Un genitore quasi perfetto ( Bettelheim 1987)

Un genitore quasi perfetto

Autore: Bruno Bettelheim – Editore: Feltrinelli 1987 – Pagine: 456

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INDICE


RECENSIONI

Corriere.it La crescita è un percorso che genitori e bambini fanno insieme: insieme si diventa grandi e insieme si torna bambini, per amarsi e capirsi meglio. I figli chiedono rapporti profondi, onesti e consapevoli, per trasformarsi a loro volta in adulti autentici e affettivi. Bruno Bettelheim ci incoraggia a trovare dentro di noi le risposte alle loro esigenze: se ammettiamo la complessità delle nostre passioni, se ricordiamo la nostra infanzia e gliela sappiamo raccontare, se prendiamo sul serio il loro punto di vista, se accogliamo le loro trasgressioni – anche senza accettarle -, se li sosteniamo sempre con tutta la nostra fiducia, saremo genitori forse imperfetti, ma passabili. E il nostro amore non li deluderà. (corriere.it)

Recensione di Di Carlo, A., L’Indice 1988, n. 6

Ebreo viennese e psicoanalista, Bruno Bettelheim ha vissuto nel 1938 l’esperienza della deportazione e del lager nazista. Sfuggì al campo di concentramento ed emigrò in America nel 1939, dove, in un libro divenuto famoso, Il prezzo della vita (1960), narrò la sua personale tragedia e l’orrore del campo di sterminio vissuto da milioni di deportati. Questo accenno ad un’opera sui campi di sterminio nazisti, fatto per recensire un’opera di riflessione pedagogica non è evidentemente casuale; in effetti è come se i problemi che Bettelheim affronta in questo suo nuovo libro, fossero ancora i problemi e le domande che in quegli anni lontani hanno attraversato la sua esistenza. Il lager è per Bettelheim un vero punto di svolta, è l’inizio di una riflessione sul valore profondo della libertà e della soggettività umana. La situazione estrema in cui è vissuto gli ha insegnato cita la comprensione di se, delle proprie ed altrui emozioni, è un potente strumento di difesa della propria integrità, della propria autonomia interiore: nel lager comprende che la capacità di comunicare e la fedeltà ad un nucleo profondo di valori e di ideali rappresentano uno strumento fondamentale di sopravvivenza. I temi di cui stiamo parlando non riguardano solo l’antica esperienza del lager, li ritroviamo con altre modalità e contenuti nell’analisi critica che Bettelheim ha fatto e fa della condizione di anemia, di frammentazione, di dipendenza e in ultima analisi di isolamento emotivo, che caratterizzano le società di massa tecnologicamente avanzate in cui tutti noi viviamo Li ritroviamo infine in questo libro “Un genitore quasi perfetto” (o meglio “abbastanza buono” per essere più fedeli al titolo originale) in cui gli stessi temi sono tradotti in termini pedagogici e ripensati all’interno della relazione genitori-figli. Il libro è il bilancio di una lunga esperienza psicoanalitica ed è una riflessione sul valore e sul significato delle dinamiche affettive nella crescita umana. La maturazione emotivo-affettiva (questo uno dei temi centrali) è un difficile, complesso, cammino verso l’identità e l’autenticità del sé. Motore di tutto questo sono le identificazioni profonde grazie alle quali il bambino accoglie nel mondo interno condotte, modi di sentire e di pensare dei genitori, del mondo familiare, dell’ambiente sociale. Si matura ci dice Bettelheim, per la qualità di queste relazioni, per la forza della presenza dell’altro, per la stabilità del contatto personale, che si instaura tra adulto e bambino. Se pensiamo per un momento al problema dell’esercizio dell’autorità, del controllo di se e dell’autodisciplina, scopriamo che ciò che ha peso e significato nell’imparare a vivere le regole comuni, non sono gli ordini e ancor meno le minacce e le punizioni. Ciò che conta è un sistema di valori coerente, quell’insieme fatto di comunicazione affettiva e di fermezza interiore che crea le condizioni per introiettare stabilità e autocontrollo. All’obbedienza basata sulla paura e il conformismo, Bettelheim contrappone il primato della crescita attraverso identificazioni con chi sa e sa fare: questo è per liti il nucleo generatore della forza dell’io, quel nucleo che consente di affrontare poi le vicissitudini dolorose e i conflitti connessi alla condizione umana. Dobbiamo aggiungere che per Bettelheim i processi di identificazione hanno questa qualità protettiva se la natura del rapporto genitori-figli è sempre meno quello che sembra essere divenuto nelle società industriali e postindustriali del nostro tempo, dominate dalla separatezza emotiva, dalla solitudine di giovani ed adulti, dal conformismo di massa. Di fronte a questa condizione di vita si avverte con chiarezza, in Bettelheim, la sottile nostalgia per una società in cui i giovani imparavano a vivere e a lavorare grazie a rapporti personali e ravvicinati con gli adulti e a sistemi sociali ricchi di appartenenza. Se il rapporto personale e la ricchezza delle identificazioni, la vicinanza e la continuità delle generazioni, sono i luoghi della maturazione della mente, è soprattutto la conoscenza di se che fa da catalizzatore di ogni relazione maturativa e di ogni vera crescita personale. Il tema della maturazione affettiva intesa come accrescimento della consapevolezza di se, tema così strettamente legato al pensiero psicoanalitico, può essere considerato un vero leit-motiv del libro. Per Bettelheim la sostanza del procedimento analitico è nella conoscenza di sé. Egli sa molto bene che questa conoscenza è il risultato di un difficile cammino attraverso zone oscure della mente. In una sua recente opera, “Freud e l’anima dell’uomo” (1982), egli ha sottolineato proprio questo punto, cioè che il senso del lavoro analitico è nella scoperta di una verità interiore e non certo nei facili adattamenti all’esistente come ha creduto certa psicologia americana. Ebbene, anche in un libro di educazione familiare come questo, l’attenzione al nucleo forte del sapere psicoanalitico riemerge e si ripropone come via maestra per comunicare (se questo è possibile) con il bambino, con l’adolescente. Nel libro non troviamo quindi un insieme di consigli pedagogici da fornire a genitori in difficoltà (anche se non mancano evidentemente i principi regolatori e i modelli di condotta) ma soprattutto l’indicazione di un atteggiamento interiore: la necessità di conseguire una consapevolezza di sé per arrivare alla conoscenza dell’altro. In breve, le fantasie, i sentimenti di un bambino, ci dice Bettelheim, possono facilmente trovare il muro delle nostre difese, ma se riusciamo a calarci nelle nostre emozioni mettendoci in certa misura in ascolto di noi stessi, se avvertiamo un contatto più profondo e comprensivo con le nostre esperienze passate, possiamo utilizzare tutto questo per ridurre le difese e creare uno spazio mentale più ampio che consenta all’altro di vivere e di crescere. Il rapporto con un bambino dovrebbe, in altri termini, poter accrescere la nostra capacità di insight personale e tradursi nella consapevolezza delle ambivalenze e dei conflitti che attraversano la condizione umana. Un bambino cresce perché si sente compreso, ma un bambino è compreso se il genitore sa mettersi in ascolto delle proprie emozioni: nel duplice ascolto di sé e dell’altro nascono l’empatia, la capacità di identificazione, le spinte ad utilizzare risorse profonde, le vere qualità che danno forza e spessore al rapporto pedagogico. Nella sua parte centrale, infine, il libro di Bettelheim può essere letto come un piccolo trattato di psicoanalisi del gioco infantile. Bettelheim vi riassume tutta una tradizione di pensiero che ha fatto del gioco una delle vie per attingere i significati inconsci dei comportamenti del bambino. Ma il gioco non è solo una esperienza da interpretare, è uno dei luoghi alti della maturazione in cui le emozioni e la ragione si incontrano, in cui è possibile vedere emergere in trasparenza uno degli obiettivi del lavoro analitico: l’integrazione della vita emotiva e della vita intellettuale. Il gioco è dunque un luogo della mente, la stanza dei giochi (Spielraum), come è vista da Bettelheim, è uno spazio di libero movimento aperto al sogno e alla realtà, nel gioco il bambino può vivere emozioni ricche di significato e sperimentare un autentico esercizio di libertà intellettuale. Anche in queste parti del libro dedicate al gioco torna il tema, caro a Bettelheim, che maturare è accogliere alcune parti di se ed elaborarle in un tempo interiore, un tempo che varia da soggetto a soggetto, che coincide con un itinerario di scoperta, un movimento verso la verità. Il gioco è appunto questo, per questo senso forte, per questo suo spessore psicoanalitico e antropologico, serve a preparare gli apprendimenti futuri e la padronanza delle emozioni. Un’opera di teoria dell’educazione dunque, questa di Bettelheim, un libro che si colloca nella sua linea di ricerca degli ultimi anni, una ricerca psicopedagogica da cui sono nate anche le opere sulla fiaba e sull’apprendimento della lettura. Non vi sono in questo libro che pochi accenni a quelle situazioni psicopatologiche intorno a cui ha lavorato a lungo e che ha narrato in altre opere molto note (si veda per tutte La fortezza vuota, Garzanti 1976, 1979, 1987). In questo nuovo libro vi è, come si è detto, il tentativo di fornire una lettura dei rapporti tra genitori e figli, i rapporti di tutti i giorni, in situazioni di normalità, un tentativo Atto alla luce di una idea di educazione che ci è sembrata di grande rilievo, animata com’è da un intenso desiderio di intimità e di stabilità emozionale, dal desiderio di una vita ricca di affetti e di forza simbolica, quale può nascere in chi ha avuto a lungo esperienza della sofferenza mentale e, insieme, il sostegno della “saggezza” psicoanalitica.

 

ALCUNE FRASI TRATTE DAL LIBRO

  • Nel processo di sviluppo della personalità molte esperienze infantili sono dovute di necessità affondare nell’inconscio. Quando la personalità adulta è pienamente e saldamente formata, non sarebbe più necessario prendere le distanza dall’infanzia, ma a quel punto ormai tale distacco è divenuto per molte persone parte integrante della loro personalità. La scissione dalla propria infanzia, benché momentaneamente necessaria, se diventa permanente ci depriva di esperienze interiori che potrebbero mantenerci giovani di spirito e inoltre consentirci una maggiore e più profonda intimità con i nostri figli. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987.
  • L’empatia, così importante perché un adulto possa comprendere un bambino, comporta che si consideri l’altro nostro pari; non per ciò che riguarda il sapere, l’intelligenza o l’esperienza e men che meno la maturità, bensì rispetto ai sentimenti e alle emozioni che ci muovono tutti, adulti e bambini. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987
  • I genitori che investono emozioni positive nei giochi dei loro figli infondono in loro la sicurezza che da grandi saranno in grado di far fronte ai compiti della vita adulta. Tale sicurezza scaturisce nel bambino dalla soddisfazione di stare facendo un gioco bello, importante, ricco di senso, ed è alimentata dalla conferma che al riguardo riceve dalla parallela soddisfazione dei genitori. La comprensione a livello emotivo dell’importante significato che il gioco riveste nel presente per i figli, dà corpo e concretezza al suo ruolo nel prepararli per il futuro. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli Editore, Milano, 1987.
  • Il genitore deve resistere all’impulso di cercare di costruire il figlio che lui vorrebbe avere, e aiutarlo invece a sviluppare appieno, secondo i suoi ritmi, le sue potenzialità, a diventare quello che lui vuole essere, in armonia con al sua dotazione naturale e come risultante della sua individualissima storia. Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto

 

BRANI TRATTI DAL LIBRO

Se un bambino che possiede le abilità necessarie per riuscire bene a scuola invece va male

Il contenuto del subconscio può divenire accessibile attraverso un’attenta analisi dei pensieri, dei sentimenti, delle motivazioni profonde: per quanto si tratti di un processo assai difficile, è tuttavia possibile portare alla coscienza ciò che si muove nel subconscio. Tra conscio e inconscio vi è invece una barriera impenetrabile: ciò che si agita nell’inconscio è ciò che per la coscienza è assolutamente inaccettabile ed è stato quindi rimosso. La piena consapevolezza dei materiali inconsci può essere raggiunta solo attraverso la più grande resistenza. Occorrono uno sforzo e una determinazione concentrati e un duro lavoro intellettuale per penetrare la barriera che separa la coscienza dall’inconscio e, in molti casi, questo è possibile solo fino a un certo punto, se non addirittura del tutto impossibile.

Tornando al nostro esempio, l’idea che vi sia un parallelo tra l’assemblaggio delle funzioni di una macchina e il funzionamento di un bambino (e ci si comporti poi di conseguenza), potrebbe essere per alcuni genitori un pensiero talmente aberrante che essi semplicemente non lo accettano. Per loro, tale parallelo, che pure determina i loro pensieri e le loro motivazioni, rimane inconscio. Altri genitori, riflettendoci sopra e sforzandosi seriamente di analizzare i propri pensieri e le proprie motivazioni, riescono a riconoscere che, sia pure senza esserne consapevoli, essi avevano effettivamente stabilito un parallelo tra il funzionamento del figlio e quello di una macchina. In questo caso, il parallelo non era stato rimosso nell’inconscio, ma era rimasto, fino al momento della sua riscoperta, nel subconscio.

In entrambi i casi, molti ne parlano nello stesso modo, dicendo per esempio che vorrebbero che il loro bambino desse delle “prestazioni” migliori, o “rendesse” di più a scuola (uno dei motivi più diffusi per cui ci si rivolge agli specialisti). Se invece a un genitore sta a cuore soprattutto che suo figlio abbia una vita soddisfacente e sia felice, è poco probabile che ne parli in questo modo. Anzi, è il parallelo operato nel subconscio tra due fenomeni assolutamente non paragonabili, come una macchina ben funzionante e una vita vissuta bene, che suscita nei genitori, quando i loro sforzi non riescono a “produrre” esattamente i risultati previsti, quel senso di intima insoddisfazione nei confronti propri e del figlio. Ne deducono allora che ci deve essere qualcosa che non va nelle loro “tecniche” educative, che devono avere applicato un “sistema scorretto”, perché altrimenti avrebbero ottenuto i risultati giusti. È questo tipo di mentalità che induce i genitori a ricorrere ai manuali per imparare “come fare” a fare i genitori, quando il problema vero non è “fare” ma essere dei bravi genitori.

Con questo non voglio dire che un genitore non debba preoccuparsi di fare del suo meglio con i figli, o che bisogna lasciare tutto al caso. È compito dei genitori offrire una guida ai figli, attraverso il loro comportamento e i valori sui quali impostano la loro vita. Ma bisogna liberarsi dall’idea che esistano dei metodi infallibili che, se applicati correttamente, produrranno automaticamente risultati determinati e prevedibili. Qualunque cosa facciamo con e per i nostri figli dovrebbe scaturire naturalmente dalla nostra comprensione, comprensione anche emotiva, delle singole situazioni e del particolare rapporto che vorremmo avere con i nostri figli.

Nel suo libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Robert Pirsig dimostra che persino quando montiamo un congegno meccanico il fatto di ubbidire alle istruzioni ci priva della sensazione di essere creativi nel nostro lavoro. E questa, per un essere umano, è una perdita molto più grande del vantaggio che otteniamo quando seguire correttamente le istruzioni ci permette di montare facilmente i pezzi di un meccanismo; sicché persino nel caso di una macchina da montare i sentimenti che investiamo nel nostro lavoro sono determinanti per la soddisfazione che ne possiamo trarre. È raro sentirsi davvero contenti di noi stessi e di nostro figlio quando nei nostri rapporti applichiamo consigli pensati da qualcun altro: questo toglie al rapporto quella spontaneità che lo rende un’esperienza umanamente significativa e quindi realmente soddisfacente.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 33

A volte do a me stessa consigli ammirevoli, ma sono incapace di seguirli

Abbiamo tutti una forte propensione a comportarci come Mary Wortley Montagu, che scrisse in una lettera alla Contessa di Mar: “A volte do a me stessa consigli ammirevoli, ma sono incapace di seguirli.”

Dunque i consigli che non intaccano la tranquillità dei genitori o le loro idee vengono seguiti più facilmente, a dispetto del parere contrario espresso da altri “specialisti”. Questo spiega come mai venga tuttora seguito da molti il consiglio di lasciar piangere i neonati invece di prenderli in braccio e coccolarli. Qui non si tratta tanto del fatto che questa linea di condotta sia più comoda per i genitori, perché i vagiti di un lattante danno fastidio; il problema è più sottile: tutti ci irritiamo con chi ci provoca un disagio, e inconsciamente il genitore prova risentimento per il pianto prolungato di suo figlio. E se, benché sia irritato, lo prende in braccio ugualmente (come, altrettanto frequentemente, gli viene consigliato di fare), si può star certi che il rimedio non funzionerà, perché tutto il suo modo di fare sarà nervoso e irritato. Ecco dunque confermato che prendere in braccio i bambini quando piangono non serve! Infatti, mentre compiere i gesti richiesti è abbastanza facile, molto difficile è dare vero conforto alle persone verso le quali proviamo risentimento, anche se si tratta dei nostri figli. Perciò, se un consiglio viene seguito controvoglia, il più delle volte si rivelerà controproducente.

Mi è capitato spesso di parlare con genitori che ricorrevano a sistemi alquanto bizzarri nell’educare i figli; e quando domandavo loro come gli fosse venuta l’idea di agire in quel modo, quasi tutti rispondevano di aver letto, o sentito dire, che quello era il sistema migliore. Quasi sempre risultava inoltre che gli era stato dato anche il consiglio opposto, ma, siccome seguirlo era sembrato scomodo o inadatto al loro caso, avevano spulciato la letteratura esistente fino a che avevano trovato un suggerimento che confermasse la loro valutazione della situazione.

In altre parole, è difficile leggere dei consigli su come dovrebbe comportarsi un genitore senza avere intense reazioni personali, reazioni che interferiscono nella comprensione dei consigli stessi, per non parlare dell’obiettività necessaria per evitare di proiettarvi elementi che essi non contengono affatto. D’altro canto, visto che il consiglio lo abbiamo cercato, diventa difficile ignorano: dobbiamo farci i conti, accettano, rifiutano, del tutto o in parte; dobbiamo comunque continuare a rifletterci sopra. Tuttavia, dato che, se abbiamo chiesto consiglio, è perché ci troviamo in un momento di crisi acuta (per esempio perché nostro figlio è violentemente geloso del fratellino, o ha paura dei cani, o non vuole andare a scuola, o bagna ancora il letto, oppure mangia troppo o non vuole mangiare nulla), ci mancano il tempo e l’agio di esaminare il consiglio ricevuto con quella equanimità che ci consentirebbe di compiere una scelta oculata. L’urgenza è troppo grande, perché davvero nostro figlio si rifiuta di andare a scuola, continua ad avere il terrore dei cani, continua a mangiare troppo o a non mangiare, a fare cose pericolose, o ad avere incubi dai quali ci chiede di proteggerlo. E se anche non ci chiede esplicitamente di “fare qualcosa”, noi ci sentiamo in obbligo di aiutarlo, il che non ci facilita certo nell’assumere un atteggiamento obiettivo. E se per caso il problema dovesse momentaneamente recedere, noi continuiamo a domandarci preoccupati quale potrebbe esserne stata la causa, perché sappiamo fin troppo bene per esperienza che la tregua non durerà, o che il problema rispunterà sotto altra forma. Sicché non possiamo evitare di continuare a rimuginare sul consiglio ricevuto, sui suoi vantaggi e svantaggi, il che il più delle volte ci impedisce di valutare obiettivamente se e in quale misura sia adatto a risolvere il nostro problema.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 39

Motivi che spieghino il suo fallimento

Se un bambino che possiede le abilità necessarie per riuscire bene a scuola invece va male, devono esistere dei motivi che spieghino il suo fallimento, dei motivi che, per quel bambino, devono evidentemente essere più pressanti del desiderio di ottenere tutte quelle gratificazioni.

Per poter comprendere tali motivi dobbiamo scoprire da quale prospettiva il fallimento scolastico può apparire più desiderabile del successo. Solo la convinzione aprioristica dei genitori che non possa esistere una simile prospettiva impedisce loro di capire come mai il figlio abbia scelto il fallimento invece del successo. Se solo si sforzassero di vedere le cose da un’angolatura che renda intelligibile la scelta del figlio, allora il suo modo di ragionare apparirebbe anche a loro comprensibile e del tutto logico; e, quel che più conta, il conflitto si risolverebbe ed essi saprebbero come indurre il bambino a modificare la sua scelta in modo che si conformi maggiormente alla loro.

Il caso di Emma può servire a illustrare questo punto. Emma era una ragazzina i cui genitori si erano sempre distinti in campo intellettuale e attribuivano la massima importanza al successo scolastico. Tuttavia Emma aveva un rendimento mediocre, diversamente dal fratello maggiore, che, con evidente soddisfazione dei genitori, era sempre stato il primo della classe. Comunque la ragazza se l’era sempre cavata in tutte le materie, se non che, improvvisamente, incominciò a prendere insufficienze in tutto. Ovviamente, questo angustiò molto la madre, che da sempre era preoccupata per lo scarso entusiasmo di Emma per lo studio; aveva provato a ridurre la quantità di tempo che la figlia passava davanti al televisore, e a indurla a leggere “libri validi”, ma tutto era stato vano. Né erano serviti a chiarire l’enigma i colloqui con gli insegnanti: anch’essi erano sconcertati dall’improvviso calo del rendimento di Emma.

La madre, infelice e confusa, si rivolse allora allo psicologo perché le consigliasse come fare a indurre la figlia a leggere buoni libri e a fare meglio a scuola. La donna diede sfogo alla sua preoccupazione per il disinteresse della ragazza per la lettura, per la sua abitudine di andarsene a zonzo con gli amici o rimanere per ore davanti al televisore; e non fece mistero della propria esplicita e severa disapprovazione nei confronti della figlia. L’unico dato al quale non fece cenno, finché non le venne chiesto direttamente di descrivere la situazione familiare, fu che diversi mesi prima il marito se n’era andato di casa.

La separazione evidentemente era così dolorosa per lei che preferiva non parlarne e non pensarci, benché si rendesse conto di come avesse creato gravi difficoltà per tutti in famiglia. Dal canto suo, ora sentiva più forte di prima l’obbligo morale di vigilare a che i figli non si sbandassero. Aveva dunque insistito perché Emma studiasse con maggiore impegno, ottenendo però l’effetto opposto.

Alla donna non era neppure venuto in mente che potessero esistere validi motivi per il comportamento della figlia; l’indolenza e la ricerca di piaceri insulsi le erano parsi una spiegazione sufficiente.

Se invece fosse partita dalla convinzione che la figlia doveva avere per le proprie azioni motivi altrettanto validi di quelli che aveva lei per desiderare che invece leggesse buoni libri e si impegnasse negli studi, allora forse le sarebbe venuto in mente di porsi la seguente domanda: come mai Emma, che pure aveva sempre ottenuto la sufficienza, ora improvvisamente era stata bocciata in tutte le materie, e non solo in una o due? La donna svolgeva lavoro di ricerca in campo scientifico ed

era quindi abituata a prendere in attenta considerazione tutti i dati concomitanti prima di giungere a una conclusione circa le cause di un fenomeno. Eppure, quando il problema riguardava sua figlia, non si era posta domande del tipo: quale importante fattore potrebbe spiegare un cambiamento così radicale del rendimento scolastico di mia figlia? Oppure: quali altri eventi significativi hanno avuto luogo più o meno contemporaneamente al fallimento scolastico di Emma? Se avesse riflettuto su questi interrogativi, le sarebbe apparso evidente che, in concomitanza con il peggioramento a scuola, si era verificato un grosso cambiamento nella vita della ragazza: la partenza del padre molto amato. E la connessione tra i due eventi le sarebbe parsa quanto meno ipotizzabile.

Il timore che il fallimento del suo matrimonio potesse avere conseguenze distruttive sulla vita dei figli, e il ferreo proposito di evitare che questo avvenisse, avevano impedito alla donna di percepire le vere intenzioni della figlia, tanto più che le sue emozioni personali si erano innestate sulla convinzione di fondo che non potessero esistere motivi validi per andare a scuola. Il suo giudizio negativo sulle motivazioni della che attribuiva a pigrizia, superficialità, gusto per i piascadenti, e il dispiacere che ne provava, le avevano impedito di cercare una spiegazione più generosa del comportamento della ragazza. Essendo sicura della correttezza del proprio giudizio, le era semplicemente impossibile capire come Emma volesse quello che voleva lei: riportare il padre in seno alla famiglia.

Contrariamente all’idea della madre che il suo insuccesso scolastico fosse una prova della scarsa importanza attribuita allo studio, in realtà la ragazza aveva assimilato la convinzione dei suoi genitori che lo studio potesse cambiare la vita di una persona e conseguire risultati importanti. Tant’è vero che aveva deciso di fare leva appunto sui sentimenti di suo padre verso il rendimento scolastico dei figli per conseguire il risultato che in quel momento per lei contava più di qualsiasi altra cosa: il ritorno del padre in seno alla famiglia. Emma era abbastanza intelligente da rendersi conto che, se avesse continuato a essere promossa, suo padre l’avrebbe interpretato come un segno che tutto andava bene nonostante la sua assenza e dunque non c’era bisogno di lui. La sua inaspettata e imprevedibile bocciatura, invece, l’avrebbe forse preoccupato al punto da farlo tornare: allora tutto sarebbe tornato come prima, compresi i suoi voti a scuola. Prendere l’insufficienza in tutte le materie, dunque, era stato una specie di stratagemma per far tornare a casa il padre, anche se, naturalmente, a livello di coscienza, la ragazzina avvertiva soltanto la vaga sensazione che, senza l’aiuto dei padre, non riusciva a studiare. Sua madre, tutta presa dai propri problemi, si limitava a sperare che non ci fossero conseguenze più gravi, ma Emma era più ottimista: era convinta che la rottura fosse reversibile, e si dispose a fare quanto in suo potere per ricomporre la famiglia. Per quanto riguardava il valore dello studio, l’accordo con la madre non poteva essere più totale, anche se la madre non lo poteva capire.

Dunque un comportamento che apparentemente indica una divergenza tra genitori e figli, può in realtà essere motivato dal medesimo scopo; solo che i mezzi usati per raggiungerlo sono molto diversi. Emma, è vero, si era comportata in modo ingenuo e immaturo, senza tener conto delle conseguenze lontane delle sue azioni. Ma, alla sua età, come avrebbe potuto essere altrimenti? E inoltre, considerando le cose realisticamente, che altro avrebbe potuto fare per scuotere veramente suo padre?

Più spesso di quanto non si creda, i figli vogliono le stesse cose che vogliono i loro genitori. Il bambino nutre un così profondo attaccamento per i genitori, la sua vita è così inestricabilmente legata alla loro, che non può fare a meno di rispondere istintivamente a quello che passa per la loro mente e per il loro cuore. Solo che i bambini il più delle volte reagiscono ai contenuti dell’inconscio dei genitori, più che ai contenuti presenti alla coscienza, giacché essi stessi sono molto più in contatto con l’inconscio di quanto non lo siano gli adulti. Il bambino, dunque, reagisce soprattutto all’inconscio del genitore.

Nel mondo infantile, dove il sole sorge e tramonta in virtù del padre e della madre, dove non c’è nulla che sembri impossibile per loro, quella che noi chiameremmo realtà oggettiva conta ben poco.

Per quanto ardentemente desiderasse che il marito tornasse da lei, la madre di Emma, essendo vincolata alle leggi della realtà e ben conoscendo come funziona il mondo, e soprattutto come funzionava il suo ex marito, si sentiva impotente a cambiare quella situazione. Inoltre, poiché il suo abbandono l’aveva ferita profondamente, ora nutriva sentimenti ambivalenti nei suoi confronti. Essendo personalmente convinta che nulla avrebbe potuto farlo ritornare in famiglia, non le venne in mente che la figlia potesse essere motivata dal desiderio che il padre ritornasse a stare con loro.

Invece, i sentimenti di Emma verso il padre non erano ambivalenti, sicché la ragazzina aveva reagito solo a una faccia dell’ambivalenza materna: a quella che desiderava la ricostituzione della famiglia, quella che coincideva con i suoi stessi

desideri. Perciò si era buttata (inconsciamente, beninteso) con tanta decisione a realizzarli, e le sembrava incomprensibile che la madre la criticasse. Emma, che viveva nel presente, non poteva nutrire preoccupazioni circa il suo futuro, come invece faceva la madre; quello che occupava tutto il suo animo era il dolore, reale e presente, per la perdita del padre.

La ragazzina non conosceva il padre, per esperienza diretta, nella sua veste di marito odi uomo adulto dai molteplici interessi fuori della famiglia. Per lei era essenzialmente suo padre: gli altri aspetti della sua vita rivestivano scarsa realtà.

Ora che si era spezzato il rapporto per lei così importante tra padre e figlia, non riusciva a pensare ad altro che al suo bisogno di ricostituirlo. Non era in grado di vedere il rapporto tra i suoi genitori quale realmente era; lo vedeva come un bambino desidera che sia. Visto da questa prospettiva, il ritorno del padre appariva molto più possibile e molto più facilmente realizzabile di quanto non sembrasse a sua madre. Perciò Emma si dispose a fare tutto quello che poteva perché il suo desiderio, che nella sua percezione coincideva con quello della madre, si realizzasse.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 81

Se un bambino è incapace di studiare

Pertanto, se a un bambino, che è incapace di studiare, perché inizialmente era stato portato a detestare lo studio e a farne il pretesto della sua ribellione contro i genitori, ma che ha rimosso il desiderio di ribellione perché lo trovava troppo angosciante, se a un tale bambino chiedessimo se vuole bene ai suoi genitori, egli risponderebbe di sì senza esitare. E direbbe la verità: infatti era stato appunto il suo amore per i genitori a provocare tanto risentimento all’idea che per loro fosse più importante il suo rendimento a scuola che non la sua persona. Tuttavia il bambino rifiuterebbe come assolutamente incomprensibile l’idea che non studiare o non stare attento in classe sia una forma di ribellione ai genitori, perché tale intenzione è ormai rimossa e quindi inaccessibile alla sua coscienza. E se gli si domandasse come mai non studia, visto che l’amato genitore lo vorrebbe tanto, quel bambino, del tutto sconcertato da una simile contraddizione, si limiterebbe a rispondere: “Vorrei studiare di più, ma non ci riesco.” E questo è davvero tutto quello che sa, a livello di coscienza. Di fronte a un paradosso del genere non stupisce che sia il genitore sia il figlio si sentanto così disorientati.

Ho in precedenza affermato che il bambino è fortemente influenzato dai processi inconsci del genitore; ma è altrettanto vero che il genitore, senza rendersene conto, reagisce in maniera significativa ai processi in atto nell’inconscio de figlio. Di norma, in molte altre situazioni, i genitori accettano come un proprio dovere la responsabilità di rispondere positivamente alla naturale mancanza di capacità tecniche e di conoscenze dei figli, e cercano di supplirvi risolvendo i problemi che i figli non sono in grado di affrontare da soli. Ma quando la loro ansia cosciente circa il futuro del figlio che va male a scuola viene accéntuata dalla sensazione inconscia che si tratti di un atto di ribellione nei loro confronti, allora è facile che pendano la pazienza. Avvertendo questo elemento di ribellione inconscia nel comportamento del figlio, i genitori tendono ad aumentare ancora di più le loro pressioni su di lui. Tali pressioni e l’intensità delle emozioni che vi stanno dietro, ben avvertite dal bambino, vengono da lui sentite come una prova di più che quello che importa veramente ai suoi genitori è solo il suo rendimento: conclusione che ferisce profondamente i suoi sentimenti. La ferita alimenta la sua inconscia ribellione, accentuandola, sicché ora prova risentimento non solo contro la scuola, ma anche contro il genitore. Il che, a sua volta, aumenta l’irritazione del genitore, e tutti si sentono sempre più infelici.

I tentativi di appianare la situazione ricorrendo a lezioni supplementari sortiscono di solito scarsi o comunque solo circoscritti risultati, perché il conflitto originario era tra il bambino e il genitore, e non tra il bambino e la scuola. Indipendentemente dai risultati che si possono ottenere mediante il supporto delle lezioni private, il conflitto inconscio sottostante potrà essere risolto soltanto dal genitore, che dovrà innanzi tutto smettere di assillare il figlio perché faccia meglio a scuola, e in secondo luogo, alleviarne la sensazione angosciosa che a lui, al genitore, stia più a cuore il suo rendimento scolastico che non la sua persona.

Una volta che i genitori abbiano riconosciuto dentro di sé che gli insuccessi scolastici del figlio sono dovuti al suo risentimento, basato sulla convinzione che ai genitori stiano più a cuore i suoi voti che non la sua individualità di persona che ha bisogni, desideri e angosce particolari, allora i loro sforzi per dimostrare al figlio quanto in realtà tengano a lui, lo amino e vogliano solo che sia felice, riusciranno a capovolgere la situazione. Solo a quel punto potrà risultare rassicurante per il figlio sapere che le preoccupazioni che i genitori nutrivano per il suo rendimento scolastico costituivano un aspetto poco importante (e anche, come ora hanno capito, sbagliato) della più generale preoccupazione per il suo benessere e la sua felicità. Se poi a tale presa di coscienza da parte dei genitori si accompagna anche, come di solito quasi automaticamente avviene, un mutamento del loro atteggiamento, il figlio ne verrà aiutato a prendere coscienza a sua volta delle motivazioni che gli avevano fatto rifiutare lo studio. Il fatto che i suoi genitori siano riusciti a comprendere tutti i meccanismi in gioco, elimina la necessità di mantenere rimosse le sue motivazioni: quello che i genitori possono accettare in lui, anche il bambino lo può accettare. Avendo acquistato una certa consapevolezza dei propri processi inconsci, le sue motivazioni tornano a essere accessibili al controllo cosciente, ed egli è libero, ora, di decidere se vuole o meno riuscire bene a scuola.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 89

Le motivazioni di nostro figlio

Forse i lettori si chiederanno che rapporto esiste tra il fatto di esserci formata un’idea delle motivazioni di nostro figlio e quello di interrogano o meno al riguardo. Ebbene, nel caso che approviamo le sue motivazioni, non c’è bisogno di fare domande. Per esempio: supponiamo che per un lodevole impulso di generosità nostro figlio desideri regalare uno dei suoi giocattoli preferiti, ma noi non possiamo permetterlo. In tal caso, basta che gli spieghiamo perché non può regalare quel particolare giocattolo, esprimendogli contemporaneamente il nostro apprezzamento per l’impulso generoso. E se pure ci sbagliamo nel valutare certe sfumature delle sue motivazioni, il bambino stesso sarà probabilmente ben felice di correggerci, perché la nostra spontanea approvazione gli farà sentire che lo capiamo. -La sua fiducia in noi ne verrà confermata e, cosa molto importante, lo indurrà a esser altrettanto aperto con noi in occasioni future.

Quando l’approvazione del genitore è impossibile, le cose cambiano. Allora diventa ancora più importante soppesare bene le motivazioni di nostro figlio, ma va valutato con la massima attenzione anche il grado di consapevolezza che egli stesso può averne. Se non possiamo approvare le sue ragioni, dobbiamo domandarci: che effetto avrà allora su di lui essere costretto a rivelarcele? Si sentirà a disagio? Si sentirà indotto a mentirei? E quando, sentita la sua risposta, saremo costretti a criticare quello che ci ha detto, questo fatto non lo indurrà a pensare che dire la verità ha conseguenze negative per lui?

Un caso ancona diverso è quello in cui l’adulto, oltre a disapprovane il comportamento del bambino, è incapace di immaginarsi le sue motivazioni. Se le nostre domande portano a risposte chiarificatrici, tanto di guadagnato, a un certo livello; ma a un altro livello nel bambino il bruciore per essere stato sottoposto a un interrogatorio rimane. Ammettiamo pure che egli ritenga di essere stato ascoltato senza pregiudizi e di avere avuto la possibilità di convincerci che aveva ragione, il che è un’ottima cosa; ma nessuno gli può togliere la sensazione che non l’avevamo capito, prima: altrimenti che bisogno avremmo avuto di porgli tante domande? Questo non accrescerà certamente il Suo rispetto per un adulto che dà prova di così scarsa immaginazione ed è così pronto ad attribuirgli motivazioni poco accettabili. Dunque, nella migliore delle ipotesi, la reazione del bambino sarà ambivalente: i miei genitori sono giusti, ma ci vuole una bella fatica da parte mia per farle mie ragioni; perché non si sono fidati che fin dall’inizio io sapessi quello che stavo facendo?

E poi, naturalmente, esiste sempre la possibilità che egli non sappia il perché delle sue azioni. Se le nostre domande obbligano nostro figlio ad ammettere di non sapere perché ha fatto una certa cosa, la nostra reazione sarà probabilmente di non credergli e di pensare che stia facendo dell’ostruzionismo. E il bambino scoprirà che il suo comportamento è incomprensibile non solo a lui stesso, ma anche agli adulti alla cui maggiore esperienza della vita è affidata la sua sicurezza. Risultato: una ulteriore diminuzione del rispetto del bambino per i suoi genitori e una maggiore riluttanza ad accettare la loro guida, dato che non sanno capirlo meglio di quanto egli stesso non sappia fare.

Dover ammettere pubblicamente di non conoscere le proprie motivazioni, anziché limitarsi a sospettano dentro di sé, è un’esperienza a dir poco imbarazzante per un bambino o un ragazzo. Se è costretto a riconoscere una cosa del genere come un dato di fatto, come potrà mai fidarsi di se stesso? Se ne sa così poco sulla propria persona e se i suoi genitori ne sanno poco più di lui, che speranze può avere di riuscire mai a comprendere se stesso e le proprie motivazioni? Come potrà comportarsi in modo più avveduto in futuro? Essere costretto a guardare in faccia la propria ignoranza circa se stesso incrina la fiducia in sé del bambino e inquina il rapporto con l’adulto, le cui domande lo hanno costretto a una così avvilente ammissione.

Inoltre, quando gli viene domandato perché ha compiuto una certa azione, il bambino che non lo sa ha tuttavia l’impressione che dovrebbe saperlo. Perciò, oppure perché non può ammettere con se stesso di non saperlo, le domande dell’adulto possono indurlo a mentire. Come osservò Oliver Goldsmith, “Non fatemi domande, e non vi dirò bugie”. Sentirsi costretto a mentire distrugge il rispetto di sé del bambino, lo fa séntire un impostore, se non peggio; e lo allontana dall’adulto, che con le sue domande l’ha fatto sentire così scontento di se Stesso.

Dunque, se non siamo arrivati da soli a formarci un’idea delle possibili motivazioni di nostro figlio, non possiamo prevedere se sarà in grado o meno di rispondere la verità, né possiamo prevedere le conseguenze indesiderabili che il nostro interrogatorio potrà avere. D’altro canto, se sappiamo in anticipo quale sarà la probabile reazione di nostro figlio, e ci sembra di conoscere con buona approssimazione quali debbano

essere state le sue motivazioni, allora interrogano non può avere altro senso se non quello di metterlo con le spalle al muro.

Riassumendo: se il bambino non sa quali sono le vere ragioni del suo comportamento, interrogarlo lo farà sentire impotente. insicuro e incerto circa la validità delle sue azioni. Se, avendo compreso le sue motivazioni, intendiamo svelargliele, sarebbe molto meglio per entrambi se lo facessimo senza prima fargli perdere la fiducia in se stesso. Se le ragioni di nostro figlio sono ai suoi stessi occhi riprovevoli, delle due l’una: o mentirà, a noi e forse anche a se stesso, che è molto peggio; oppure sarà costretto a rinnegare le sue ragioni, cosa che certamente non servirà a farci amare da lui né ad accrescere la sua fiducia di saper agire con intelligenza.

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 115

Sforzarsi di metterci nei panni dell’altro

Avere una reazione empatica significa sforzarsi di metterci nei panni dell’altro, così che i nostri sentimenti ci facciano intuire non soltanto le sue emozioni ma anche le sue motivazioni. Significa comprendere l’altro dall’interno, non dall’esterno, come potrebbe fare un osservatore interessato o anche coinvolto, che cerchi di capire i motivi dell’altro con l’intelletto.

Freud parlò della simpatia che esiste tra l’inconscio di una persona e quello di un’altra, intendendo che è possibile comprendere l’inconscio di un altro solo attraverso il nostro. Non è possibile spiegare adeguatamente con le parole che cosa significa provare certe emozioni, come l’amore, la collera, la gelosia, l’angoscia, o certi stati emotivi come la depressione o l’esaltazione. Ma se li abbiamo vissuti a nostra volta, sappiamo come deve sentirsi l’altro, e allora ci sentiamo molto vicini a lui, lo comprendiamo molto meglio che se dovessimo basarci soltanto su quello che lui ci può dire. Pensino i grandi poeti per comunicare sentimenti molto profondi devono ricorrere al linguaggio simbolico; parlano per metafore e allegorie, perché non esiste espressione diretta atta a comunicare quello che vogliono comunicare. E noi, per arrivare al senso di una poesia, dobbiamo leggere anche tra le righe, dobbiamo affidarci a quello che le parole del poeta suggeriscono al nostro inconscio, rispondere ai simboli, alle allusioni, alle metafore.

Non possiamo aspettarci che i nostri figli sappiano dirci quello che provano nell’intimo, quello che succede nel profondo del loro animo, tanto più che in gran parte questi processi sono accessibili alla loro coscienza ed essi non possono idi formularli. Per comprendere che cosa li muove nel loro no dobbiamo affidarci alle nostre reazioni di empatia: mentre con la ragione cerchiamo di tradurre quello che vogliono dirci con le loro parole e azioni, il nostro inconscio, proiettandosi nell’oggetto contemplato, cercherà di coglierli in rapporto ai nostri vissuti personali, passati e presenti. Così facendo, potremo dire di capirli veramente, e nello stesso tempo scopriremo di capire meglio noi stessi.

Per meglio spiegare la natura e l’effetto terapeutico dell’empatia mi rifarò al caso di un ragazzino di otto anni, riferito dalla psicoanalista infantile Olden. Nei primi tempi della terapia, il bambino dettò all’analista un racconto che iniziava con “Mia madre è una figlia di… Mio padre è un figlio di… Mia madre è schifosa. La mia analista è schifosa e orrenda”, e proseguiva su questo tono. Era la violenta espressione della sua rabbia divorante, per cui era stato sottoposto a trattamento. Ben sapendo che l’analista non avrebbe reagito al suo scoppio di collera come erano soliti fare i suoi genitori, i suoi insegnanti e il resto delle persone, il bambino volle che fosse chiamato un altro adulto a leggere quello che aveva dettato: così l’analista avrebbe visto come reagiva di solito il mondo nei suoi confronti. Venne dunque chiamata una terza persona, che lesse il racconto molto attentamente e con grande simpatia. Non ricevendo la reazione scandalizzata e di condanna alla quale era abituato, il ragazzino disse in tono provocatorio: “È una bella storia, vero?” Al che la persona che aveva letto il suo irato messaggio rispose con grande compassione: “É una storia molto triste.”

L’imprevista risposta spiazzò il ragazzino, che considerava il suo racconto un attacco pieno di livore e di rabbia. Quando si fu riavuto dalla sorpresa volle sapere perché l’altra lo definiva triste, e si sentì rispondere che era triste, molto triste, perché mostrava quanto poco egli si amasse: un bambino deve odiarsi profondamente per vedere negli altri solo il male, ed essere così in collera con il mondo.

Provando a sentirsi come una persona che vomita rabbia contro coloro ai quali dovrebbe sentirsi più vicina, che più dovrebbe amare, la donna poté vivere dentro di sé le fonti più profonde dei sentimenti di quel bambino. Le risultò chiaro così che solo una profonda tristezza poteva spiegare una tale rabbia, la tristezza causata dalla disperazione per non essere capace di amarsi. Per il piccolo paziente il sentirsi compreso nei suoi sentimenti più profondi e il vederli accettati con simpatia, anziché rifiutati, come accadeva di solito, segnò l’inizio di un profondo cambiamento nel modo di vedere se stesso e il mondo. Un’analoga accettazione da parte della sua analista non avrebbe sortito il medesimo effetto, in quella fase iniziale della terapia; il bambino, infatti, era abbastanza intelligente da sapere che per l’analista accettare i pazienti faceva parte del suo mestiere. Ma il fatto che una persona che non aveva un simile obbligo e che praticamente non lo conosceva potesse capire che il problema non era l’aggressività come avevano sempre pensato gli adulti, bensì la tristezza, gli diede la speranza che prima o poi le persone per lui più importanti, i suoi genitori, potessero rispondere positivamente alla sua infelicità, invece che solo negativamente alla sua collera. Nessuna domanda, per quanto ben intenzionata, avrebbe potuto ottenere quel risultato: gli avrebbe solo confermato la convinzione che nessuno lo capiva e voleva capirlo.

Quel bambino di otto anni, pur così intelligente, non sarebbe potuto risalire alle sorgenti della sua rabbia divorante. L’intensità dei sentimenti di collera dei bambini costruisce una sorta di muro impenetrabile, che nasconde tutto ciò che vi sta dietro. È  un’esperienza che dovrebbe esserci familiare, giacché anche molte persone più mature sono incapaci di riconoscere le fonti della loro collera. E il motivo è che chi vive sotto l’influsso psicologico di sentimenti così intensi da dominare tutta la vita (in particolare se si tratta di sentimenti come la collera) è incapace di pensare razionalmente. Questa emozione riempie a tal punto tutto il loro essere che non riescono a prenderne le distanze abbastanza da comprenderne le cause.

Prendere le distanze da emozioni divoranti, penetrare al di là di esse fino alle loro origini è difficile anche per le persone mature. In realtà, l’esserne capaci è uno dei segni della vera maturità; una caratteristica fondamentale della maturità è appunto la capacità di uscire, per dire così, da se stessi e dalle proprie emozioni, anche le più intense, per contemplarle con imparzialità. Ma non tutti ci riescono, e non sempre, neppure quando è passata da un pezzo l’adolescenza. A maggior ragione dunque, se vogliamo capire nostro figlio quando è mosso da intense emozioni, dobbiamo cercare di comprendere con l’empatia quello che si agita nel suo intimo, e rispondere con il sentimento e con l’azione a quanto abbiamo in tal modo scoperto dentro di noi. Ma per poterlo fare, non dobbiamo permetterci di farci trascinare dalle nostre reazioni al comportamento manifesto del bambino o del ragazzo.

Il piccolo paziente della Olden poteva solo dire “Mi riempie rabbia!” e quel qualcosa che lo riempiva di rabbia era il suo conscio, era l’inconscio la sorgente della sua collera. Se gli fosse chiesto di essere più preciso, avrebbe potuto solo cavarne fuori delle razionalizzazioni, essendogli ignoto il contenuto del suo inconscio. Avrebbe oscuramente avvertito, però, le sue razionalizzazioni erano vuote, superficiali, marginali; e le domande dell’adulto non avrebbero fatto altro che accrescere la sua furia, perché l’avrebbero obbligato a riconoscere i limiti della sua comprensione di sé.

Oggi i genitori sanno, intellettualmente, che agiscono in noi potenti emozioni che determinano gran parte delle nostre azioni, e che possono occorrere anni di duro lavoro per portarle a livello di coscienza; sanno anche che questo non è un processo che si possa avviare a comando, anzi, esservi obbligati può rendere ancora più inaccessibile il materiale dell’inconscio. Dato che il motivo della rimozione di quei certi sentimenti era il fatto che riconoscerli sarebbe stato troppo angosciante o pericoloso, sentirsi chiedere di rivelarli accresce l’angoscia e dunque il bisogno di mantenerli rimossi. Come mai allora i genitori, che intellettualmente sanno tutte queste cose, all’atto pratico trovano così difficile agire di conseguenza? A mio avviso, il problema (come in quasi tutte le difficoltà che si creano tra genitori e figli) scaturisce dal desiderio cosciente da parte di noi genitori di avere intimità con i nostri figli, e dalla sensazione, inconscia, che essi possano essere veramente nostri solo se non ci tengono nascosto nulla: poiché si tratta di nostro figlio, non dovrebbe esserci nulla che lo riguardi, neppure la sua vita interiore, che ci possa sfuggire. Siamo disposti a riconoscere che nostro figlio ha un inconscio, ma, se è ammissibile che esso rimanga ignoto a chiunque altro, a noi, che siamo i suoi genitori, non può e non deve restare nascosto!

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 122

Quando ci rispondono “Non lo so”

Quando ci troviamo a un punto morto con nostro figlio e non riusciamo a evocare una reazione di empatia nei suoi confronti, dovremmo almeno cercare di provare simpatia per la posizione in cui egli si è venuto a trovare. Usando le nostre risorse di adulti possiamo proporgli noi una soluzione, assicurandoci, penò, nel caso che egli accetti il nostro suggerimento, che non lo faccia solo per compiacerci o per evitare altre discussioni. Per questo motivo è preferibile invitarlo a vagliare la nostra idea ed eventualmente a perfezionarla. In tal modo è più facile che escano fuori le sue vere reazioni, e inoltre si acuiscono le sue facoltà di giudizio critico, cosa che non avverrebbe ponendogli una domanda diretta. Invitandolo a reagire alla nostra idea (“Che cosa ne pensi?”), invece che ad accettarla semplicemente, o a difendere la sua, il bambino imparerà come funziona la sua mente e, dovendoli esprimere in parole e frasi intelligibili, si chiariranno anche a lui i suoi pensieri.

Ho già accennato a come la prospettiva di un adulto sia molto diversa da quella di un bambino, e a come sia spesso difficile, pertanto, immaginarsi per quali vie un bambino arrivi alle sue decisioni. Tuttavia, se ci sforziamo di vedere le cose dal suo punto di vista, e quindi offriamo i nostri suggerimenti facendogli capire che il nostro modo di ragionare coincide in parte con il suo e che approviamo, o quanto meno non siamo inclini a disapprovare, le sue intenzioni, allora il bambino sarà felice di dirci liberamente quello che ha in mente.

Ma quando siamo in collera, qualcosa nel modo in cui esigiamo le sue spiegazioni gli dà l’impressione che nutriamo delle riserve sulle sue idee, se già non le disapproviamo. Qualunque bambino sa leggere la disapprovazione nel tono di voce del genitore, nell’espressione del viso, nell’atteggiarsi del corpo e in altri segnali subliminali che noi non ci accorgiamo di emettere, ma ai quali i bambini sono estremamente sensibili. Se nostro figlio teme una reazione negativa a quello che sta per dirci, non riuscirà a rispondere serenamente alle nostre domande, anzi potrebbe turbarsi al punto da non sapere più quali fossero le sue intenzioni. È raro trovare un bambino talmente sicuro di sé e del suo rapporto con il genitore da essere libero da questa forma di ansia. Anche se non è mai stato criticato in precedenza, il bambino vive qualunque critica come rivolta non semplicemente a quello che pensa o che fa in quel momento, ma alla persona che è. Perciò la maggior parte dei bambini espongono agli adulti i loro pensieri con un certo timore che possano essere trovati carenti o pensino con la paura di essere rimproverati o puniti per averli albergati. Tale paura è l’altra faccia del bisogno di approvazione; quello che più di tatto preoccupa il bambino è che lo si faccia sentire inadeguato o cattivo dove a lui inizialmente non pareva di esserlo; e tutto per aver dato voce ai suoi veri pensieri.

Con una preoccupazione del genere è difficile uscire allo scoperto con le proprie opinioni; perciò il bambino le modifica, in modo da non dare adito a obiezioni da parte di chi lo interroga. Spesso si rende conto di non stare dicendo esattamente quello che pensa; altre volte invece non è consapevole di avere censurato i suoi pensieri per renderli più accettabili al genitore. Anche molti adulti non sono del tutto consapevoli di dare una versione opportunamente riveduta, né del perché lo fanno, e quanto più un individuo è giovane, tanto più frequentemente succede così.

Il fatto di non essere coscienti del perché stiamo facendo una certa cosa non significa però che essa non susciti in noi dei sentimenti; significa solo che non ce li sappiamo spiegare, quanto la loro logica si vede negato l’accesso alla coscienza.

il bambino che, per tener buono il genitore, non dice o modifica le sue ragioni per aver voluto fare una certa cosa, prova irritazione con se stesso e risentimento per il genitore, perché non riesce a essere sincero e coraggioso come vorrebbe: l’ansia circa la possibile reazione del genitore glielo rende impossibile suo malgrado. Nel timore che disapproviamo quello che per dirci, cambia idea e risponde alla nostra domanda con “Non lo so”. Una risposta del genere, pensa, è neutra e dunque non può farci arrabbiare. E invece il più delle volte ci fa arrabbiare moltissimo, perché la prendiamo come un rifiuto a risponderci, e perché ci fa pensare che nostro figlio o è così stupido da non sapere quello che fa, o non si fida di noi abbastanza da confidarsi.

In verità, il più delle volte, “Non lo so” è la descrizione corretta dello stato di confusione in cui si trova nostro figlio, e non una scusa o un modo di evadere la nostra domanda. Può darsi che inizialmente sapesse benissimo che cosa stava facendo e perché, e fosse anche convinto della bontà della sua azione e dei suoi motivi. Ma il modo in cui lo abbiamo interrogato in proposito gli ha fatto intendere che noi lo disapproviamo, e ora ha le idee confuse: quello che fino a un momento prima sembrava giusto, ora improvvisamente non lo sembra più molto; e il bambino si sente preso tra due fuochi.

Noi genitori dobbiamo renderci conto di quanto siamo importanti per i nostri figli: non appena avvertono la nostra disapprovazione, subito diventano insicuri circa le loro opinioni. Quello che al bambino sembrava giusto, ora appare sbagliato, e non perché sia mutata la sua percezione di quell’azione, bensì perché essa ha provocato la disapprovazione del genitore. A questo punto egli non sa più quello che pensa: la sua azione rappresentava, a suo modo di vedere, la corretta risposta alla situazione per come la viveva lui, ma ora si scopre che era sbagliata, visto che Io mette in conflitto con il genitore. E un problema che non riesce a sbrogliare: la sua mente immatura non è in grado di comprendere la relatività dei punti di vista; il bambino sa soltanto che una cosa non può essere contemporaneamente giusta e sbagliata; di conseguenza è realmente e completamente sconcertato.

Ecco dunque che le nostre domande, che avevamo posto per il desiderio di capire meglio nostro figlio, provocano solo confusione in lui come in noi. Poiché “Non lo so” è una dichiarazione di incompetenza, il fatto di dovere rispondere così riempie il bambino di risentimento, e siccome la sensazione di essere ignorante e inetto gli è venuta in seguito alle nostre domande, egli dà a noi, che gliele abbiamo rivolte, la colpa dello stato di confusione in cui si è venuto a trovare.

Anche un genitore si sente sconfitto e irritato quando il figlio risponde alle sue domande con un “Non lo so”. In qualunque altra situazione, quando nostro figlio dichiara la sua ignoranza siamo più che disposti a colmargliela, perché sappiamo che è naturale che un bambino sia ignorante o confuso su tante questioni. Anzi, di solito ci piace l’idea di essere la principale fonte di informazione di nostro figlio. Invece quando, disapprovando il suo comportamento, gliene chiediamo conto e ci sentiamo rispondere “Non lo so”, tendiamo a scartare l’idea che possa aver agito senza sapere perché, e non prendiamo in considerazione la possibilità che sia davvero incapace di rispondere alla nostra domanda perché le sue ragioni sono sepolte nel suo inconscio.

Dal canto suo il bambino avverte, sia pure oscuramente, che è la grande importanza che il genitore riveste ai suoi occhi a rendergli impossibile rispondere altro che “Non lo so”. E trova ingiusto essere rimproverato per una risposta che il genitore stesso ha provocato. Sotto questo profilo, il bambino si mostra più perspicace dei suoi genitori, che nella sua risposta colgono solo l’esasperante ostinazione di chi non vuole dire quello che desiderano sapere, e non sanno vedere la ragione che vi sta dietro: la soverchiante importanza che le loro opinioni rivestono agli occhi del figlio, che gli impedisce di dire qualcosa che teme possa fan loro dispiacere o imitarli.

Una situazione analoga si crea quando nostro figlio a nostro avviso non rende abbastanza, a scuola per esempio, e alle nostre domande risponde “Non ci riesco”. Mentre in altre occasioni, quando nostro figlio ci dice di non saper fare una cosa reagiamo quasi sempre con accettazione e simpatia, qui le cose sono diverse. Il nostro atteggiamento è già in partenza di critica negativa, e la risposta di nostro figlio non può che essere evasiva. Il bambino infatti avverte il nostro atteggiamento di critica e vi reagisce, non necessariamente a livello conscio, con una diffidenza e una resistenza, che vanno ad aggiungere nuove frecce all’arco della nostra disapprovazione. Gli sembra che non accetteremo per buone le sue ragioni, dunque perché esporcele? Meglio confessare di non essere capace che non di non averne voglia; e beninteso in molti casi l’incapacità esiste davvero, anche se spesso è dovuta a cause inconsce.

Se vogliamo che nostro figlio ci dia la versione autentica, dobbiamo comunicargli, con il tono di voce, con l’atteggiamento, con la formulazione stessa delle nostre domande, che prenderemo per buona la sua risposta. Allora non si sentirà Costretto a cercare delle scuse o a pretendere ignoranza o incapacità. Reso sicuro dalla nostra sincera disponibilità, sarà felice di alimentarla chiarendo a noi (e a se stesso) quello che pensa.

Si daranno sempre dei casi, tuttavia, in cui, pur riuscendo comprendere, grazie alla nostra capacità di empatia, le ragioni di nostro figlio e a comunicargli la nostra comprensione, ma potremo onestamente associarci alla sua visione delle cose, o approvare la sua condotta. Ma se il bambino, o il ragazzo, sicuro della nostra buona volontà, riuscirà anche ad accettare la nostra guida con uno stato d’animo positivo. Forse le nostre obiezioni non gli faranno piacere, ma non si sentirà sconfitto; e se, come è nostra speranza, modificherà le sue idee e la sua condotta, non lo farà per paura, ma per amore, non perché terne la nostra disapprovazione o un castigo, ma perché desidera conservarsi la nostra stima. È davvero incredibile come si sia pronti a fare qualunque sacrificio pur di meritarci il rispetto e la disponibilità delle persone che per noi sono importanti e che sappiamo essere in sintonia con il nostro modo di pensare e di sentire. Gli stessi sacrifici invece ci costano moltissimo, se vi ci sentiamo costretti da persone della cui buona volontà dubitiamo. Nel primo caso è un piacere e dunque di solito ci viene bene, nel secondo è al massimo un dovere spiacevole, e il più delle volte ci riesce a metà.

Visto che è così difficile evitare le situazioni che possono provocare in risposta un “Non lo so”, è molto meglio non interrogare mai un bambino o un ragazzo sulle sue ragioni. Anche ammesso che conosca le proprie motivazioni, è sempre preferibile non domandargliele, perché, anche se da parte nostra non c’è l’intenzione di criticarlo, lui potrebbe credere altrimenti. Il fatto è che, nell’esperienza di quasi tutti i bambini e i ragazzi, è raro che gli si chieda di dare spiegazioni circa un comportamento che approviamo pienamente. Per esempio, non è nelle nostre abitudini chiedere a nostro figlio: “Perché hai studiato così tanto per prendere quei bellissimi voti a scuola?” Gli domandiamo: “Perché non hai fatto i compiti?” e non: “Perché sei venuto a fare i compiti quando ti stavi divertendo così tanto a giocare con i tuoi amici?” Raramente, per non dire mai, chiediamo: “Perché sei così gentile con tuo fratello?” o: “Perché hai messo in ordine così bene la tua stanza?” Saremo anche prodighi di lodi con nostro figlio quando si comporta bene, ma è improbabile che ci venga in mente di domandargliene le motivazioni (benché esse possano essere altrettanto complesse e persino altrettanto preoccupanti di quelle che sottendono a una cattiva condotta). I nostri figli, dunque, sanno bene che nei nostri “Perché?” è implicita una sfumatura di disapprovazione.

Imparare a mentire

Neppure quando un bambino è così sicuro di sé o così certo di essere nel giusto da essere in grado di spiegare le sue ragioni, le cose vanno sempre lisce. Supponiamo che nostro figlio abbia picchiato un compagno; noi gli chiediamo perché l’ha fatto, e lui in tutta sincerità ci risponde che l’altro se lo meritava: “L’ha voluto lui.” Se lo interroghiamo più a fondo, ci spiegherà che l’altro lo ha fatto arrabbiare, l’ha provocato.

A questo punto molti genitori reagiranno dicendo che non bisogna lasciarsi provocare (benché essi stessi possano a volte trovare difficile mettere in pratica questa massima), o che arrabbiarsi non è un motivo sufficiente per mettersi a menare le mani. In ogni società civile, la violenza fisica va evitata il più possibile. Ma quello che è possibile per un adulto supera speso la capacità di autocontrollo di un bambino, perché è diverso il grado di maturità, la misura in cui riesce a padroneggiare gli impulsi. Quando i genitori se ne escono con massime di questo genere, tutto quello che il bambino ricava da questa esperienza è che suo padre o sua madre non lo capiscono; ma può anche concluderne: “Quando gli dico sinceramente perché ho fatto una certa cosa, l’unica ricompensa che me ne viene in cambio è sentirmi dire che ho torto!” E sorprendente quante esperienze di questo genere collezioni in pochi anni di vita un bambino normale: e ogni volta impara che la conseguenza della sua sincerità è essere criticato dalla persona per lui più importante. Se tale è stata l’esperienza del bambino, gli sarà difficile resistere alla tentazione di ricamare sui fatti, per renderceli più appetibili, essendo convinto che non si può permettere di dirci la verità nuda e cruda.

Una delle spiegazioni che i bambini più comunemente danno per aver picchiato un compagno è: “E stato lui a cominciare!’ Non si tratta del tentativo di scaricare sull’altro la colpa (come alcuni genitori potrebbero pensare), bensì di una descrizione veritiera della situazione psicologica che si è creata: il comportamento dell’altro ha provocato una tale marea di emozioni molto intense, che la capacità di controllarsi ne èstata sopraffatta. Il genitore, che ha potuto notare come l’altro bambino non abbia picchiato per primo, dirà probabilmente “Non è vero!’, intendendo che l’altro non gli ha dato motivo di rispondere con le botte; ma dal punto di vista del bambino motivi ce n’erano in abbondanza. Può anche darsi che un adulto riesca in genere. a mettere in pratica il principio della non-violenza, ma ci sembra realistico aspettarsi il medesimo autocontrollo da parte di un bambino?

Il problema, in questo e in molti altri casi, è che il genitore, avendo valutato la situazione dal proprio punto di vista e stabilito come reagirebbe lui, si aspetta chissà come che lo stesso faccia suo figlio. Ma il bambino è molto più sensibile alle proprie emozioni e molto meno capace di  controllare i propri impulsi. Persino il codice penale prende in considerazione l’atteprie emozioni e molto meno capace di controllare i propri imnuante della diminuita capacità di autocontrollo, e non dovremmo farlo noi, che siamo dei genitori, invece di pretendere che i nostri figli mostrino una padronanza di sé superiore alla loro età?

Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 127