiatura originale. Noah Baumbach, che ha iniziato la sua carriera come regista nel 1995, a 26 anni, con Scalciando e strillando (Kicking and Screaming, Usa), è stato anche sceneggiatore diLe avventure acquatiche di Steve Zissou (The Life Aquatic With Steve Zissou, Usa, 2004) diWes Anderson, che gli ha reso il favore ne Il calamaro e la balena producendo il film. Ne Il calamaro e la balena, Baumbach riflette autobiograficamente sulla crisi familiare che caratterizzò la sua adolescenza, celandosi dietro il personaggio di Walt, allampanato diciassettenne, la stessa età che aveva il regista nel 1986, anno in cui si svolge il film.
Il Bernard Berkman del film, padre di Walt, riflette il vero padre di Noah, Jonathan Baumbach, scrittore dalle alterne fortune: grazie al rapporto tra Bernie e Walt nel film è però possibile notare le influenze cinematografiche adolescenziali di Noah dovute indirettamente ai gusti del padre Jonathan, che in una fase della sua vita è stato anche critico cinematografico per la “Partisan Review”, storica rivista di sinistra fondata dal teorico del Masscult e Midcult Dwight MacDonald. Ciò che nella pellicola si nota superficialmente è una grande passione per il cinema francese, soprattutto per quello della Nouvelle Vague, di cui si citano Il ragazzo selvaggio (L’enfant Sauvage, Francia, 1970) di François Truffaut eFino all’ultimo respiro (À boute de souffle, Francia, 1960) di Jean-Luc Godard, in particolare l’ultima scena, quella in cui Jean-Paul Belmondo, poco prima di morire, offende Jean Seberg toccandosi le labbra da parte a parte. Sul muro spoglio dell’abitazione di Bernie compare poi la locandina di La maman et la putain (Francia, 1973), capolavoro travagliato di un talento altrettanto inquieto della Nouvelle Vague francese come Jean Eustache. La filiazione, seppur ad una lettura epidermica, appare chiara: così come il cinema francese del periodo a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta puntava a far diventare il film una sorta di diario intimo, sulla scorta di una serie di teorie ed interventi di vari studiosi e critici (Astruc, Bazin, Truffaut stesso), Baumbach assume in prima persona questo invito quasi cinquant’anni dopo e realizza il suo personale diario intimo di un’adolescenza sofferta, condotta all’ombra di un padre frustrato ed egoista, cultore di una personalità continuamente preda della superbia e dei rovesci del destino. L’altro riferimento nel film è a Velluto blu (Blue Velvet, Usa, 1986) di David Lynch, film uscito nel periodo in cui è ambientata la vicenda, altra imposizione di Bernie/Jonathan nei confronti della formazione culturale del figlio: l’assunzione in questo caso è forse meno percepibile e forse anche maggiormente forzata, se si suppone che l’ispirazione lynchiana possa aver influenzato Baumbachnella creazione di un universo in cui l’angoscia si nasconde dietro la patina di perfetta, anche se squilibrata, rispettabilità.

IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Una partita di tennis familiare

Le vicende narrate in Il calamaro e la balena iniziano in un campo da tennis, con una partita di doppio misto. Misto non tanto perché include anche una donna, quanto perché mette di fronte quasi programmaticamente gli schieramenti protagonisti dell’aspro e rovinoso conflitto che di lì a pocoBaumbach svilupperà in seno alla famiglia Berkmann. Da un lato Bernie, il padre, e Walt, il figlio maggiore, invogliato ad insistere “sul rovescio debole della madre” per portare in porto una partita la cui unica posta in gioco è una vuota soddisfazione personale. Dall’altro, Joan, la madre, moglie di Bernie da diciassette anni, e Frank, il figlio minore della coppia, che nella partita pare essere spettatore della sfida in atto, nella quale invece Walt, stimolato da Bernie, ha invece una ruolo da protagonista. Ed è un incipit che, allegoricamente, anticipa gli equilibri presenti nella storia narrata immediatamente dopo: Bernie e Joan intenti a gestire il loro ormai logoro rapporto; Frank in veste di osservatore passivo e vittima di una situazione che per età e dinamiche non può comprendere appieno; Walt spesso utilizzato dal padre come leva per mutare i già precari equilibri in atto e come figura su cui proiettare i valori ideali a cui farebbe costantemente riferimento se una profonda frustrazione, dovuta all’eclissi del successo letterario, non lo avesse attanagliato. Ma anche la posizione in campo assunta dai due figli è emblematica di ciò che il film rappresenta: Frank, più di Walt – indotto dal padre a gestire insieme la partita contro la madre – è bloccato in quella che nel gergo del tennis si chiama “Nobody’s Land”, terra di nessuno, ossia lo spazio compreso tra fondo campo (in cui ci sono Bernie e Joan) e la rete, una superficie sconsigliata da tutti gli istruttori e i commentatori televisivi perché improduttiva ai fini del risultato, troppo lontana dalla rete per fornire il colpo decisivo (ancor di più se tale colpo non lo si è preparato adeguatamente dal fondo campo), troppo scoperta per potersi difendere in caso di contrattacco. Perfetta metafora della situazione di Frank, costretto, suo malgrado, da una partita che per età e costituzione non può condurre, a vivere senza una vera dimora da sentire propria, alternativamente a casa della madre che egli continua a definire “casa nostra” (mentre Bernie gli fa notare come sia casa della madre) e la nuova abitazione del padre, contraddistinta con “casa di papà” (mentre Bernie si premura di fargli notare come anche quella nuova abitazione, in fondo, sia casa sua). Esemplare è, a questo proposito, l’inquadratura che mostra il povero Frank in campo medio, affranto, seduto su una sedia con bracciolo per mancini (lui che è destrorso) compratagli da Bernie per permetterli di studiare anche nel nuovo appartamento. Terra di nessuno dettata dall’affidamento congiunto, quello stesso affidamento congiunto che “fa schifo”, secondo le parole di Otto, un compagno di scuola di Walt, che ha già provato l’esperienza sulla sua pelle: metodo ipocrita di condivisione di spazi e momenti, perché ciò che interessa realmente è soltanto un risparmio sugli alimenti.
Così, se per il piccolo Frank la separazione dei genitori è dolore da allontanare con improprie bevute di birra e vino e smarrimento in un’ipotetica e confusa dimensione in cui contano le pulsioni sessuali ossessive e la possibilità di circoscrivere gli ambienti frequentati con il proprio seme (il ragazzino, dopo essersi masturbato, “spalma” con lo sperma armadietti e scaffali della biblioteca) quasi a creare quel senso di appartenenza che prima la posizione sul campo da tennis e poi lo squallore scrostato della nuova abitazione di Bernie non gli hanno fornito, per Walt, personaggio dietro cui si cela la figura del regista, si tratta invece di un faticoso percorso di crescita adolescenziale. Walt, seppur illudendosi di gestire individualmente la difficile situazione, vive la sua vita ad immagine della volontà di Bernie, come suo braccio armato pronto a sfruttare “il rovescio debole della madre”: la sua è un’esistenza priva di autenticità, vissuta come proiezione dell’ingombrante – seppur in disarmo – personalità paterna. Il rapporto con Sophie, sua tenera compagna di scuola, è prima diretto, poi catastroficamente mediato dal consiglio paterno volto a crearsi una vasta rete di esperienze; il conversare di letteratura non è scambio di esperienze genuino, ma un pontificare altezzoso e vuoto con il chiaro obiettivo di fornirsi di quella statura culturale che Walt riconosce nel padre; l’attribuirsi la composizione di Hey You dei Pink Floyd non è volontà di frodare il concorso scolastico, quanto il tentativo sconclusionato e irrazionale di garantirsi l’ammirazione paterna. Il cammino di Walt dev’essere indirizzato a recuperare una propria individualità slegata dall’aura di Bernie, una serenità in cui sia possibile anche recuperare il rapporto con una madre che ha mostrato di odiare (ma solo per appartenenza alla “squadra” del padre): l’inquadratura che segna inequivocabilmente questa possibilità è il particolare della mano del ragazzo che si stacca da quella di Bernie, convalescente nel letto di ospedale. Il cammino successivo di Walt è indirizzato al museo di storia naturale di New York, verso quel calamaro addentato dalla balena simbolo di una paura infantile condivisa con la madre, ancora fonte di conforto e non nemica. Osservare da soli quell’enorme duplice mostro, il cui terrore era stato confessato allo psicologo, è un piccolo ma decisivo passo verso la conquista della maturità. (Giampiero Frasca, minori.it)-

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Come due coccodrilli (Campiotti 94)

INDICE
TRAMA
RECENSIONE
SCENE DAL FILM

TRAMA
Gabriele, un quarantenne italiano che vive a Parigi dopo aver abbandonato la casa paterna, si è imposto nell’ambiente dei ricettatori d’antiquariato perchè considerato preparatissimo: si è fatto una fortuna ed ha una relazione con la bella Claire, che però non si decide a sposare, vivendo da “single”. Inaspettatamente Gabriele è fortemente colpito da una notizia: sul lago di Como, sua terra d’origine, è all’asta, nella villa signorile del padre in cui è cresciuto, un vaso antico d’inestimabile valore. Gabriele parte precipitosamente per l’Italia, dopo aver promesso a Claire di farle avere notizie, non senza aver fatto firmare e timbrare dalla segretaria del suo Centro d’antiquariato, una dichiarazione in bianco chiedendole fiducia, con la segreta intenzione di avvalersene per una personale vendetta. Giunto senza preavviso alla villa paterna trova una bambina: le si avvicina riuscendo a conquistarsi l’amicizia della piccola ed a farsene una specie di guida verso l’interno, dove era stata fatta una copia del famoso vaso, da parte dei suoi fratellastri, guidati dal padre. Gli si riaffacciano gli incubi ed i ricordi angosciosi dell’infanzia e dell’adolescenza: la mamma Marta – l’aveva scoperto da bambino – non era la moglie, ma l’amante del padre Pietro, sposato ad un’altra e con figli, che alla morte da parto di lei, aveva voluto con sé Gabriele, affidando il neonato ad una balia. Ha intenzione di denunciare quel falso, riducendoli in miseria. Senonché l’ambiente, il rivedere il padre di cui ricorda d’esser stato amato quanto quegli odiosi fratellastri, ed il fratello molto caro, i ricordi che gli si affollano nell’animo: tutto un insieme di circostanze lo sconvolgono e lo fanno desistere. Distrutte le prove di quel falso, insinuandosi in un ripostiglio nel quale aveva accuratamente nascosto da ragazzo i resti dell’originale, si presenterà ai suoi familiari, ma straccerà davanti a loro la fatale denuncia già pronta, fuggendo ancora una volta, inseguito dai disperati richiami del fratello, mentre già il motoscafo si sta staccando dalla darsena. Gli grida: “ritornerò” ormai trasformato in un nuovo Gabriele, libero dai risentimenti che lo imprigionavano. (cooming soon)

RECENSIONE

“Come due coccodrilli è un film sull’amore, dove questo sentimento è inteso nel senso più ampio e nemmeno nel solo significato positivo del termine.
È una storia che parla di rapporti d’amore tra uomini e donne, a volte felici ma più spesso complicati, fatti anche di passioni, tradimenti, incapacità di
prendere delle decisioni definitive.
È una storia che parla di rapporti tra genitori e figli, delle difficoltà di instaurare da parte dei primi un rapporto educativo veramente di crescita. È
una storia che parla dell’amore tra i fratelli, ma anche dei conflitti, delle gelosie, dell’odio che si può scatenare tra di loro.
È una storia che parla di ingiustizie subite, di come queste si possano radicare nei nostri pensieri e tornare a galla dopo anni sotto forma di desiderio
di vendetta. È una storia che parla del tempo che passa e che trasforma ogni cosa. È una storia che parla della possibilità per ognuno di noi di prendere
coscienza della realtà oltre noi stessi e, forse, della possibilità di cambiare”. Così la dichiarazione di Giacomo Campiotti, regista del film. Campiotti
afferma inoltre di avere utilizzato come fonte di ispirazione per il suo soggetto il lungo racconto di “Giuseppe venduto dai fratelli” che si trova,
senza sostanziali differenze, sia nella Bibbia che nel Corano. “A questo racconto gli autori” aggiunge il regista” si sono accostati con
grande umiltà ma anche con totale libertà, tanto che è estremamente difficile riconoscere nella storia di Come due coccodrilli l’illustre origine.
La storia di Giuseppe è stata solamente uno stimolo per la ricchezza e la qualità con cui tratta la molteplicità dei sentimenti e delle pulsioni presenti nell’uomo e per l’originalità delle situazioni descritte.” Questa premessa può essere utile per inquadrare la storia di un film che ha ottenuto riconoscimenti in molti paesi esteri (compreso un premio dei giovani al Festival Internazionale di Locarno 1994 e la vittoria a un’importante rassegna di film tenutasi nel novembre dello stesso anno a New York) ma ha avuto notevoli difficoltà di distribuzione proprio in Italia.
Il film si struttura, sin dall’inizio, con una forte alternanza tra presente e flashback che fungono da memoria (dapprima inconscia nel sonno e poi
sempre più cosciente) per il protagonista e da nucleo informativo- emozionale per lo spettatore.
Come due coccodrilli viene così a declinarsi (grazie anche all’uso del colore e del viraggio) lungo tre linee temporali: 1) il ‘presente’ di Gabriele
ormai uomo; 2) il ‘passato remoto’ del Gabriele bambino (raccontato facendo uso del viraggio); 3) il ‘passato prossimo’ del Gabriele ragazzo.
Campiotti inserisce la vicenda del protagonista all’interno di luoghi la cui struttura architettonica diviene essa stessa comunicazione di messaggi e veicolo di senso.
Dopo la prima inquadratura fortemente simbolica (che verrà riproposta con variazioni più avanti nel film) che ci mostra un pesce in una boccia di cristallo dinanzi a uno scorcio di Parigi, la macchina da presa prosegue il tema mostrandoci un acquario attraverso le cui pareti si può scorgere una parte dell’appartamento di Gabriele. Una serie di movimenti di macchina (separati dalle irruzioni della memoria dell’infanzia) ci conducono in visita a quella sorta di acquario freddo e tecnologico che è l’abitazionein cui l’uomo sta dormendo dopo un rapporto di quello che lui pensa essere l’amore.
Il passato, che ha la dimensione del sogno in equilibrio tra gioia e sofferenza, ci mostra le condizioni della sua crescita di figlio ‘illegittimo’ in un contesto abitativo che emana il calore di sentimenti vissuti appieno ma le cui dimensioni sembrano modificarsi profondamente nel momento della paura per la vita della madre. Così come, in un’altra fase della storia, sarà un ascensore a marcare fortemente una separazione che costituisce una cesura esistenziale tra il protagonista e il mondo degli affetti.
I luoghi segnano anche lo scorrere del tempo e le trasformazioni profonde che attraversano le persone che li abitano. Si vedano, in proposito, la villa e la vetreria. La prima, coacervo di tensioni nella sua sobrietà architettonica (significativa l’inquadratura dall’alto di Martino che gira in tondo nella sua stanza sul triciclo, con un sacchetto sulla testa per non sentire l’ennesimo e definitivo alterco) che diventa, nel finale, luogo in cui ‘vendere’ il proprio patrimonio dopo che ci si è ridotti a vivere in una sua ala.
La vetreria, nel suo degrado originato dall’abbandono, acquista invece il significato di uno spazio in cui ritrovare il senso del ‘fare’. Gabriele, che si è
rinchiuso nella gelida geometria di una casa tecnologica e ‘commercia’ i prodotti della creatività altrui, riscopre la propria abilità di artigiano grazie a una bambina.
Campiotti lavora molto anche sulle continuità visive. Un dettaglio, un oggetto, una situazione fanno tornare ‘presenti’ episodi che il protagonista credeva di avere ormai sepolto nella memoria. Ecco allora che la corsa di Gabriele ragazzo nel momento in cui fugge da una realtà che è divenuta insopportabile (con Martino che lo insegue per chiedere un aiuto che non verrà) è fatta oggetto di più riproposizioni che marcano le affinità e/o le differenze sostanziali delle diverse fasi del ‘viaggio’ di Gabriele.
Perché Come due coccodrilli, con le sottolineature stilistiche di cui si è detto, è un film sul viaggio dalla duplice possibilità di lettura. Come elemento più evidente si tratta di uno spostarsi ‘fisico’ da un luogo (Parigi) all’altro (Varenna). Quelli che però più contano sono i due progressivi ‘avvicinamenti’. Da un lato c’è quello a un passato rimosso che risale a livello cosciente e dall’altro quello a un presente in cui il futuro (proprio e altrui) dipende dalle scelte che si andranno a operare. Qui, anche se Campiotti non la ripropone più, sembra riecheggiare una frase pronunciata dalla madre e udita dal piccolo Gabriele:”Non si può costruire la propria felicità sull’infelicità altrui”. Il protagonista, divenuto adulto, compie una scelta in quella direzione e la canzone di Lucio Dalla (nei titoli di coda) ne completa il senso. (lombardiaspettacolo)

SCENE

Inizio

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Ricordi

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Dopo il matrimonio (Bier, 2006)

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SINOSSI
SCHEDA
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SINOSSI
Da molti anni il danese Jacob lavora in India come volontario in un orfanotrofio che rischia di chiudere per difficoltà finanziarie, quando riceve da Jörge, milionario suo compatriota, la promessa di 4 milioni di euro a condizione di incontrarlo personalmente alla vigilia del matrimonio di sua figlia. Perché? Perplesso, Jacob accetta l’invito.

SCHEDA
Quando Jakob, che in India dirige un orfanotrofio sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, riceve dalla natia Danimarca una generosa proposta di aiuto con l’unica clausola di un viaggio in patria, non può certo rifiutare. Ma una volta a Copenhagen le cose si complicano. Partecipando alle nozze della figlia del misterioso benefattore, infatti, Jakob reincontra la sua fidanzata di un tempo, che è poi la madre della sposa. E mentre Jakob viene posto di fronte ad una scelta dolorosa (accettare la donazione e rimanere in Danimarca ad amministrarla oppure rifiutarla e veder chiudere la sua opera benefica), un segreto che riguarda il passato (e uno che getta un ombra sul futuro) costringe tutti i personaggi a fare i conti con sé stessi e a riscoprire i legami che li uniscono.

Quando al matrimonio del titolo la sposa si alza per fare un brindisi e la madre si inquieta per le possibili rivelazioni, lo spettatore potrebbe temere di trovarsi di fronte all’ennesimo film danese pronto a gettare una palata di terra sulle istituzioni familiari o a mostrarne la corrotta natura tra morbosità e desiderio di vendetta. Invece, per una volta, anche se dietro al ritrovarsi di due amanti di un tempo c’è un segreto e il protagonista è costretto a mettere a nudo sé stesso prima di poter giungere alla fine del suo percorso, la regista Susanne Bier (Non desiderare la donna d’altri), coadiuvata dallo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (autore anche de Le mele di Adamo) decide di raccontare una vicenda in cui i legami familiari escono rafforzati dalla prova del dolore, della verità e della morte.

Costretto a scegliere tra un’astratta benché benintenzionata forma di carità (che non a caso ha più volte conosciuto il fallimento) e il concreto bisogno del suo prossimo, il protagonista viene messo di fronte alla necessità di esercitare una forma di amore molto più stringente e difficile.

Allo stesso tempo il suo «antagonista», il ricco uomo d’affari Jorgen, affronta un percorso altrettanto doloroso, che lo porta a spogliarsi di tutto prima di affrontare la morte. Anche lui, tuttavia, prima della fine, deve ritrovare la certezza dell’amore dei suoi cari, che forse si era appannata nella preoccupazione e nel desiderio di «mettere tutto a posto».

È un insolito gruppo di personaggi quello che popola la pellicola della Bier, per certi versi segnati da un passato di dolore che sembra destinato a ripetersi, per altri fortunatamente non determinati da esso, ma messi di fronte a una seconda possibilità che si fonda sull’amore e sul riconoscimento delle proprie responsabilità. Fa piacere per una volta che la famiglia, lungi dall’essere rappresentata come luogo di corruzione e disperazione, sia vista come possibilità di realizzazione e compimento, anche quando nella vita entrano il dolore, il tradimento e infine la morte.

Manca, è vero, un ultimo salto di qualità che permetta di andare oltre l’immanenza di una laica carità per aprirsi a una dimensione soprannaturale, ma resta apprezzabile la volontà di indicare una positività umana fondata sulla solidarietà reciproca, sull’apertura all’altro e sul perdono.

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