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Less is more – Le parole dell’educare

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Quando pronunciamo alcune parole come amore, desiderio, regola, ne conosciamo il significato più profondo? Sappiamo farci accompagnare da loro nel nostro agire quotidiano e nelle relazioni con l’altro?

L’autore ha approfondito la natura di tredici vocaboli a lui cari, convinto che chiarire il loro significato originario, cercando di coglierne le potenzialità educative, possa non solo ridare senso alle parole ma anche parlare di noi stessi e del nostro rapporto con alcuni concetti pedagogici fondamentali. Perché le “nostre” parole, come conchiglie silenziose sulla spiaggia, aspettano di essere raccolte e portate all’orecchio per svelare un mare di ricordi ed emozioni.

LE FIABE FANNO BENE

Fabian Negrin. Tra le righe dei fratelli Grimm - Andersen
  1. Perché le fiabe fanno bene?
  2. Le carte di Propp
  3. Approfondimento al cura del prof. A. Croci

  1. PERCHE’ LE FIABE FANNO BENE?

Le fiabe parlano il linguaggio della fantasia, cioè quello del bambino e lo mettono di fronte alle paure, alla necessità di sentirsi amati, all’angoscia della morte e della separazione.

Inoltre…..

  • Ai bambini piace sentire narrare una storia
  • La fiaba favorisce l’acquisizione di elementi logici, sequenze temporali, causa-effetto, e fantastici.
  • Le fiabe contribuiscono allo sviluppo psicologico dei bambini
  • L’ascolto di una fiaba permette al bambino di conoscere nuovi vocaboli e di aumentare la capacità di concentrazione e di attenzione.
  • La fiaba concorre allo sviluppo emotivo/affettivo: il bambino nell’immedesimarsi con i personaggi, vivrà le loro emozioni
  • La lettura delle fiabe può diventare un rito affettivo che rafforza il legame con il lettore, dando sicurezza al bambino.

2. LE CARTE DI PROPP

Vladimir Propp ha studiato la struttura delle fiabe della tradizione arrivando ad isolare 31 funzioni fondamentali. Ogni funzione, (il cui elenco completo si trova ad esempio qui) rappresenta una situazione tipica della trama di una fiaba: si tratta degli ingredienti con cui le fiabe sono costruite e che possiamo utilizzare per inventarne di nuove.

Come si gioca con le carte?
Secondo il suggerimento di Gianni Rodari, si possono costruire delle carte, ognuna corrispondente ad una delle funzioni di Propp, utilizzando delle parole chiave o dei disegni. I giocatori poi costruiscono storie ispirati dalle carte estratte. (all’inizio è meglio utilizzare poche carte)
questo link  si possono scaricare delle carte da colorare o a cui ispirarsi: i bambini possono essere coinvolti fin dalla preparazione, importante per familiarizzare con le varie funzioni e ciò che evocano in loro l’allontanamento, il divieto, il tradimento, il dono…

I bambini amano mescolare le carte, improvvisandosi delle regole: estrarne tre a caso e costruirci una storia completa; partire dall’ultima carta della serie; dividersi il mazzo, tra due gruppi, e comporre due storie a gara. Spesso basta una carta a suggerire una favola.”(Gianni Rodari, Grammatica della Fantasia).

3. APPRONDIMENTO

Il prof. A. Croci ha tenuto cinque incontri on-line sulla fiaba, che potete riascoltare cliccando qui.

Temi trattati:

  • La fiaba: raccontare la notte.
  • Dalla fiaba all’avventura
  • La fiaba tenta la psicoanalisi
  • La fiaba mi piace aver paura
  • Amore in fiaba: La bella e la bestia

COMPITI A CASA di Raffaele Mantegazza

Risultati immagini per compiti a casa mantegazza fefè editore

1) INTERVISTA 

2) SINOSSI

 

INTERVISTA

W. Brandani:  Come è nata l’idea di scrivere un libro sul tema dei compiti a casa?

R. Mantegazza: Il tema dei compiti e quello della valutazione saranno sempre più temi caldi per la scuola, anche perché vengono affrontati in modo schematico (compiti sì/compiti no, voti sì/voti no) senza considerare che questi argomenti riguardano il tema della scuola più in generale e del suo senso per l’esperienza di vita di un ragazzo o di un bambino. Il libro cerca dunque di capire il senso dei compiti inserendolo nella domanda sul significato della scuola oggi e di proporre una soluzione che non sia troppo semplicistica

A chi si rivolge il libro?

Il testo è leggibile da tutti gli attori del teatro scolastico. Può essere letto dagli insegnanti per cercare di impostare diversamente il problema dei compiti, dai genitori per aiutare i propri figli in questa quotidiana attività, ci sono poi sezioni direttamente rivolte ai ragazzi, dalle primarie alle secondarie di II grado, per aiutarli a capire il senso dei compiti e il modo migliore per affrontarli

Spesso si sentono molti pareri discordanti sull’utilità dei compiti a casa, mai il tema dei compiti non è strettamente legato a come si fa scuola? Si possono abolire o incentivare i compiti a casa senza aver fatto una riflessione sul nostro sistema scolastico?

Come ho scritto sopra, ovviamente no, e questo è probabilmente l’errore che si compie. Se i compiti sono sostitutivi del lavoro a scuola, allora sono dannosi. Se invece sono una rielaborazione personale di una esperienza che è iniziata nelle aule scolastiche allora aiutano i ragazzi a pensare alla scuola e a trovare uno spazio per essa anche al di fuori dell’aula. Ma a due condizioni: che siano POCHI e BELLI

Qual è il ruolo dei genitori nel percorso scolastico dei figli e nello svolgimento dei compiti a casa?

Il ruolo dei genitori dovrebbe esser e sempre quello di garantire ai ragazzi uno spazio e un tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti, ma mai di sostituirli in questa che deve rimanere una loro attività. Ovviamente tutto questo evolve con il crescere dei ragazzi: dallo “stare di fianco” per i bambini delle primarie (che nel primo ciclo NON DOVREBBERO avere compiti) al lasciare spazio al ragazzo anche se in qualche caso significherà andare a scuola con i compiti sbagliati o addirittura non svolti

 

SINOSSI

Nel rapporto con le famiglie la questione dei compiti a casa è una delle più controverse. Sono troppi? Sono pochi? Solo durante il weekend o anche durante la settimana? L’argomento riempie dibattiti sui mezzi di comunicazione con petizioni da una parte e dall’altra, ma riempie pure i numerosi gruppi WhatsApp che intasano mentalmente ed emotivamente la vita delle famiglie con alunni a scuola. L’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), in una recente nota, sembra aver messo un punto fermo nel dibattito: in Italia sono troppi! Questo libro scritto da un pedagogista di chiara fama fa il punto, chiarisce e dà consigli a studenti, genitori e insegnanti, dalle primarie alle superiori.

 

BUONA VISIONE – educare con i film –

SINOSSI

PRESENTAZIONE AUTORE

LEGGI INDICE E INTRODUZIONE

DOVE ACQUISTARE IL LIBRO:  

SINOSSI

Perché si ama tanto il cinema?

Perché i film, entrando a far parte della nostra vita con le loro storie – drammatiche, romantiche, divertenti o tristi – sono capaci di coinvolgerci ed emozionarci. È quindi inevitabile pensare ai film come ad uno strumento pedagogico.

In questo libro, l’autore mette in evidenza le potenzialità educative di un film e come possa essere utilizzato, sia da professionisti dell’educazione che dai genitori, per favorire una riflessione.

Presenta inoltre una rassegna di settanta film che affrontano alcuni grandi temi educativi, perché “non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. (Ingmar Bergman)
Buona lettura … anzi buona visione!

PRESENTAZIONE AUTORE

Walter Brandani insegnante, educatore professionale, mediatore familiare e allenatore di rugby. Ha lavorato in vari servizi educativi per minori e adulti.

Per l’Associazione Nazionale Educatori Professionali è stato consigliere nazionale e referente del Centro Studi; attualmente insegna nella scuola primaria di Tradate (VA). Autore di libri per educatori, insegnanti e genitori,  è appassionato di cinema.

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Finire un po’ prima. Riflessioni pedagogiche sul suicidio

 

Titolo Finire un po’ prima. Riflessioni pedagogiche sul suicidio

Autore  Raffaele Mantegazza

Editore Castelvecchi, 2017

PAGINE 60

PREZZO 11 euro

  1. INTERVISTA ALL’AUTORE
  2. QUARTA DI COPERTINA

INTERVISTA A RAFFAELE MANTEGAZZA

 

Walter Brandani: Perché un libro sul suicidio?

RAFFAELE MANTEGAZZA: Perché paradossalmente è uno dei temi “taciuti” un campo pedagogico; esistono analisi sociologiche e psicologiche ma manca una riflessine di tipo educativo, forse perché il gesto estremo, chiudendo ogni possibilità di futuro, sembra sottrarre all’educazione la sua materia prima, che è proprio il futuro. Eppure un educatore ha molto da imparare e molto da dire attorno a questo tema.

WB: A chi si rivolge il libro?

RM: A chiunque abbia responsabilità educative, che abbia affrontato incontrato o meno personalmente il suicidio nella strada della sua vita. Il testo è per genitori, educatori, insegnanti che incontrano giovani e ragazzi per i quali il suicidio è una possibilità e spesso una tragica realtà.

WB:Qual è il rapporto tra il sudicio e l’educazione?

RM: Sembrerebbe non esservi alcun rapporto tra l’apertura al futuro che è propria dell’educare e la totale chiusura scelta dal suicida. Invece la mai tesi è che, non esistendo il cromosoma del suicidio, il suicida diventi tale grazie a un lavoro di costruzione della soggettività che possiamo definire educativo in senso ampio. Scopo del libro è indagare appunto la costruzione del soggetto suicida e capire come l’educazione possa rispondere passo su passo a questo percorso annichilente.

WB: Il suicidio di una persona ci coglie spesso di sorpresa. Il suicidio è quindi un atto imprevedibile?

RM: Il problema fondamentale è quell’ultimo istante, quegli ultimi millimetri di tempo che separano la tentazione del suicidio dall’esecuzione del gesto annichilente. In questo senso, nel superamento di questo iato, sta tutta l’imprevedibilità del suicidio, il suo poter riguardare chiunque in qualsiasi momento. Fa parte della tragica miopia delle nostre menti e delle nostre sensibilità il fatto di poter solamente sfiorare questa terra di nessuno senza mai poterci mettere piede. Possiamo agire fino a un secondo prima del passo decisivo, ignorando quale sia questo istante.

WB: Molti, dopo un suicidio, si chiedono “perchè l’ha fatto”: è una domanda alla quale è possibile dare una risposta?

RM: E’ una domanda del tutto inevitabile, ma che occorre imparare dolosamente a tenere aperta; e ad essa ne vanno affiancate altre: “cosa resta di questa persona?”, “che ne è di me dopo questo gesto?” e soprattutto “che ne è di questa relazione umana che questa persona ha scelto unilateralmente di interrompere?”. Queste le domande con le quali ci lascia il suicida: una serie di “perché?” che cambiano la nostra vita ma che possono anche permetterci di rileggerla sotto una luce nuova.

 

QUARTA DI COPERTINA

Questo libro pone la pedagogia e le scienze dell’educazione a confronto con il tema del suicidio, seguendo la tesi secondo cui chi si suicida giunge alla sua scelta al termine di un processo formativo, e autoformativo, di una pedagogia latente e invisibile che è importante indagare. Suicidi non si nasce, ma si diventa costruendo e lasciando costruire la propria identità in un labirinto senza fine e senza vie d’uscita. Le forme attraverso cui si perviene alla scelta vengono analizzate sempre con l’attenzione rivolta ai processi pedagogici che hanno agito nei differenti casi, con una particolare attenzione ai legami relazionali (amici, figli, amanti) e al loro ruolo prima e soprattutto dopo il gesto (che assume in questo senso esso stesso una dimensione pedagogica). Nell’ultima parte del testo si propongono piste di riflessione pedagogica che possano portare a una nuova concezione e consapevolezza della vita e della morte, ed essere messe in campo per percorsi educativi che aiutino a evitare di creare soggetti pronti a “levar la mano su di sé”.

Adottato anche tu?

adottato-anche-tu-allora-siamo-in-dueo-forse-piu-239381Segui il libro su facebook CLICCA QUI 

INDICE

  1. PRESENTAZIONE LIBRO
  2. INTERVISTA ALLE AUTRICI
  3. PRESENTAZIONE AUTRICI
  4. QUARTA DI COPERTINA

1.Presentazione

Con la nascita, ognuno di noi viene catapultato in un mondo sconosciuto che viene reso conoscibile attraverso il progressivo dispiegarsi di una storia, della propria storia che noi stessi costruiamo e ricostruiamo attraverso il contributo di chi ci sta vicino. Questo vale per tutti, è la narrazione delle nostre vite. Ma l’adozione ha in sé qualcosa di diverso: ti precipita dentro una storia che è già cominciata, di cui vediamo l’epilogo ma di cui non conosciamo il prologo, o meglio, l’antefatto. Si parte da una mancanza, che non è scelti ma che ci si è trovati a vivere e che ha bisogno di essere colmata che porta con sé sensazioni ed emozioni ma anche ricordi e domande. Ed è proprio l’integrazione di queste dimensioni un primo compito che si trovano ad affrontare i due speciali narratori de ”Adottato anche tu? Allora siamo in due!…o forse di più” scritto da Sonia Negri e Sara Petoletti, edito da Ancora.

Un libro molto delicato in cui si alternano biografie di persone adottate famose del passato, racconti di storie di adozione contemporanee e interviste a chi la sua storia ha scelto di raccontarla in prima persona. Il tutto è inserito in un coinvolgente scambio di e-mail tra due ragazzi adottati, Ilaria e Gabriel che si confrontano ogni giorno con le domande che l’adozione porta con sé. Il primo contatto tra i due adolescenti avviene in modo del tutto casuale quando entrambi partecipano a un concorso di cucina online e le foto delle loro ricette vengono pubblicate sullo stesso sito.

E’ proprio l’occasione che aspettavano per raccontarsi le loro storie e iniziare una ricerca appassionante che li porterà a fare molte scoperte interessanti…Come quella che la storia è piena di personaggi famosi adottati: si va da Mosè ad Aristotele, da Steve Jobs a Marilyn Monroe, e ancora da Michael Bay (regista di “Armageddon” e “Pearl Harbor”) a Ingrid Bergman per poi arrivare fino agli idoli dei più giovani: Mario Balotelli (che dopo alcune stagioni al Manchester city, nel 2013 torna in Italia per vestire la maglia del Milan), Leiner Riflessi (cantante dei Dear Jack dal 2015) e Ruslan Adriano Cristofori (medaglia d’argento ai giochi europei di Baku nel 2015 e testimonial di Ai.Bi. amici dei Bambini).

 

2.Intervista alle autrici

Walter Brandani: Com’è nata l’idea del libro?

 

Sonia Negri & Sara PetolettiIl libro è nato dal desiderio di raccontare storie di adozione di persone che sono diventate famose e hanno realizzato i loro sogni. Spesso chi ha avuto esperienze avverse nell’infanzia fa fatica a credere in se stesso e a sognare un futuro felice. I protagonisti del libro, quando hanno cominciato la loro corrispondenza via mail, erano esattamente così. Lily, molto insicura, non riusciva a pensare al suo futuro con serenità e si sentiva sola. Gabriel invece, all’apparenza spavaldo, in realtà non aveva la forza di cercare le risposte a tutte le domande che gli affollavano la mente e si sentiva incompreso da tutti.
Nessuno di loro due immaginava che ci fossero così tante persone al mondo che avevano vissuto esperienze ed emozioni simili alle loro! La ricerca delle storie contenute nel libro e alcuni incontri speciali hanno cambiato completamente la loro prospettiva!
Ecco, abbiamo scritto questo libro con l’intento di raccontare le molteplici sfide dell’adozione e le diverse esperienze di chi ha saputo affrontarle con positività e forza tali da trasformarle in occasioni di successo.

 

 

D: A chi consigliereste il libro?

 

R: Consigliamo il libro in primo luogo a tutti i ragazzi, perché i protagonisti sono proprio loro: due adolescenti, Lily e Gabriel, che con le loro storie ci aprono un mondo di emozioni, sorrisi, dubbi, paure, progetti, speranze.
Grandi sfide per grandi sogni! Saranno proprio loro a farci entrare nella vita di tanti personaggi del passato e del presente, con curiosità, aneddoti e interviste.
I ragazzi che hanno una storia di adozione potranno poi ritrovare tra le pagine del libro vissuti e pensieri che conoscono bene… che riguardano il presente ma che sono strettamente legati anche alle proprie origini.
Il libro può essere un utile strumento per le famiglie adottive: uno spaccato del mondo adolescenziale che, con la disarmante schiettezza che solo i ragazzi possiedono, pone dinnanzi le sfide che l’adolescenza adottiva porta con sè.
Insegnanti e operatori che si occupano di adozione, si troveranno ad osservare da una posizione privilegiata i pensieri e le domande che gli adolescenti hanno in mente ma che spesso faticano ad esprimere.
Infine, per chiunque desideri approfondire il tema dell’adolescenza adottiva e sia appassionato di letture per ragazzi, come noi d’altronde, “Adottato anche tu?” è proprio il libro giusto!

 

D: Spesso si è portati a pensare che gli adottati siano persone alle quali è mancato qualcosa, cioè che hanno “qualcosa di meno” perchè sono stati “abbandonati” eppure ogni mancanza può avere il suo lato positivo, ogni abbandono offre un dono. Quale doni hanno ricevuto gli adottati e quali doni offrono?

R: E’ così un po’ per tutti: le esperienze che viviamo, soprattutto quelle difficili, possono essere delle opportunità per diventare migliori. John Lennon, la cui storia è raccontata nel nostro libro, ha detto: “L’unico motivo per cui sono diventato una star è la mia repressione. Nulla mi avrebbe portato a questo se fossi stato “normale”. 

Tanti genitori adottivi sostengono che i loro figli hanno “una marcia in più”. Ed effettivamente molti di loro hanno superato così grandi difficoltà che ne sono usciti più forti e coraggiosi, sensibili e attenti verso gli altri, più aperti all’accoglienza e capaci di apprezzare la diversità.
Nella postfazione del nostro libro, il dott. Vadilonga spiega che la chiave del successo per chi ha vissuto l’esperienza dell’abbandono è quella di “trovare il proprio posto nel mondo, integrando il passato con il presente, mettendo insieme i diversi pezzi della propria vita, facendo i conti con i vissuti dolorosi, di rabbia, di abbandono, e trovando delle risposte a domande sul senso della propria storia”.

Per quanto riguarda i doni che offre chi è stato adottato…
Per noi sarebbe troppo lungo elencarli uno per uno! 
Se non avete la fortuna di avere amici adottati, vi lasciamo il gusto di scoprirli leggendo il nostro libro!

 
D: Sappiamo che non è sufficiente aver generato un bambino per essere un “buon” genitore, la tappa fondamentale che identifica il percorso di crescita del genitore è il passaggio da colui che ha generato a colui che adotta. Tutti i genitori dovrebbero “adottare” cioè “desiderare” e “scegliere” di essere genitori dei propri figli. E’ quindi ancora corretto distinguere tra figli adottati e figli non adottati?

 
R: Spesso ci capita di pensare al nostro essere madri per i nostri figli, intendendo con questo se siamo in grado di prenderci cura a pieno di loro, di stargli accanto nella maniera migliore, di comprenderne i bisogni. Questo essere genitore fa parte di noi, permea le nostre giornate, ci rende le persone che siamo nella vita privata e in quella sociale. È una dimensione che non sentiamo di “scegliere” ogni giorno, perché è talmente nostra che non c’è bisogno di affermarla o confermarla di fronte a sè o agli altri, ma unicamente di viverla a pieno, cercando di guardarsi dentro, con onestà.
Posta questa premessa, che in realtà è la sostanza, la relazione che si costruisce con il proprio figlio non può prescindere da come è avvenuto l’incontro con lui.
L’adozione porta infatti con sè delle specificità che riguardano i genitori ma anche i figli, e che devono essere tenute in considerazione per poter far fronte nel modo migliore agli eventi della vita famigliare. Non tenerne conto sarebbe non solo una pericolosa semplificazione, ma porterebbe anche a perdere di vista la direzione di un percorso genitoriale in sè differente.

 

 

3.Presentazione autrici

Sonia Negri

E’ laureata in Lettere Moderne. Si interessa di adozione da quasi vent’anni fa, quando ha capito che avrebbe potuto essere la sua strada per diventare mamma. I figli sono arrivati, uno dopo l’altro (e non senza sorprese) e la passione per l’adozione è cresciuta con loro. E’ co-fondatrice e volontaria dell’associazione Petali dal Mondo di Tradate (VA) e collabora con il settore adozioni del C.T.A. – Centro di Terapia dell’Adolescenza di Milano. E’ una delle autrici del libro “Nonni adottivi: mente e cuore per una nonnità speciale” pubblicato da Franco Angeli nel 2014.

 

Sara Petoletti

E’ psicologa e psicoterapeuta familiare. Collabora con il C.T.A. – Centro di Terapia dell’Adolescenza di Milano, dove svolge attività clinica con individui e famiglie; ha maturato una specifica esperienza nel trattamento delle tematiche familiari correlate all’adozione. E’ responsabile del Servizio Specialistico di sostegno alle adozioni e presa in carico delle crisi adottive del C.T.A.  Ha approfondito negli anni le proprie conoscenze anche nell’ambito della tutela minorile, della valutazione delle competenze genitoriali e del sostegno alla genitorialità.

 

4.Quarta di copertina

In questo libro potete trovare:

 

  • 2 adolescenti inventati, Lily e Gabriel, che si scrivono e-mail inventate, ma fanno ricerche vere su storie assolutamente reali.
  • 23 personaggi famosi che sono stati adottati in tempi e luoghi molto diversi (qualcuno è famosissimo, qualcuno un po’ meno, qualcuno lo diventerà dopo questo libro ;-)).
  • 5 interviste esclusive (imperdibili!!!).
  • 1 messaggio scritto proprio per voi che leggete.
  • Curiosità trovate nell’web, fotografie, interviste, frasi celebri.
  • Tante domande, pensieri, riflessioni ed emozioni.
  • …e uno spazio per ognuno di voi, perché ogni storia merita di essere scritta e ascoltata.

 

 

 

La scuola non serve a niente

 

UnknownAndrea Bajani

La scuola non serve a niente

Edizione: LATERZA 2014
Collana: i Robinson / Letture
Serie: iLibra

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Descrizione

A cosa serve la scuola? A cosa serve un romanzo? A niente. A che cosa servono gli insegnanti? A niente. O al più: a spostare mobili. Si entra a scuola ammobiliati in un modo, e giorno dopo giorno ci sarà
qualcuno che cercherà di spostare la disposizione di quello che siamo. A questo serve la scuola: a cambiarci la disposizione delle stanze. Nient’altro. Ci servono insegnanti che non rinuncino a farlo. E ci serve uno Stato che a questi insegnanti riconosca questa responsabilità. Nient’altro. Solo a questo ci serve la scuola. Con la capacità di cambiare la disposizione di una stanza si fa tutto: si comincia a pensare che se il mondo è disposto in un modo, e quel modo non ci piace, si può anche cambiare. Fare uscire i ragazzi dalla scuola con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello che hanno consegnato loro, e non solo essere bravi a inserirsi dentro caselle già disegnate: la scuola a questo dovrebbe servire, a non accettare il gioco, a fare domande scomode. È una scelta politica quella di imparare a immaginare. Immaginare, scegliere, inventare delle parole nuove per dare forma nuova al mondo – liberarlo, in qualche modo, dalle parole in cui l’hanno costretto. È una scelta politica, quella di imparare ad accettare che una scuola non serve a niente se non a questo. A spostare mobili, a cambiare la disposizione del mondo.

 

Indice

Prologo
L’era del «Rinuncianesimo»
Separati in casa
Scaldare la sedia
Cosa resta del Prof 35
La scuola non serve a niente
Epilogo
In questione
Massimo Recalcati, Cari professori, non fate gli psicologi,
Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso,
Christian Raimo, Ma a qualcuno interessa educare noi insegnanti?,
Mariapia Veladiano, Maestri con la valigia,
Cronache dal fronte

Silvia Dai Pra’, Il primo giorno,
Chiara Valerio, Almeno una regola, per favore,
Marco Lodoli, Insegnare a imparare,
Christian Raimo, Prof, la richiamo,
Silvia Dai Pra’, Argomento a piacere,
I numeri della scuola
Cronologia delle riforme

 

Biografia

Andrea Bajani
Andrea Bajani è nato nel 1975. Con Feltrinelli ha pubblicato Mi riconosci (2013) e La gentile clientela (2013), oltre ad alcuni racconti nella collana digitale Zoom. Tra i suoi libri, Cordiali saluti (Einaudi, 2005), Se consideri le colpe (Einaudi, 2007, Premio Super Mondello, Premio Brancati, Premio Recanati), Ogni promessa (Einaudi, 2010, Premio Bagutta) e La mosca e il funerale (nottetempo, 2012). Per il teatro è autore di Miserabili, di e con Marco Paolini, e di 18mila giorni, Il pitone, con Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa. Collabora con diversi quotidiani e riviste. I suoi romanzi sono tradotti in molte lingue.

INTERVISTA DA REPUBBLICA

La scuola? Non serve a niente. Non è solo un diffuso e stucchevole stereotipo, ma anche il titolo dell’ultimo, graffiante libro di Andrea Bajani, arricchito dai contributi, tra gli altri, di Massimo Recalcati, Mariapia Veladiano e Marco Lodoli. La scuola non serve a niente (in vendita in edicola, libreria e qui in formato ebook) è sicuramente una forbita provocazione del 38enne scrittore, che sviscera le lacune dell’istruzione italiana, oggi sempre più abbandonata dagli studenti, come mostrano ricchi video, grafici e statistiche allegati al volume. Ma è anche il denso auspicio di un’istruzione che sia sì focolare di nozioni e conoscenze, ma soprattutto faro brillante di una più lucida lettura del mondo. Affinché alunni e studenti possano dare “un nome alle cose” di questa sfuggente società liquida.

Insomma, Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente»?
“È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto “servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a quello che c’è dentro la scuola”.

E cosa c’è dentro?
“C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra”.

E invece si allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come lo chiama nel libro una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di rinunciatari passivi.
“È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a “disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana. Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità”.

Perdita di autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
“È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”. Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti, alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto: “L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore passaggio fondamentale”.

Quale?
“L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare”.

Invece, l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
“Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento”.

Riforme che tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e responsabilizza gli studenti.
“Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece, si è sviluppata una passività sempre più marcata”.

Per questo lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
“Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose, che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere, per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza il filtro della scuola, è merce senza valore”.

VIDEO PRESENTAZIONE

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