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THE FABELMANS

Regia di Steven Spielberg. USA, 2022, durata 151 min. Età: +13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

(Ti intessa l’utilizzo dei film in ambito educativo leggi BUONA VISIONE – Educare con i film)

  1. Sinossi

The Fablemans viene descritto come il film più personale di Steven Spielberg.

Al centro della storia c’è il giovane Sammy Fabelman, la cui passione per la regia è sostenuta dalla madre. Nel corso degli anni, Sammy è filma spesso le avventure della sua famiglia, tuttavia, a sedici anni, quando la sua famiglia si trasferisce, Sammy scopre una straziante verità sulla madre che ridefinirà la loro relazione e cambierà per sempre il futuro di tutti quanti.

2. Recensione

Quella del regista che racconta se stesso, e in particolare la sua infanzia o giovinezza, non è certo una novità, ma spicca come negli ultimi anni diversi registi abbiano messo su pellicola dei ricordi intimi e familiari: Alfonso Cuarón con Roma, Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, Kenneth Branagh con Belfast, Carla Simón con Alcarràs e, ultimo in ordine di uscita, Steven Spielberg con The FabelmansPer quest’ultimo l’idea arriva direttamente da uno dei personaggi che vediamo in scena, difatti è stato lo stesso Spielberg a dichiarare che fu sua madre a chiedergli di fare un film sulla storia familiare.

Et voilà, a quasi 76 anni e al suo trentaquattresimo film il regista americano racconta tanto se stesso da giovane, soprattutto la nascita e la crescita del suo amore per il cinema, e la storia dolorosa della separazione dei suoi genitori. Spielberg riesce ad unire splendidamente i due temi, che sembrano legarsi l’un l’altro: non è casuale che proprio grazie ad alcune riprese fatte durante una vacanza il giovane Steven, che qui si chiama Sammy ed è interpretato da Gabriel LaBelle, scopre un segreto che porterà al progressivo sgretolamento del suo nucleo familiare. Ecco che il dolore e l’estro creativo entrano in una strana relazione fatta di necessità e repulsione. Ciò che più colpisce di The Fabelmans è la capacità del regista di raccontare la sua famiglia con una dolcezza e una capacità di comprensione dei limiti personali non indifferente, tipica di chi ha compreso fino in fondo chi erano i suoi genitori ed è riuscito ad andare oltre i sentimenti che un figlio prova, incondizionatamente, verso mamma e papà.

Paul Dano e Michelle Williams, che qui interpretano i genitori del giovane Sammy, sembrano una coppia potenzialmente perfetta: lui comprensivo e gentile, lei tenera quanto fragile. I due però hanno visioni della vita opposte, anche per quanto riguarda ciò che il loro figlio dovrebbe fare nella vita, in quanto il padre considera la passione del cinema un semplice hobby mentre la madre, che ha tendenze creative, lo spinge a realizzare sempre più film. Le scene emotivamente coinvolgenti, in questo senso, si sprecano, fin dalle prime sequenze in cui lo Spielberg bambino prova a rimettere in scena le immagini viste in Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille o i momenti di conflitto tra Sammy e la madre.
Menzione speciale va fatta al personaggio della madre e alla sua interprete, Spielberg mette in scena una donna alla disperata ricerca di vita – come ci racconta l’emblematica scena del tornado –, che commette errori proprio perché incapace di controllare la sua sensibilità; Mitzi è dolce e incompresa, interpretata da una Williams in splendida forma, capace di dare un ulteriore tocco di malinconia che rende il personaggio splendidamente umano.

Dunque cinema e vita si intrecciano e, proprio come accaduto per È stata la mano di Dio, viene naturale ripensare alla filmografia del regista dopo questo straordinario racconto/confessione. Ecco che film come E.THook e A.I – Intelligenza artificiale si legano a The Fabelmans, che diventa inevitabilmente il film definitivo sulla famiglia secondo Steven Spielberg.
Il regista scrive e dirige quello che non è solo una lettera d’amore alla settima arte, ma è un vero e proprio viaggio nella cinefilia più sincera e genuina. Il cinema secondo Spielberg è arte e spettacolo, proprio come i film di DeMille e John Ford che il protagonista va a vedere al cinema, ma anche mezzo di comprensione del mondo e modo per trasfigurare la realtà. The Fabelmans emoziona e diverte come pochi film quest’anno ed è destinato a far parlare di sé per molto tempo, indubbiamente uno dei film da non perdere durante queste festività tanto per i cinefili più accaniti, che verranno ampiamente ripagati grazie ad alcuni tocchi geniali, tanto quanto al pubblico alla ricerca di una storia coinvolgente e appagante.

Andrea Porta ( cinequanon.it )

3. Video

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Trailer
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Sammy e i bulli
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Se smetti di fare i film

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Regia di Mike Mills.-

USA, 2021,

durata 108 minuti.

Età+13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

1 Sinossi

John è un giornalista radiofonico dal buon cuore, impegnato in un progetto di interviste ai bambini attraverso gli Stati Uniti sul futuro incerto del mondo. Sua sorella Viv gli chiede di guardare Jesse, il figlio di 8 anni, mentre lei si prende cura del padre del piccolo, affetto da problemi di salute mentale. Dopo aver accettato, Johnny si ritrova a legare con Jesse in maniera inaspettata, vivendo con lui un indimenticabile viaggio da Los Angeles a New York a New Orleans.

2 Recensioni ( 2.1 IL BEL SENTIRE – 2.2 ROAD MOVIE)

2.1 C’mon C’mon: il bel sentire di Mike Mills DI ALESSANDRO CAVAGGIONI npcmagazine.it

Parole, parole, parole. Quanto seduce il blabla nell’ultimo lavoro di Mike Mills, regista dall’intransigente compassione votato a un’indulgenza dei sentimenti. C’Mon C’Mon è un compendio di ipersensibilità impressionista, e apre tutti i cassetti che ci portiamo dentro. Si piange solo alla fine, quando il film finisce e si lascia realizzare.

La storia di uno zio (Joaquin Phoenix nel post-joker è un dono) chiamato a occuparsi del nipote mentre la sorella cerca di ricucire le ferite di una crisi famigliare inscritta nel dolore, poggia sulla formula vincente di Marriage Story: sincerità, semplicità, empatia.

Sembra studiato in un laboratorio di hipsterismo, con un bianco e nero che si proclama importante e una sceneggiatura di piccoli dettagli e grandi espressioni. Ma se questo è il marchio di una comunicazione diffusa nell’autorialismo prodotto dalla A24, il risultato non è certo da sottovalutare.

C’Mon C’Mon è invece un film gentile. Non ti fa piangere, ti da il permesso di farlo. Solo se vuoi. Se te la senti. “It’s ok to not be fine”. Una compassione che arriva al punto giusto, studiata in vitro ma reale, lasciata scorrere in un traffico di immagini che invita a concedersi un momento per lasciare il volante e ascoltarsi.

C’mon C’mon ci chiede di ascoltare

È l’udito il protagonista sensoriale di C’Mon C’Mon. Johnny, lo zio interpretato da Joaquin Phoenix, è un conduttore radiofonico impegnato in uno speciale documentario dedicato ai bambini. A Detroit ne incontra molti e porge loro domande fondamentali: “hai paura del futuro? cosa pensi degli adulti? Cosa cambieresti di te stesso?”. Le interviste alternano le vicende dei due protagonisti, formando un film a parte e un sostegno imprescindibile. Sui titoli di coda, quando la storia è finita, proseguono le parole dei bambini. Mike Mills non li fa recitare e le risposte sono reali e folgoranti. Per seguirle dobbiamo affidare noi stessi all’orecchio, lanciandolo oltre lo schermo come l’amo teso a caccia di parole sincere.

Lo zio affida il microfono al nipote Jesse, che scopre la città in un magma distinto di immagini sonore. Lo sferragliare deciso e ripetuto della metro coesiste nella schiuma dell’onda e nel vociferare da spiaggia, in un’educazione all’ascolto che diventa sentire e si avviluppa nel sentimento.

Due occhi non bastano e in C’mon C’mon si parla alzandoli al cielo, come a girarli verso se stessi quando si cercano le risposte giuste. Il fatto che parte del film sia composto da interviste reali, volti che agiscono liberamente, ci permette di confrontare e confermare poi la veridicità delle ottime interpretazioni attoriali. Jess e John sono una coppia straordinaria, perché fedeli ai loro sentimenti sono Joaquin Phoenix e il piccolo (struggente) Woody Norman. Cogliamo la difficoltà dell’abbinata, con lo zio chiamato nel ruolo mai interpretato di genitore e modello, ma viviamo anche la naturalezza di un incontro umanamente sincero e intellettualmente vivace. Nel confronto vince però la realtà di parole non scritte. I bambini, molto più che lo zio sofferto o l’inusuale nipote, esibiscono una partecipazione strenua alle cose del mondo. Uno in particolare, Duante, si esprime nascondendo ciò che più lo tocca. Perché il sacro non si rivela.

In C’mon C’mon le parole fioccano libere e multiforme. Ci sono le interviste, poi zio e nipote in perenne confronto – spesso in scontro -, i messaggi della madre e i titoli dei libri, scritti su immagini traboccanti di messaggi. Il bianco e nero di Mike Mills, di natura più commerciale che estetica, non dirada in alcun modo il peso di un film densissimo.

Quando i protagonisti giganteggiano goffi con dialoghi sulla vita e sulla morte – a cui lo zio si fa spesso trovare impreparato d’innanzi all’educazione sensibile del bambino – Mills stacca sulla città. Detroit, Los Angeles e poi New York. La poetica statunitense delle due coste è l’occasione per parole incise tra palazzi che tracciano discorsi. Le strade si dividono, intrecciano, seguono l’andamento del film in un’architettura emotiva che osserviamo a volo d’uccello.

Sentiamo del giudizio dal gravare muto della città, osservatrice ospitale e tela per quel “blablabla” che imperversa a bufera in un film che ci sorprende logorroici. Siamo interrogati dal film, che di rado lascia il tempo allo spettatore, ignorando la possibilità che abbia qualcosa da dire. In Manhattan, i cui forti contrasti che eliminano il soggetto rientrano nel film di Mike Mills a monito di una presenza superiore, c’è una splendida scena in cui Woody Allen – microfono alla mano – si interroga sulle “10 cose per cui vale la pena vivere”. Una domanda a cui John, forse, non saprebbe rispondere.

Tutto quel “blablabla” che ci portiamo dentro

Il “blablabla” con cui il nipote riprende lo zio è una trovata sottile. Mike Mills rifiuta il film stesso, salvandolo dalle critiche all’eccesso di discorsi. Quel “bla bla bla” è imprescindibile per rispondere alle domande fondamentali. Anche se pedante, ricorsivo, barocco.

Per quanto ostenti profondità, il film è uno sguardo ottimista e permissivo a quelle stesse difficolta che racconta. Alla fine tutto è accolto, tutto è vita, e l’ultimo voiceover ammanta immagini meravigliose, volti morbidi, sorrisi soffusi. C’è una calma placida, che coccola un po’ troppo per le ambizioni sciorinate lungo la vicenda. Ma è solo una parte del film. La storia dello zio, l’adulto in cerca di fantasie infantili.

Se si rivolge l’attenzione al piccolo si è invece sorpresi da una ferocia sincera. È sua la battuta che ci lascia al pianto: “mi ricorderò di tutto questo?”. Non ci preoccupiamo mai della memoria dei bambini, come se il loro vissuto fosse in trasparenza alla vita vera, quella che segue. Il personaggio di Jesse è invece una notevole dichiarazione di presenza, e fa eco ai bambini realmente intervistati da Mike Mills. Jesse reclama un ruolo da protagonista nella sua stessa educazione, aprendo a un dialogo equo da cui ogni parte trae vantaggio. Alcune frasi scoccano con veemenza: “Ho saputo che mamma ha avuto un aborto”. Ecco, C’mon C’mon ci risveglia spesso da quel sogno di coccole materne che gravitano nella forma scelta da Mills. Arrivano parole che sono “bla bla” difficili da digerire. “E ora che cazzo gli dico”, si chiede lo zio, “non puoi dire la verità a un bambino di 9 anni”.

Imparare a essere genitori

Joaquin Phoenix interpreta un personaggio naive, con cui empatizziamo perché genuinamente indisposto al ruolo di genitore. La madre di Jesse, Vivs, è molto più lucida e conscia del fratello John. Lei, che affronta fuori campo il bipolarismo del padre di Jesse, è armata di realtà. In brevi flashback scopriamo che i due hanno a lungo litigato per la madre malata. John assecondava le fantasie della malattia, Vivs no. Al contrario ora John non vuole, anche se invitato da Vivs, seguire Jesse nella sua inusuale abitudine di fingersi orfano in cerca di casa. È il ruolo del padre il vero assente, che John non riveste mai scegliendo invece il solco preparato dalla sorella. La genitorialità improvvisata cambia le prospettive e apre a una messa in discussione dei ruoli educativi come mitici monoliti da replicare.

C’mon C’mon è un film che amiamo con facilità. Ci stringe a sé e dedica ogni istante concessogli a perifrasi sui grandi temi di sempre. Lo sappiamo che il bianco e nero è un trucco, che il voice over è un semplice sussurro e che in fondo è un percorso senza meta. Eppure non è una truffa. Per quanto ridondante e privo di intuizioni inedite, C’mon C’mon è un’antologia di meditazioni erette a monumento: entriamo da turisti, già consci di ciò che ci attende, ma il biglietto vale il tour e alla fine ci rende un po’ più vivi.

2.2 Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills (Fabio Vittorini duels.it)

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.


3 Video

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Perché sei solo? …..bla …bla

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Less is more – Le parole dell’educare

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Quando pronunciamo alcune parole come amore, desiderio, regola, ne conosciamo il significato più profondo? Sappiamo farci accompagnare da loro nel nostro agire quotidiano e nelle relazioni con l’altro?

L’autore ha approfondito la natura di tredici vocaboli a lui cari, convinto che chiarire il loro significato originario, cercando di coglierne le potenzialità educative, possa non solo ridare senso alle parole ma anche parlare di noi stessi e del nostro rapporto con alcuni concetti pedagogici fondamentali. Perché le “nostre” parole, come conchiglie silenziose sulla spiaggia, aspettano di essere raccolte e portate all’orecchio per svelare un mare di ricordi ed emozioni.

il nocciolo

Il nocciolo
di Isabel Pin

Editore: Nord-Sud
Collana: Libri illustrati
Traduttore: Clementi N.
Data di Pubblicazione: 2001

Sinossi

In una terra divisa da un confine quasi invisibile, vivono due popoli in pace tra loro, fino al giorno in cui un oggetto misterioso, venuto da chissà dove, cade proprio sul confine… È un nocciolo di ciliegia! I due popoli iniziano, quindi, a preparare una vera e propria guerra per impossessarsi del nocciolo. Passano anni in cui fabbricano armi e pianificano strategie e, coinvolti nei preparativi della battaglia non ne ricordano più il motivo, fino a quando arriva il giorno dello scontro, ma il nocciolo non c’è più, è diventato un ciliegio e tutti ne possono mangiare i frutti.

Questa è la storia di due popoli che non vogliono condividere uno stesso oggetto, ma che alla fine capiscono che questo dono è dato per tutti.

Temi

  • Conflitto
  • Condivisione
  • Convivenza
  • Crescita
  • Affermazione
  • confini
  • guerra\pace

Attività con i bambini sulla condivisione e sul  conflitto 

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LINK: https://www.comunicazionepositiva.it/dp/dwnl/Attivit%C3%A0%20e%20giochi%20su%20empatia,%20emozioni.pdf

LIBRO: Risolvere i conflitti in classe

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DOPO L’AMORE

REGIA di Joachim Lafosse.  Titolo originale L’économie du couple.

Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 100 min. – Francia, Belgio 2016.

 

Risultati immagini per dopo l'amore scene film

 

INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. VIDEO

1) TRAMA

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile

2) RECENSIONI

Un dramma borghese intimo e vibrante in cui ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti di Marzia Gandolfi  mynovie.it

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile.
Troppo spesso in una coppia il denaro diventa il mezzo migliore per esercitare potere sull’altro, per fargli pagare letteralmente il fallimento della relazione. Dopo l’amore abita lo scacco e presenta la fattura del disamore di una coppia che non sa più come accordare i propri sentimenti, regolare i propri conti, le responsabilità genitoriali, le tenerezze intermittenti, i rancori costanti. Joachim Lafosse, che ha fatto delle relazioni umane il suo terreno di elezione (Proprietà privata, Les Chevaliers blancs), dirige un dramma borghese in più atti intimo e vibrante. Ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti.
Interpretato da Bérénice Béjo e Cédric Kahn, che superano i confini della rappresentazione, Dopo l’amore mette in scena con rara proprietà, eludendo cliché e psicologismi, i dubbi, le paure e la vitalità, malgrado tutto, di una coppia arrivata a fine corsa. Abile nell’individuare ed emergere i movimenti sottili che corrompono i sentimenti, l’autore belga chiude i suoi protagonisti in un interno e fa di quel domicilio coniugale qualcosa su cui litigare ma non la ragione del litigio, che è sempre altrove. La casa è il terreno su cui si cristallizza il loro rancore, su cui prendono posizione, ciascuno la sua, su cui pesano i rispettivi orgogli. Ma quel domicilio è soprattutto il valore aggiunto in termini d’amore che ciascuno apporta in una relazione. Boris reclama per sé la metà di quella casa certo, ma vuole soprattutto che Marie riconosca che lui è stato lì, che l’ha abitata, l’ha ristrutturata e ne ha aumentato il valore. Lui vuole che lei riconosca che è stato presente, utile, che ha contribuito con la sua ‘competenza’, tecnica e umana, alla costruzione della loro famiglia.
Per Lafosse l’economia di coppia, quella del titolo francese (L’économie du couple), è anche questo, piccole impronte, pennellate, tracce mai sentimentali. È l’amore e non si può ridurre alla metà del valore di una casa. L’amore di cui Marie e Boris si sono amati. Lo attesta ogni sguardo, lo dimostra ogni rimprovero. Marie e Boris sono stati felici e da quella loro felicità sono nate due gemelle, duo inseparabile e opposto ai genitori, isole provvisorie in cui abbandonarsi e abbandonare per qualche minuto la lotta. Le figlie li sfidano disarmanti, li catturano nelle loro coreografie del cuore, li confondono il tempo di una canzone (“Bella” di Maître Gims). Prima che ciascuno ritorni al suo esilio, al frigo diviso in due, a una coabitazione forzata regolata al millimetro e per questo quasi comica. È la loro antica passione a nutrire il rancore di oggi, è la loro economia che adesso si disputano. Ciascuno reclama la sua parte, prigionieri di uno spazio da cui non possono (e non vogliono) uscire. La macchina da presa li segue, li sfiora rimarcando l’erranza disordinata, ripetitiva, ossessionata che li trasloca attraverso l’appartamento, silenziosi, incomprensibili l’uno all’altra. Marie e Boris hanno perso il controllo del quotidiano, sono apparizioni indesiderabili nella cena o negli spazi dell’altro che sembrano godere dell’irritazione che suscita la loro presenza. Ma alla circolazione esasperata dei corpi e dei sentimenti, Lafosse guadagna questa volta la via d’uscita, l’accidente che determinerà una presa di coscienza provvidenziale per Marie e Boris, aggrappati alla routine del loro odio e incapaci di guardare il mondo fuori.
Dopo l’amore termina con un compromesso, un finale aperto e all’aperto, che fa respirare ambiente e personaggi, figurando come eccezione nell’opera al nero dell’autore. Una filmografia che fa vedere senza mostrare. Un’economia straordinaria, pertinente all’amore e al cinema. A una storia semplice così complicata da vivere.

 

L’économie du couple (Dopo l’amore da cinematographe.it Di Virginia Campione

L’économie du couple (Dopo l’amore) è un film di Joachim Lafosse presentato nella sezione Festa Mobile della 34esima edizione del Torino Film Festival dopo il passaggio a Cannes 2016 nella sezione parallela Quinzaine des Réalisateurs. La pellicola ha per protagonisti Marie (Bérénice Bejo) e Boris (l’attore/regista Chédrik Khan), due coniugi inquadrati nel momento più doloroso di una relazione sentimentale: la fine.

Marie e Boris si trovano ad affrontare un’ulteriore imbarazzante difficoltà: vivono ancora sotto lo stesso tetto in attesa di stabilire quanto e cosa spetti a chi con l’ulteriore responsabilità di dover far vivere tale limbo alle loro gemelline. Marie è quella che detiene il maggiore potere economico, avendo potuto la coppia comprare la casa grazie ai soldi della sua famiglia, mentre per Boris finire questo matrimonio senza una cospicua buona uscita significherebbe la rovina, anche a causa dei debiti contratti, che lo portano ad essere periodicamente minacciato dai suoi creditori.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): un “noi” che pretende invano di tornare ad essere l’ “io” di un tempo

 

Nessuna parola o riferimento ai motivi della separazione e dei problemi dei due quasi ex coniugi, Lafosse sceglie di raccontare la più banale delle situazioni sentimentali dal punto di vista toccante e meno esplorato delle conseguenze economiche della fine di una relazione. Un’economia che non si ferma all’aspetto monetario, declinandosi nell’accezione di quel delicato insieme di significati condivisi che non permette di dividersi tornando ad essere quelli di prima, ormai irreversibilmente cambiati dal valore aggiunto e non semplicemente sottraibile di un amore che ha costruito case e figli.

Dopo l’amore si pone così come un ritratto struggente di una famiglia ormai irrimediabilmente divisa ma che ha ancora bisogno di elaborare il lutto edulcorandolo con una vicinanza forzata ma forse non così necessaria come entrambi i coniugi vogliono far credere a se stessi e all’altro.

Marie e Boris affrontano allora tutte quelle piccole grandi insofferenze quotidiane che caratterizzano la fine dell’amore, esasperandole con la pretesa impossibile di salvare spazi e diritti delimitati all’interno della stessa casa, e finendo inevitabilmente per coinvolgere le bambine, confuse e innervosite da una mamma ed un papà che non viaggiano più sulla stessa lunghezza d’onda ma le contendono per prevalere l’uno sull’altra.

 

Quando la tensione emotiva si fa troppo alta, Lafosse permette ai suoi personaggi perfettamente tratteggiati di lasciarsi andare a sfoghi catartici che coinvolgono anche lo spettatore (in primis il toccante ballo sulle notte di “Bella”), partecipe passivo di un dramma che viene mostrato con un’onestà disarmante e dolorosa, riuscendo tuttavia a far sorridere amaramente per quanto si diventa buffi quando si è in realtà disperati.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): fare i conti con un amore finito

 

Dopo l’amore è la dolorosa esplicitazione di come, soprattutto quando una coppia diviene famiglia, uno più uno non faccia più due ma si trasformi in una nuova entità la somma dei cui elementi non può più dare origine agli stessi, se divisa. Perché la coppia crea un nuovo microcosmo fatto di progettualità e beni condivisi, un universo non più scomponibile in modo razionale ma soprattutto impossibile da traslare altrove, fra le pagine di un futuro che – tuttavia – ogni esistenza infelice merita di poter cambiare.

3) VIDEO

 

 

 

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Quando hai 17 anni

Quando hai 17 anniRisultati immagini per quando hai 17 anni filmUn film di André Téchiné.

durata 116 min. – Francia 2016. -VM 14

INDICE

  1. Recensioni

  2. Video

 


RECENSIONI

RECENSIONE N1

Sono innumerevoli i registi che hanno cercato di fissare sulla pellicola dolori e gioie dell’adolescenza, quell’età incerta in cui – dubitando di tutto – si devono prendere decisioni cruciali per la propria vita. Per riuscire a farlo così bene ci voleva un regista ultrasettantenne: o meglio, l’alleanza tra l’ultrasettantenne André Téchiné e la sua collega Céline Sciamma, giovane sceneggiatrice e regista in proprio (Diamante nero). Insieme, ci raccontano la storia di due liceali che vivono nei Pirenei. Figlio di un militare in missione in Afghanistan, Damien abita nella valle con la madre medico; Tom, adottato da una coppia di agricoltori, lavora alla fattoria negli intervalli dello studio. Un giorno il secondo fa lo sgambetto al primo, mandandolo faccia a terra davanti alla classe. Ha inizio una rivalità fatta di occhiate furiose, aggressioni verbali, zuffe continue: espressioni di un odio sotto il quale, però, ribollono altri sentimenti. La svolta avviene quando Tom, la cui madre adottiva attraversa una gravidanza a rischio, è invitato da Marianne, la madre di Damien, ad abitare con lei e col figlio il tempo necessario per migliorare le sue prestazioni scolastiche.
Si avverte che Quando hai 17 anni è il film di un intellettuale: lo tradiscono il titolo stesso, preso a prestito da un verso di Arthur Rimbaud, e una dotta disquisizione sul desiderio mascherata da materia di studio dei ragazzi. Tuttavia la storia è narrata con estrema semplicità, e per questo risulta tanto più efficace e coinvolgente. Sensibile cantore dell’adolescenza lungo tutta la sua carriera (Les Innocents, L’età acerba), il regista francese sceglie di rappresentare i gesti, le occupazioni quotidiane, la routine di ogni giorno: strato di normalità, però, che incapsula passioni e furori, paure e desideri di quell’età che poi interpellerà tutta la vita futura di un individuo. Così il film permette alla relazione tra i due ragazzi, e di quelli con le relative famiglie, di evolvere credibilmente, acquistando senso e verosimiglianza scena dopo scena. È vero che il regista porta ancora una volta nel film le proprie ossessioni e i propri temi ricorrenti, inclusi l’omosessualità e i fantasmi dell’incesto. Ma la sensibilità e l’acume con cui s’inoltra nell’universo di personaggi che oggi potrebbero essere suoi nipoti è ammirevole: non un’inquadratura che suoni falsa, nessuno stereotipo o luogo comune sull'”età ingrata”; mentre le asperità, le reticenze e perfino l’aggressività dei comportamenti sottendono un bisogno lancinante di empatia e di assistenza reciproca. Però, in tema di rifiuto dei cliché sull’adolescenza, la cosa più notevole è un’altra. Pur essendo a tutti gli effetti ragazzi della nostra epoca (ci sono diverse scene di Marianne e Damien in collegamento Skype col padre), quelli di Téchiné rifuggono dagli stereotipi che il cinema appiccica di regola ai teenager odierni: smartphone, messaggini, selfie e tutto il resto. Roba che, nelle intenzioni di tanti cineasti, vorrebbe “fare realismo” e invece serve solo a smarrire la linea retta della narrazione. Resta da aggiungere che Téchiné dirige gli attori da par suo, ottenendo il massimo dai due giovanissimi interpreti e dalla sempre più brava Sandrine Kiberlain. repubblica.it

 

RECENSIONE N2

Quando hai 17 anni  è un ritratto convulso e profondo dell’adolescenza. Téchiné, del resto, della gioventù è il cantore più grande che il cinema europeo ha. E forse ha avuto. Una carrellata iniziale lungo strade verdi d’estate e poi bianche d’inverno. Veloce, troppo veloce, e già Téchiné ci porta dentro l’atmosfera di questo film che deve dire così poco, per dire così tanto. Taglio. Palestra di una scuola. Due team vengono scelti per giocare una partita di pallacanestro. Solo due ragazzi restano seduti. Uno, perché è più scuro degli altri e forse troppo bello. L’altro perché, in qualche modo, non è come gli altri. Non c’è solitudine più grande di restare in panchina a diciassette anni. Soli, in due. Gli sguardi si sfiorano, ma questa compagnia forzata sulla panchina degli esclusi non rende la solitudine più sopportabile. Quando inizia il gioco della vita per Thomas (Corentin Fila) e Damien (Kacey Mottet Klein)?

Due anni fail pluripremiato Boyhood di Richard Linklater aveva già raccontato della necessità, del dolore e della gioia di diventare adulti. La storia, non solo al cinema, è antica come l’uomo. Eppure ogni volta nuova, quando a raccontarla sono artisti con lo sguardo di André Téchiné.
Thomas e Damien. Non dovrebbero stringere amicizia tra loro? Due outsider sono sempre, almeno, il principio di una maggioranza. Invece i due ragazzi si picchiano a ogni occasione. L’uomo è un prodotto non sempre riuscito dell’evoluzione. Perché la nostra specie deve ricorrere ai pugni per diventare adulti? La bellezza di questo film è che non si sforza da nessuna parte di spiegare il perché. Il perché, forse, è la tensione tra gli esseri umani.

La tensione tra Damien e Thomas è una delle forze generatrici e distruttrici della nostra specie. Il cinema di Téchiné mette a nudo questa tensione sempre tenuta nascosta della nostra specie. Thomas è figlio adottivo, vive sulle montagne con la famiglia povera. Damien è figlio di un militare di rango, una madre premurosa (ottima Sandrine Kiberlain), contesto borghese. Téchiné fa dei Pirenei sullo sfondo un personaggio del film. Anzi, il suo accompagnatore. Per forzare il figlio a confrontarsi con la sua aggressività, e per aiutare il compagno di classe Thomas negli studi, risparmiandogli tre ore di viaggio al giorno, la madre invita Thomas a stare da loro per un po’. Damien e Thomas sotto lo stesso tetto. È ora che quella tensione svela sé stessa. In cosa consiste la felice bellezza di Quando hai 17 anni? Non essere solo il racconto di un coming out (o forse due), ma renderci testimoni della vita stessa.  Simone Porrovecchio cinematografo.it

 

RECENSIONE 3

 

Thomas e Damien sono due compagni di classe, molto diversi tra loro, per carattere e provenienza. Il primo è di origine magrebina: è stato adottato da una famiglia di allevatori, che vive sulle montagne, a più di un’ora di distanza dal villaggio. È un ragazzo volitivo, sogna di fare il veterinario, ma ha serie difficoltà a scuola. L’altro è figlio di un militare e di una dottoressa, Marianne, una donna premurosa, a tratti persino estenuante, ma disponibile e aperta. Damien è molto legato ai suoi, ama cucinare e si allena nell’autodifesa. Ma anche lui, in buona sostanza, è un tipo solitario. Tra i due ragazzi nasce un odio immotivato, che li porta a più di uno scontro violento. E allora Marianne, per cercare di sedare gli animi e desiderosa di dare una mano a Thomas, lo invita a stabilirsi a casa sua per un po’ di tempo. Ma è una scelta che complicherà ancor più i problemi,

quando-hai-17-anni-corentin-fila-kacey-mottet-klein-sandrine-kiberlainTéchiné racconta un’altra età acerba, che si appropria inoltre della scrittura a fior di pelle del cinema di Céline Sciamma. Lo sguardo sull’adolescenza, allora, diventa pieno, rotondo, e passa in un batter d’occhi dai corpi ai cuori, dai cuori ai corpi. Quand on a 17 ans è un registratore che misura le azioni e le reazioni dei suoi protagonisti (i bravi Kacey Mottet Klein e Corentin Fila) e le pulsioni che le sottendono. E individua quel passaggio segreto, eppure universale, che conduce dal conflitto all’attrazione. Con la lentezza necessaria a compiere l’intero percorso. Diviso in tre trimestri, come un anno scolastico, il film, infatti, vive di tre movimenti, che hanno tutti una loro particolare tonalità e raccontano le evoluzioni dei sentimenti.

quando-hai-17-anni-sandrine-kiberlainLa nascita del sentimento che lega Damien e Thomas è, allora, un viaggio a tappe, che incrocia dei punti di passaggio obbligati eppur sempre nuovi, imperscrutabili. Prima c’è lo scontro, la repulsione, quel desiderio ossessivo che si maschera d’odio. Poi c’è la scoperta e lo svelamento, con tutte le paure e i turbamenti che ne conseguono. Infine c’è il momento del dolore, dell’elaborazione e del superamento. Intorno a questa traiettoria, si aprono altre tracce, i sentieri trasversali delle differenze di classe (e di colore), dei legami e dei destini familiari, delle attitudini e delle aspettative sul futuro. Tutte cose che vanno al di là del rapporto d’amore, e che pure lo riguardano, lo influenzano e ne modificano i tempi e i modi. Perché il mondo non è mai neutro, sta lì con le sue asperità, i suoi imprevisti, le distanze, le separazioni. Ben rappresentate da quelle montagne innevate dei Pirenei, da quei sentieri che portano dai boschi al villaggio, luoghi che si fanno materia di uno stato interiore, sospesi tra un fiero senso di solitudine e un invincibile desiderio di contatto. Téchiné è essenziale, sta lì con il suo cinema che coniuga la delicatezza della mano alla salda nettezza del tratto. Non è inquieto come la Sciamma, ha una specie di nitore neoclassico che imprigiona le linee di tensione. Eppure, senza alcuna morbosità, incontra ogni vibrazione dei corpi, le lotte, gli sfioramenti, gli abbracci, gli amplessi. Ogni immagine ha una concretezza fisica, densa, ma chiara, pulita, definita. E tutto sembra pian piano tramutarsi in uno studio plastico sul movimento, in cui l’interiore si fa gesto e si mostra nell’esteriore. Con una energia pulsante che forza la retorica del linguaggio (come nel momento della cerimonia funebre). E nega, finalmente, ogni chiusura. sentieriselvaggi.it

 

VIDEO

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UN PADRE, UNA FIGLIA

Un padre, una figlia

Un film di Cristian Mungiu. Ratings: Kids+13, durata 128 min. – Romania, Francia, Belgio 2016.

padre

INDICE

  1. RECENSIONI
  2. VIDEO
  1. RECENSIONI

 

Mungiu torna a interrogarsi sulle conseguenze di una scelta in un’opera che guarda alla paternità e alle seconde chances Marianna Cappi mymovie

Romeo Aldea è medico d’ospedale una cittadina della Romania. Per sua figlia Eliza, che adora, farebbe qualsiasi cosa. Per lei, per non ferirla, lui e la moglie sono rimasti insieme per anni, senza quasi parlarsi. Ora Eliza è a un passo dal diploma e dallo spiccare il volo verso un’università inglese. È un’alunna modello, dovrebbe passare gli esami senza problemi e ottenere la media che le serve, ma, la mattina prima degli scritti, viene aggredita brutalmente nei pressi della scuola e rimane profondamente scossa. Perché non perda l’opportunità della vita, Romeo rimette in discussione i suoi principi e tutto quello che ha insegnato alla figlia, e domanda una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale.

Il protagonista di Bacalaureat ha provato, a suo tempo, a cambiare le cose, tornando nel proprio paese per darsi e dargli una prospettiva di rinnovamento, anzitutto morale. Non ha funzionato. Tutto quello che ha potuto fare è restare onesto nel suo piccolo, mentre attorno a lui la norma era un’altra. Trasparente nel mestiere, meno nella vita sentimentale, perché la vita prende le sue strade, e non tutto si può controllare. Ora però non si tratta più di lui: le biglie dei suoi giorni trascorsi sono più numerose delle biglie nella boccia dei giorni che gli rimangono. Ora si tratta di sua figlia, di impedire che debba sottostare allo stesso compromesso, ovvero restare in un luogo in cui le relazioni tra le persone sono ancora spesso fatte di reciproci segreti, di silenzi da far crescere e redistribuire: una rete che imprigiona e “compromette” la vera vita. Ma fino a che punto si ha diritto di scegliere per i propri figli? Una rottura del proprio codice morale, per quanto occasionale e dimenticabile come una pietra che arriva improvvisa e rompe il vetro della finestra di casa, basta a mettere in discussione l’intera costruzione?
Come in Oltre le colline Mungiu s’interroga sulle conseguenza di una scelta, in un film però molto diverso dal precedente, per certi versi più freddo ma anche più morbido, in cui l’errore non è più lontano dalla presa in carico delle conseguenze e delle responsabilità che ne derivano e dove la lezione passa, aprendo forse davvero una seconda opportunità per il protagonista, proprio in quell’aspetto del suo essere che credeva di condurre al meglio: la paternità.
“Perché suoni sempre il clacson?” Domanda Eliza. “Per sicurezza.” “Sì, ma perché lo suoni anche quando non ci sono altre macchine?” L’ironia della sorte, che nel cinema rumeno degli ultimi anni non manca mai, e scorre tanto sotto le commedie grottesche che sotto i drammi più amari, fa sì che il dottor Aldea agisca quando non c’è bisogno di farlo, travolto dal terrore che il futuro di sua figlia possa andare improvvisamente in frantumi come il vetro, quando in realtà sono la sua età e la sua situazione che gli stanno domandando il conto.

“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu

È da un po’ che il cinema rumeno suscita grande interesse da parte della critica e del pubblico, tanto che si è sentita l’esigenza di organizzare anche un festival ad esso dedicato, inserito nell’evento Effetto Notte dalla Casa del Cinema a Roma dal 1 al 3 settembre. Il perché di tanto clamore lo conferma il bel film “Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, uscito nelle sale italiane in questi giorni, vincitore della Palma d’oro di quest’anno. Cristian Mungiu, regista e sceneggiatore, dal Festival di Cannes ha ricevutato tanto meritatamente. Nel 2007, si è guadagnato la Palma d’oro per il suo secondo film “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”, nel 2012 ha vinto per la miglior sceneggiatura di “Oltre le colline”, oltre al premio consegnato alle attrici per l’interpretazione.
In “Un padre, una figlia”, Mungiu affronta l’etica e la morale di un uomo messi a dura prova. Sullo sfondo di una Romania squallida e corrotta, Romeo Aldea (Adrian Titieni), è uno stimato chirurgo e vive in una nella cittadina di montagna della Transilvania. Sposato con un bibliotecaria, si trova costretto a mettere in discussione tutti i principi di onestà e d’impegno che ha insegnato alla figlia Eliza. Ormai vicina al diploma, la ragazza, studentessa modello, è riuscita a vincere una borsa di studio per seguire la facoltà di psicologia a Cambridge. Occorre solo superare l’esame di maturità a pieni voti, ma a quel punto si tratta soltanto di una formalità, e il padre, che ha sempre desiderato per lei un futuro all’estero, lontano dalla Romania, aspetta con ansia quel momento. Ma il giorno prima dell’esame, mentre si sta recando a scuola, la ragazza viene aggredita e, per lo shock, Eliza non riesce ad essere lucida alla prova scolastica. Alla confusione mentale si aggiunge anche la difficoltà a scrivere a causa del gesso alla mano destra per una frattura dovuta all’aggressione. I progetti che Romeo aveva formulato per lei rischiano di saltare e si troverà costretto ad utilizzare tutte le vie possibili, anche quelle che lui ha sempre contestato, affinché si realizzino. Un amico poliziotto lo consiglia di chiedere l’aiuto di un politico locale che è in lista d’attesa per un trapianto di fegato. E così la situazione di Romeo si complicherà ancora di più. Raccomandazioni, favori chiesti e ricambiati con metodi poco ortodossi, ricorda molto l’Italia e il suo malaffare questo film. “Perchè non posso rimediare ad un’ingiustizia con un’altra ingiustizia” si chiede Romeo che si sente impotente di fronte ad un fatto criminale. Ma “Un padre, una figlia” non è un film che parla solo della corruzione di un paese, ma piuttosto sulla difficoltà di essere genitore. Un padre è anche un uomo che ha commesso degli errori e non vuole farli ripetere alla figlia. Uno di questi era stato tornare in Romania dopo la morte di Ceausescu, lui e la moglie pensando che tutto sarebbe cambiato. Così non è stato. Eliza ha diritto ad avere un altro futuro e glielo ricorda ogni momento, facendole il lavaggio del cervello, anche quando le propone di truccare l’esame per superarlo. Romeo cerca un riscatto e pensa che manipolando il destino possa ottenerlo attraverso la figlia. Ma non tiene conto della vita e dei suoi imprevisti, ai quali la moglie ha risposto con la depressione e i forti mal di testa che la tormentano. Lui stesso non ha saputo reggere il peso di portare avanti un matrimonio basato su un’ illusione perduta e da tempo ha iniziato una relazione extraconiugale con una professoressa di sua figlia. Una piega nella rettitudine dell’uomo, insinuata già all’inizio del film quando un sasso lanciato contro il vetro dell’appartamento abitato da lui e la sua famiglia apre la storia come fosse un thriller. Ma proprio Eliza, interpretata da Maria Drâgus, rappresenta il nuovo che avanza. Si capisce che sta seguendo più i desideri del padre che i suoi. In realtà Eliza, vorrebbe fare delle scelte indipendenti, è contenta di stare dove si trova, ha un fidanzato che ama e le piacerebbe restare con lui in Romania, dove continuare a studiare senza compromessi. Liberarsi quindi dalla cappa in cui i suoi genitori iperprotettivi l’hanno tenuta fino ad allora e volare via.

Clara Martinelli ilquorum.it

 

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Il sogno di Romeo

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Eliza non è più vergine

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Scambio di favori

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Il vicesindaco

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Le stazioni della fede

In adolescenza 

cambia la percezione del mondo intorno e dentro di sé, cambia il corpo e cambiano le relazioni.

Maria, la protagonista del film, è un’adolescente e il suo percorso di crescita è una via crucis. LE STAZIONI DELLA FEDE è un film che, suddiviso, come il rito cattolico, in quattordici stazioni, commuove ed emoziona.

 

crucis2

Kreuzweg – Le stazioni della fede
Un film di Dietrich Brüggemann.

Titolo originale Kreuzweg (VIA CRUCIS)

genere Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 107 min. – Germania 2014.

in questa pagina trovi:  tramavideorecensioni 

 

 

Trama
Maria ha 14 anni e la sua famiglia fa parte di una comunità cattolica fondamentalista. Maria vive la sua vita di tutti i giorni nel mondo moderno, ma il suo cuore appartiene a Gesù. Lei vuole seguirlo, per diventare una santa e andare in paradiso, così passa attraverso 14 stazioni, proprio come fece Gesù nel suo cammino verso Golgota

 

VIDEO

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Recensioni

 

 

Da sentieridelcinema.it di Laura Cotta Ramosino

Acclamato da molta critica al Festival di Berlino e vincitore, oltre che dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ma anche del premio della Giuria Ecumenica, Kreuzweg è una pellicola insieme stimolante e frustrante, sia sul piano dei contenuti che della forma e richiede, anzi, quasi pretende, una visione concentrata e critica che molta parte del pubblico potrebbe non essere disposta a concedere.
La vicenda della piccola Maria, vittima di una concezione del Cristianesimo punitiva, rigida e ostile al mondo (la Fraternità di San Paolo come viene qui chiamata è una palese trasposizione di quella di san Pio X fondata dall’arcivescovo Lefevre), che le impedisce di aprirsi al mondo e la convince della necessità di un sacrificio estremo, ma anche di una madre incapace di mostrare il proprio affetto, è di quelle fatte apposta per scatenare dibattiti e polemiche. E questo sia che lo si voglia concepire come un coraggioso e sincero atto di denuncia contro il fondamentalismo religioso (il regista e la sorella, sceneggiatrice, vengono essi stessi da una famiglia appartenente a una comunità cattolica di questo genere) o come un esercizio formalmente impeccabile, che nella sua pro grammaticità ideologica pecca della stessa rigidità del mondo che mette sotto accusa.
Il film, infatti, è diviso in 14 quadri corrispondenti alle stazioni della Via Crucis (il cui nome introduce a mo’ di titolo ogni capitolo), la maggior parte dei quasi è costituito da un’unica inquadratura fissa entro cui i personaggi dialogano e si muovono (poco) per l’appunto come personaggi di quadretti votivi animati. Ogni situazione è escogitata per riflettere in modo più o metaforico (e spesso ironico) una delle tappe della Passione di Gesù. La piccola Maria Göttler (un nome un programma) è infatti una esplicita figura Christi che affronta consapevole e solitaria un martirio autoimposto, vivendo nel senso di colpa le più normali esperienze adolescenziali (anche la nascente e innocente simpatia per un coetaneo che la invita a cantare nel coro di una chiesa cattolica, sì, ma non abbastanza ortodossa per la madre di Maria) e privandosi del cibo e della gioia fino all’esito prevedibile e inevitabile.
Benché parte di una famiglia numerosa, la ragazzina sembra immersa in una sostanziale solitudine; e nessuno degli adulti della comunità – il giovane parroco, premuroso e gentile quanto rigido; la madre, una figura spaventosa di genitrice forte di una fede spietata quanto inattaccabile che solo nel finale sembra giungere ad un punto di rottura; il padre, una figura debole e insignificante – sembra cogliere fino in fondo la testarda determinazione e la follia del piano di Maria, aspirante santa con scarso senso della realtà. Anzi, di fronte al quasi miracolo del finale la madre è velocissima a trasfigurare il rapporto perennemente critico con la figlia in una beatificazione cieca e quasi surreale.
Kreuzweg, pur abbracciando senza se e senza ma la sua vocazione di cautionary tale verso il fondamentalismo, ha l’onestà di mettere in chiaro le carte fin da subito: quello che vediamo in azione non è né il Cristianesimo né il Cattolicesimo tout court, e anzi Brüggemann dissemina la storia di figure di credenti dalle più varie sfumature: dall’insegnante di ginnastica protestante, al gentile spasimante cattolico di Maria, dall’affettuosa ragazza alla pari francese che è forse l’unica vera amica della ragazzina, all’infermiera dell’ospedale che crede in qualcosa che non vuole definire (ed è interpretata dalla stessa sceneggiatrice). Le difficoltà scolastiche di Maria (che si rifiuta di correre in palestra perché l’insegnante accompagna gli esercizi con musica moderna “diabolica”, un tema su cui i genitori di Maria sono particolarmente rumorosi) sono l’occasione per suggerire un’apertura ulteriore a temi quali la tolleranza (i coetanei di Maria ne hanno davvero ben poca) e la libertà religiosa (si allude al fatto che alcune compagne di classe musulmane saltano direttamente l’ora di ginnastica).
Non si ha mai davvero, però, l’impressione che Brüggemann sia alla ricerca di una vera e propria discussione o si apra al mistero doloroso di quello che sta raccontando (il “miracolo” che avviene alla morte di Maria, prontamente assunto ad autogiustificazione dalla madre). Come al responsabile delle pompe funebri del finale, poco gli importa la “verità” della fede professata da Maria fino alle estreme conseguenze: è la psiche ferita di una ragazzina quella che vuole mettere in scena. Ma nel descriverla con un piglio troppo sociologico la rende una vittima fin troppo consenziente e la priva del dramma sostanziale della libertà cui pure avrebbe avuto diritto e che avrebbe dato al film il respiro che gli manca.

Laura Cotta Ramosino

 

Da cineforum.net di Simone Soranna

Probabilmente mai come in questi anni i tempi stanno correndo freneticamente e sembra che niente e nessuno sia in grado di fermarli. L’unica soluzione per reggere il passo pare essere quella di assecondarli, a costo di rischiare la propria identità, per non sparire completamente.

Anche la religione non è esente da tale pressione, così come il cinema. Due sfere decisamente lontane e tuttavia accostate in maniera sorprendentemente naturale da Dietrich Brüggemann, il quale decide di realizzare una pellicola che racconti l’importanza del cambiamento attraverso una storia che nasce dalla tradizione (religiosa e cinematografica) e che di essa si nutre.

Kreuzweg – Le stazioni della fede racconta il Calvario (nel vero senso della parola) di un’adolescente cresciuta secondo un’educazione cattolica fondamentalista ancorata agli insegnamenti biblici basilari, priva dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II. Il regista decide di incastonare il racconto in uno stile (apparentemente) primordiale, attraverso quattordici lunghi piani sequenza realizzati a camera fissa (a parte un paio di eccezioni). Il cinema e la spiritualità sembrano essersi fermati ai loro albori: l’uno alle vedute statiche delle origini, l’altra ai dogmi della Chiesa fondata da Pietro. La frenesia, il cambiamento, la velocità dei giorni a noi contemporanei sono del tutto azzerati in nome di un ritorno alla tradizione che tuttavia, mai come ora, è carica di una portata innovatrice senza paragoni.

Lo scopo principale dell’autore è quello di mettere il pubblico nei panni di Dio. Il suo film è una metafora precisa e spietata di quello che è stato il percorso di Gesù verso la crocifissione. E non ci si riferisce solo alle quattordici tappe che costituiscono la via crucis (puntualmente chiamate in causa a scandire i capitoli della pellicola), quanto all’impossibilità di fare qualcosa per intervenire nella vicenda. Tutto è immobile e non c’è via di fuga, non c’è nessuna possibilità di azione. Attraverso una suspense perfettamente calibrata, Brüggemann costruisce un climax impossibile da sostenere: una giovanissima e innocente ragazza si avvicina frettolosamente verso un sacrificio che non le compete e lo spettatore non può far altro che assistere passivamente al macabro spettacolo messo in scena con una crudeltà tanto cinica quanto elementare.

Siamo costretti a subire il fascino di un cinema rigido, freddo e formale che rischia di non essere accettato perché non coerente con i tempi. Un ossimoro straziante e deprimente, per un’opera che rischia di non riceve l’accoglienza sperata. E ogni riferimento a qualsiasi creatore divino fattosi uomo non è puramente casuale.