C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Regia di Mike Mills.-

USA, 2021,

durata 108 minuti.

Età+13

  1. Sinossi
  2. Recensioni
  3. Video

1 Sinossi

John è un giornalista radiofonico dal buon cuore, impegnato in un progetto di interviste ai bambini attraverso gli Stati Uniti sul futuro incerto del mondo. Sua sorella Viv gli chiede di guardare Jesse, il figlio di 8 anni, mentre lei si prende cura del padre del piccolo, affetto da problemi di salute mentale. Dopo aver accettato, Johnny si ritrova a legare con Jesse in maniera inaspettata, vivendo con lui un indimenticabile viaggio da Los Angeles a New York a New Orleans.

2 Recensioni ( 2.1 IL BEL SENTIRE – 2.2 ROAD MOVIE)

2.1 C’mon C’mon: il bel sentire di Mike Mills DI ALESSANDRO CAVAGGIONI npcmagazine.it

Parole, parole, parole. Quanto seduce il blabla nell’ultimo lavoro di Mike Mills, regista dall’intransigente compassione votato a un’indulgenza dei sentimenti. C’Mon C’Mon è un compendio di ipersensibilità impressionista, e apre tutti i cassetti che ci portiamo dentro. Si piange solo alla fine, quando il film finisce e si lascia realizzare.

La storia di uno zio (Joaquin Phoenix nel post-joker è un dono) chiamato a occuparsi del nipote mentre la sorella cerca di ricucire le ferite di una crisi famigliare inscritta nel dolore, poggia sulla formula vincente di Marriage Story: sincerità, semplicità, empatia.

Sembra studiato in un laboratorio di hipsterismo, con un bianco e nero che si proclama importante e una sceneggiatura di piccoli dettagli e grandi espressioni. Ma se questo è il marchio di una comunicazione diffusa nell’autorialismo prodotto dalla A24, il risultato non è certo da sottovalutare.

C’Mon C’Mon è invece un film gentile. Non ti fa piangere, ti da il permesso di farlo. Solo se vuoi. Se te la senti. “It’s ok to not be fine”. Una compassione che arriva al punto giusto, studiata in vitro ma reale, lasciata scorrere in un traffico di immagini che invita a concedersi un momento per lasciare il volante e ascoltarsi.

C’mon C’mon ci chiede di ascoltare

È l’udito il protagonista sensoriale di C’Mon C’Mon. Johnny, lo zio interpretato da Joaquin Phoenix, è un conduttore radiofonico impegnato in uno speciale documentario dedicato ai bambini. A Detroit ne incontra molti e porge loro domande fondamentali: “hai paura del futuro? cosa pensi degli adulti? Cosa cambieresti di te stesso?”. Le interviste alternano le vicende dei due protagonisti, formando un film a parte e un sostegno imprescindibile. Sui titoli di coda, quando la storia è finita, proseguono le parole dei bambini. Mike Mills non li fa recitare e le risposte sono reali e folgoranti. Per seguirle dobbiamo affidare noi stessi all’orecchio, lanciandolo oltre lo schermo come l’amo teso a caccia di parole sincere.

Lo zio affida il microfono al nipote Jesse, che scopre la città in un magma distinto di immagini sonore. Lo sferragliare deciso e ripetuto della metro coesiste nella schiuma dell’onda e nel vociferare da spiaggia, in un’educazione all’ascolto che diventa sentire e si avviluppa nel sentimento.

Due occhi non bastano e in C’mon C’mon si parla alzandoli al cielo, come a girarli verso se stessi quando si cercano le risposte giuste. Il fatto che parte del film sia composto da interviste reali, volti che agiscono liberamente, ci permette di confrontare e confermare poi la veridicità delle ottime interpretazioni attoriali. Jess e John sono una coppia straordinaria, perché fedeli ai loro sentimenti sono Joaquin Phoenix e il piccolo (struggente) Woody Norman. Cogliamo la difficoltà dell’abbinata, con lo zio chiamato nel ruolo mai interpretato di genitore e modello, ma viviamo anche la naturalezza di un incontro umanamente sincero e intellettualmente vivace. Nel confronto vince però la realtà di parole non scritte. I bambini, molto più che lo zio sofferto o l’inusuale nipote, esibiscono una partecipazione strenua alle cose del mondo. Uno in particolare, Duante, si esprime nascondendo ciò che più lo tocca. Perché il sacro non si rivela.

In C’mon C’mon le parole fioccano libere e multiforme. Ci sono le interviste, poi zio e nipote in perenne confronto – spesso in scontro -, i messaggi della madre e i titoli dei libri, scritti su immagini traboccanti di messaggi. Il bianco e nero di Mike Mills, di natura più commerciale che estetica, non dirada in alcun modo il peso di un film densissimo.

Quando i protagonisti giganteggiano goffi con dialoghi sulla vita e sulla morte – a cui lo zio si fa spesso trovare impreparato d’innanzi all’educazione sensibile del bambino – Mills stacca sulla città. Detroit, Los Angeles e poi New York. La poetica statunitense delle due coste è l’occasione per parole incise tra palazzi che tracciano discorsi. Le strade si dividono, intrecciano, seguono l’andamento del film in un’architettura emotiva che osserviamo a volo d’uccello.

Sentiamo del giudizio dal gravare muto della città, osservatrice ospitale e tela per quel “blablabla” che imperversa a bufera in un film che ci sorprende logorroici. Siamo interrogati dal film, che di rado lascia il tempo allo spettatore, ignorando la possibilità che abbia qualcosa da dire. In Manhattan, i cui forti contrasti che eliminano il soggetto rientrano nel film di Mike Mills a monito di una presenza superiore, c’è una splendida scena in cui Woody Allen – microfono alla mano – si interroga sulle “10 cose per cui vale la pena vivere”. Una domanda a cui John, forse, non saprebbe rispondere.

Tutto quel “blablabla” che ci portiamo dentro

Il “blablabla” con cui il nipote riprende lo zio è una trovata sottile. Mike Mills rifiuta il film stesso, salvandolo dalle critiche all’eccesso di discorsi. Quel “bla bla bla” è imprescindibile per rispondere alle domande fondamentali. Anche se pedante, ricorsivo, barocco.

Per quanto ostenti profondità, il film è uno sguardo ottimista e permissivo a quelle stesse difficolta che racconta. Alla fine tutto è accolto, tutto è vita, e l’ultimo voiceover ammanta immagini meravigliose, volti morbidi, sorrisi soffusi. C’è una calma placida, che coccola un po’ troppo per le ambizioni sciorinate lungo la vicenda. Ma è solo una parte del film. La storia dello zio, l’adulto in cerca di fantasie infantili.

Se si rivolge l’attenzione al piccolo si è invece sorpresi da una ferocia sincera. È sua la battuta che ci lascia al pianto: “mi ricorderò di tutto questo?”. Non ci preoccupiamo mai della memoria dei bambini, come se il loro vissuto fosse in trasparenza alla vita vera, quella che segue. Il personaggio di Jesse è invece una notevole dichiarazione di presenza, e fa eco ai bambini realmente intervistati da Mike Mills. Jesse reclama un ruolo da protagonista nella sua stessa educazione, aprendo a un dialogo equo da cui ogni parte trae vantaggio. Alcune frasi scoccano con veemenza: “Ho saputo che mamma ha avuto un aborto”. Ecco, C’mon C’mon ci risveglia spesso da quel sogno di coccole materne che gravitano nella forma scelta da Mills. Arrivano parole che sono “bla bla” difficili da digerire. “E ora che cazzo gli dico”, si chiede lo zio, “non puoi dire la verità a un bambino di 9 anni”.

Imparare a essere genitori

Joaquin Phoenix interpreta un personaggio naive, con cui empatizziamo perché genuinamente indisposto al ruolo di genitore. La madre di Jesse, Vivs, è molto più lucida e conscia del fratello John. Lei, che affronta fuori campo il bipolarismo del padre di Jesse, è armata di realtà. In brevi flashback scopriamo che i due hanno a lungo litigato per la madre malata. John assecondava le fantasie della malattia, Vivs no. Al contrario ora John non vuole, anche se invitato da Vivs, seguire Jesse nella sua inusuale abitudine di fingersi orfano in cerca di casa. È il ruolo del padre il vero assente, che John non riveste mai scegliendo invece il solco preparato dalla sorella. La genitorialità improvvisata cambia le prospettive e apre a una messa in discussione dei ruoli educativi come mitici monoliti da replicare.

C’mon C’mon è un film che amiamo con facilità. Ci stringe a sé e dedica ogni istante concessogli a perifrasi sui grandi temi di sempre. Lo sappiamo che il bianco e nero è un trucco, che il voice over è un semplice sussurro e che in fondo è un percorso senza meta. Eppure non è una truffa. Per quanto ridondante e privo di intuizioni inedite, C’mon C’mon è un’antologia di meditazioni erette a monumento: entriamo da turisti, già consci di ciò che ci attende, ma il biglietto vale il tour e alla fine ci rende un po’ più vivi.

2.2 Il road movie (auto)analitico di C’mon C’mon di Mike Mills (Fabio Vittorini duels.it)

Che cosa succede se un adulto parla con un bambino come un bambino e quel bambino parla con quell’adulto come un adulto, scambiandosi le parti? Cosa succede se vengono sovvertiti gli stereotipi sui quali poggiano i muri spesso invalicabili tra infanzia ed età adulta, o meglio tra il modo di vedere e agire di un bambino e quello di un adulto? Che cosa succede se proviamo a ricostruire la transizione dimenticata che ha fatto diventare adulto un bambino? Che cosa succede se proviamo a chiederci quando e perché diventare adulti ha cominciato a implicare non solo il superamento, ma anche la rimozione di ciò che siamo stati da bambini? Cosa succede se proviamo a riallacciare una relazione di fisiologica consecuzione e conseguenza tra il pensiero magico e inarrestabile del bambino e quello razionale e autolimitante dell’adulto? Sono queste alcune tra le domande che Mike Mills si pone nel suo ultimo film, di cui ha curato sceneggiatura e regia, C’mon C’mon, facendo interagire un adulto un po’ infantile, Johnny, un giornalista radiofonico che viaggia per gli Stati Uniti intervistando bambini sulle loro vite e sui loro pensieri sul futuro, e un bambino precoce, Jesse, il figlio di 9 anni di Viv, la sorella con la quale Johnny non parla dalla morte della madre demente avvenuta più di un anno prima.

Mentre è a Detroit Johnny chiama Viv, che gli chiede se può andare a Los Angeles per badare a Jesse durante il weekend, mentre lei va a Oakland per prendersi cura del suo ex marito Paul, alle prese con un disturbo psichico invalidante. Dal momento in cui Johnny e Jesse si incontrano, inizia un viaggio sia fisico che interiore. Mentre Johnny porta il nipote con sé a New York e poi a New Orleans per registrare delle interviste, i due cominciano a conoscersi e, tra difficoltà prevedibili, complicità spontanee e qualche piccola diffidenza, a stringere un legame sempre più profondo. Mentre vengono macinati migliaia di chilometri sulla carta geografica degli Stati Uniti, tratteggiati con leggerezza coscienziosa dalla fotografia di Robby Ryan grazie a un luminosissimo bianco e nero, fiumi di parole avvolgono e svolgono il rapporto tra zio e nipote, creando una sorta di road movie (auto)analitico: Johnny e Jesse, interpretati da Joaquin Phoenix e dallo sbalorditivo Woody Norman in stato di grazia, non smettono mai di parlare, di provocarsi, di interrogarsi, di soccorrersi, aiutati a distanza dalla sorella/mamma Viv, una dolcissima Gaby Hoffmann, costruendo da zero una relazione autentica, basata sul dialogo paritario, sullo sforzo di capirsi, sulla capacità di mettersi in discussione e sfidarsi a vicenda senza volersi fare del male. Capita così che, mentre l’adulto aiuta il bambino ad affinare i suoi strumenti di comprensione della vita a venire, il bambino aiuta l’adulto a rivedere gli strumenti usati per archiviare la vita passata. Capita così che l’adulto e il bambino scoprano di avere le stesse fragilità e le stesse paure: Johnny sta ancora elaborando il lutto per la perdita della madre, mentre Jesse quello per l’assenza del padre, e in entrambi i casi la mancanza è resa più incomprensibile e dolorosa dal mistero della malattia mentale. Capita così che un film apparentemente facile si riveli una gemma rara di delicatezza e comprensione della vita.


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Perché sei solo? …..bla …bla

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