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A Chiara

A Chiara: la nostra intervista a Swamy Rotolo e Jonas Carpignano - Gloo
Regia di Jonas Carpignano. – Italia, 2021, durata 121 minuti. Età +13

1. TRAMA

2. RECENSIONI

3. VIDEO

  1. TRAMA

La famiglia Guerrasio si riunisce per celebrare i 18 anni della figlia maggiore di Claudio e Carmela. È un’occasione felice e la famiglia è molto unita, nonostante una sana rivalità tra la festeggiata e sua sorella Chiara di 15 anni sulla pista da ballo. Il giorno seguente, quando il padre parte improvvisamente, Chiara inizia a indagare sui motivi che hanno spinto Claudio a lasciare Gioia Tauro. Più si avvicinerà alla verità, più sarà costretta a riflettere su che tipo di futuro vuole per se stessa.

2. RECENSIONI

Chiara conduce la vita “normale” di una quindicenne. Almeno apparentemente. Va a scuola, corre in palestra, ha due genitori amorevoli, gioca con le sorelle, la maggiore Giulia e la più piccola Giorgia, si diverte con le amiche, tra canzoni, pettegolezzi e battibecchi, nel lungomare di Gioia Tauro. Senza troppi pensieri, piccoli gesti di ribellione, una sigaretta elettronica fumata neanche troppo di nascosto, la risposta sempre pronta, un carattere niente male. Finché, durante la festa per i diciotto anni di Giulia, arrivano alcuni uomini, la tensione sale, succede qualcosa di poco chiaro, il padre se ne va, poi torna a casa, poi scappa dal retro. E qualcuno incendia la sua auto. Ecco, quella macchina in fiamme, su cui, tra l’altro, si conclude il corto A Chiara, specie di costola onirica del lungo, è il punto di innesco che apre un’altra dimensione.

Da lì parte il viaggio della giovane protagonista, che non è altro che un’immersione in quel buco nero che le appare, per un istante, in casa. Quando si accorge del lato oscuro della sua famiglia, dell’ombra criminale di suo padre, di tutto quell’universo fino ad allora quotidiano, non volta lo sguardo altrove. Nonostante la madre cerchi di tranquillizzarla, nonostante Giulia reagisca alle sue insistenti domande apostrofandola “bambina”. La sorella, che sa, ha l’atteggiamento opposto: convive con quell’ombra, senza farsi troppi problemi inutili. Chiara, invece, vuole capire di più, come se quella sua personale inchiesta non fosse altro che un processo di conoscenza di sé stessa. Segue, pedina, chiede, attacca, non accetta facili rassicurazioni né compromessi. E, soprattutto, va a fondo. Il film è costellato di discese continue, con un’insistenza metaforica evidente. Nel bunker sotto casa, in cui Chiara si rifugia e pare quasi ambientarsi. Nell’altro nascondiglio tra le montagne, in aperta campagna, dove affronta finalmente il padre. E da lì è tutto un viaggio sotterraneo nei traffici illeciti, tra retrobottega, depositi, portabagagli, posti di blocco. Al punto che il film sembra quasi diventare il racconto di un’educazione criminale, la definitiva realizzazione di un’affiliazione fondata sul legame di sangue. “È tanto brutto questo lavoro?”, chiede Claudio alla figlia, rivendicando in qualche modo la legittimità di una scelta dettata dal bisogno. E da una domanda come questa emerge in tutta evidenza la trasparenza dello sguardo di Carpignano, che, sebbene non giustifichi, si tiene sempre lontano dal giudicare i suoi personaggi, cercando di illuminarne la posizione, le motivazioni delle loro scelte di vita. Come se nell’osservazione delle dinamiche, fosse già incorporata, non dico la comprensione, ma di sicuro una conoscenza concreta di certe esperienze, che solo a posteriori diventano dati sociali, antropologici, politici. Perciò Carpignano segue senza stigmatizzare, sforzandosi di accordarsi sempre a un lato più umano, a ciò che c’è di “normale” anche nelle vite più contorte e “controverse”. Come nella lunga, bellissima scena del compleanno di Giulia. Tanto, poi, ci pensa la storia a ristabilire gli equilibri, come per una legge del karma. E, difatti, ciò che sta davvero a cuore è il percorso di Chiara, quest’apparente, continua fuga, che in realtà è un gesto di riappropriazione di libertà individuale. Al di là delle necessità del sangue e del destino, di quell’heimarmene che, invece, era stata la condanna di Pio di A Ciambra, costretto a tradire la fiducia dell’amico Ayiva. I due protagonisti dei film precedenti, tra l’altro, qui tornano in piccoli incisi, così come ricompare il quartiere rom di Gioia Tauro. A riprova di come Carpignano sia uno dei pochi autori italiani capaci di delineare un universo narrativo organico, complesso, fatto di connessioni, assonanze, rime interne. Dove il reale è il punto di partenza, il deposito delle tracce, delle esperienze e dei volti che prendono poi piena forma nella costruzione poetica. Che si nutre delle traiettorie e delle implicazioni del racconto, certo, ma anche di tutta una dimensione “soggettiva”, che emerge dalle visioni, dalle percezioni sonore, dalla deformazione fantastica, inconscia della protagonista. E qui, davvero, Carpignano aderisce in pieno, a questo sentire in prima persona di Chiara. Al volto e ai movimenti della straordinaria Swami Rotolo, che già, a ulteriore conferma, appariva in un piccolo ruolo in A Ciambra. E immaginiamo di ritrovarla, in futuro. Oltre i suoi diciotto anni, quell’età in cui non si è più bambini, ma neanche davvero adulti. Oltre la festa, non del tutto spensierata, costellata com’è di residui del cuore e della memoria, percorsa dalla presenza ineliminabile dei fantasmi. Fuori dal rifugio, ma solo all’inizio del viaggio, l’attenderemo all’altro lato della corsa… di Aldo Spiniello https://www.sentieriselvaggi.it/a-chiara-di-jonas-carpignano/

3. VIDEO

TRAILER

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LA MIA FAMIGLIA

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ZIA E CHIARA
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Train de vie

Regia di Radu Mihaileanu. – Francia, Belgio, Romania, Israele, Paesi Bassi, 1998, durata 103 minuti. Età +16

train de vie | CIRCOLO Virtuoso Bukó

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. VIDEO

  1. SINOSSI
    Una sera del 1941 Schlomo, chiamato da tutti il matto, irrompe allarmato in un piccolo villaggio ebreo della Romania: i nazisti, fa sapere, stanno deportando tutti gli abitanti ebrei dei paesi vicini e fra poco toccherà anche a loro. Durante il consiglio dei saggi, che subito si riunisce, Schlomo tira fuori una proposta un po’ bizzarra che però alla fine viene accolta: per sfuggire ai tedeschi, tutti gli abitanti organizzeranno un falso treno di deportazione, ricoprendo tutti i ruoli necessari, gli ebrei fatti prigionieri, i macchinisti, e anche i nazisti in divisa, sia ufficiali che soldati. Così riusciranno a passare il confine, ad entrare in Ucraina, poi in Russia per arrivare infine in Palestina, a casa.

2. RECENSIONE
C’era una volta….
Con queste parole comincia il film di Radu Mihaileanu. Un racconto che ha un sapore fiabesco. Protagonista assoluto il treno, come metafora del viaggio verso qualcosa o in fuga da qual cosa.
Per capire questa fuga forse bisogna stare attenti alle prime parole del film, pronunciate da Schlomo, il pazzo o scemo del villaggio (ruolo pensato in un primo tempo per Benigni), mentre lo si vede correre forsennatamente. Dice Schlomo: “Fuggivo, credevo si potesse fuggire da ciò che già si è visto, troppo visto…”. E’ questa probabilmente la stessa cosa in cui ha creduto il regista Radu Mihaileanu quando, dopo aver visto Schindler’slist, ha deciso di girare a modo suo un film sulla shoah, tutto questo in concomitanza a quello che faceva Roberto Benigni in Italia girando “La vita è bella”. L’orrore messo in scena da Spielberg con la sua “lista di Schindler” aveva toccato il massimo. Dopo essersi sporcati troppo gli occhi nel presentare gli orrori delle deportazioni naziste, ora, fa intendere Mihaileanu, bisogna ripulirseli. “Come lavare gli occhi insudiciati, gli occhi che hanno visto troppo…”, si chiede Schlomo sempre all’inizio del film. Lui fin dall’inizio fugge: ma da cosa? Lo sapremo veramente soltanto alla fine del film. Sarà la risposta all’altra frase iniziale: “Lo spazio non è più nei nostri cuori, e noi andremo a cercarlo altrove…”. Train de vie è un film su questo “altrove”, su questo altro spazio possibile per chi non ne trova più nel proprio cuore. E il treno è il mezzo per raggiungere questo luogo-altrove. Dentro questo treno c’è la storia dell’ebraismo con le sue ambivalenze storiche: da una parte l’accusa di Hitler agli Ebrei di essere dei Bolscevichi e contemporaneamente dei Capitalisti intrusi nel sistema economico europeo. Nel treno del film c’è anche l’amore, la famiglia, la tradizione religiosa del popolo ebreo, ma soprattutto il senso dell’umorismo. Gli ebrei di questo treno della vita, infatti, parlano una lingua, che, come dice uno dei protagonisti del film, è nient’altro che la parodia del tedesco con dentro l’umorismo: si tratta della lingua Yiddish, la lingua degli Ebrei del Centro Europa, lingua di una ormai piccola minoranza che presenta però scrittori della statura del premio Nobel Isaac B. Singer o del filosofo Martin Buber, autore, tra l’altro di una raccolta di racconti della cultura yiddish.
La cultura dei villaggi (shtetl) Yiddish è ironica, sferzante. E’ la risposta polemica del regista ad un certo modo ebraico di trattare i fatti della Shoah.
“Quando vedo certi programmi televisivi cupi e noiosi sulla Shoah, quando sento i piantie i lamenti, penso sempre: se Hitler fosse vivo e vedesse questa roba, sarebbe felice. L’unica cosa con la quale possiamo umiliare i gerarchi nazisti che sono ancora vivi in Sudamerica, e farli imbestialire, è mostrare loro che siamo vivi, non ci hanno distrutti, che il nostro umorismo non è stato cancellato dalla loro barbarie” (da un’intervista a Mihaileanu).
L’inizio e la fine del film ripropongono il modo Yiddish di raccontare le storie. All’inizio: “Amol iz geven, C’era una volta”. E alla fine: “S’iz an emese mayse, Questa è una storia vera”. E il narratore, Schlomo, corrisponde allo schnorrer, che è una delle figure più tipiche della società e della letteratura yiddish. In principio era essenzialmente un saltimbanco e un musicista, ma anche un predicatore itinerante. Poi è diventato un cantastorie.
Nel film è lui il motore della storia, che da risposta alle domande del popolo del villaggio e che pone allo spettatore le grandi domande sull’esistenza.

3. VIDEO

Train de vie ITA – Musica tra ebrei e zingari

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Train de vie – Monologo

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Train de vie: conflitto ebrei-nazisti

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welcome film immigrazione

WELCOME

Regia di Philippe Lioret. Francia, 2009, durata 110 minuti. Età: più 12

Welcome" un film di Philippe  immigrazione adolescenza

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. VIDEO
  1. SINOSSI

Welcome racconta la storia del giovane rifugiato curdo . A soli diciassette anni, il ragazzo ha vagato per mesi in Europa, nel tentativo di ricongiungersi con la sua amata fidanzata, che ha emigrato con la famiglia in Inghilterra. Il viaggio per Bilal è stato molto duro, ma finalmente riesce a raggiungere il nord della Francia, da dove spera di prendere una nave per attraversare il mare e approdare nel Regno Unito.
Proprio lì la polizia ferma il ragazzo: a causa delle leggi in vigore sull’immigrazione, il giovane curdo non può oltrepassare il canale della Manica. Senza perdersi d’animo, Bilal progetta di superare le fredde acque del mare del Nord nuotando, ma per riuscirci deve prepararsi. Così, con i pochi soldi che ha si iscrive in una piscina dove inizia l’allenamento.
Lì Bilal incontra Simon , un istruttore di nuoto di mezz’età in piena crisi, a causa dell’imminente divorzio con la moglie Marion . Nonostante le evidenti differenze, i due scoprono in realtà di avere molto in comune: nasce così una forte amicizia che darà la forza a entrambi di lottare per i loro sogni di un avvenire migliore.

2. RECENSIONE

di Simone Emiliani sentieriselvaggi.it

I limiti invalicabili della frontiera prendono forma in Welcome, diretto dal francese Philippe Lioret che in Italia si era fatto conoscere per Mademoiselle (2001) ma che a France Cinéma, nel 2006, ha presentato uno dei suoi film più belli, Je vais bien, ne t’en fais pas. Il canale della Manica, che divide la Francia dall’Inghilterra, rappresenta infatti un ostacolo insormontabile per numerosi immigrati clandestini. Bilal è un ragazzo di 17 anni originario dell’Irak che ha lasciato il suo paese per raggiungere la ragazza che ama, Mina. Lei vive a Londra con la sua famiglia e suo padre non vuole che frequenti il ragazzo. Con alcune persone, ha tentato di nascondersi dentro un camion che stava per imbarcarsi da Calais, ma è stato scoperto dalle autorità. A questo punto il ragazzo pensa all’impresa disperata: cercare di attraversare la Manica a nuoto. Inizia così a prendere lezioni nella piscina locale e il suo insegnante Simon (Vincent Lindon) inizia a prendersi cura di lui ospitandolo di nascosto a casa sua e aiutandolo a mettersi in contato con Nina. Welcome è un film disperato, senza speranza, ma di un’intensità tale che non lascia indifferenti. Lioret mette innanzitutto in maniera straordinaria le forme differenti di razzismo che serpeggiano a Calais: il vicino di casa di Simon che avverte la polizia dopo che ha visto il maestro di nuoto entrare nella sua abitazione con Bilal; lo sgombero degli immigrati nei pressi del porto; un addetto di un supermercato che impedisce a due uomini di entrare. La macchina da presa attraversa il porto di notte, luogo di provvisorie speranze ma anche impermeabile verso l’esterno, avvolto da un blu sospeso tra il malinconico e lo spettrale. Al tempo stesso però Welcome è anche una struggente storia di amori impossibili. Ciò è evidente nei continui tentativi di Bilal di mettersi in contatto con la ragazza ma anche nella sofferta separazione tra Simon e l’ex-moglie, ancora emotivamente coinvolti e attratti ma ormai distanti. Per certi aspetti, le forme di un nomadismo, anche sentimentale, congelate dentro lo spazio provvisorio del porto, ricordano Lontano di André Téchiné. Rispetto a quel bel film, però Welcome va oltre e raggiunge continuamente momenti emotivamente mai esibiti ma che catturano e lasciano i suoi segni. Basta vedere lo sguardo di Vincent Lindon su un ragazzo che nuota in piscina. Non è più Bilal ma un’altra persona. Lui lo osserva come stordito, rivedendo in quel corpo l’altra immagine. Forse di un desiderio di paternità negato, forse un inconscio tentativo di desiderio, dove nella ricerca della felicità del ragazzo c’è dentro anche la sua.

3. VIDEO

TRAILER

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Girl

Regia di Lukas Dhont. Belgio, 2018, durata 105 minuti. Età: +13

Girl, la recensione del film

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. VIDEO
  1. SINOSSI

Girl, il film diretto dall’esordiente Lukas Dhont, è ispirato a una storia vera e vede protagonista Lara, adolescente con la passione della danza classica: insieme al padre e al fratellino si è trasferita in un’altra città per frequentare una prestigiosa scuola di balletto, a cui dedica tutta se stessa. Ma la sfida più grande è riuscire a fare i conti con il proprio corpo, perché Lara è nata ragazzo.

2. RECENSIONE

di Fabrizio Tassi cineforum.it
Lara è nata nel corpo di Victor. Lara è il suo nome “vero”, una promessa di felicità, è la parola (l’identità) che risuona dolcemente nel prologo dolaniano, un sussurro immerso in una luce irreale. Victor, invece, è il passato, lo spettro da cancellare, la parola da non pronunciare, il nome in cui Lara si è trovata imprigionata: uno scherzo della natura. Victor è diventato Lara, tutti lo sanno: il magnifico padre la accompagna nel suo percorso di trasformazione (in ciò che è davvero), gli insegnanti incoraggiano i suoi sforzi, i compagni di classe e di danza la trattano come la ragazza che in effetti è sempre stata. Ma a Lara, che ha 15 anni, non basta. A lei sembra tutta una recita, civile, edificante, ma fasulla. In un magnifico dialogo (clinico), lo psicologo la sostiene, la incoraggia, cerca di farle capire con le parole (la cultura) quanto sia già “femmina”, mentre dai balbettamenti di lei, dal suo sorriso imbarazzato, emerge timidamente il disagio, il dolore che brucia dentro. A Lara non basta la cultura, vuole la natura (femminile). Vuole trasformare il suo corpo, perché possa esprimere le sue emozioni più vere, perché possa finalmente sentirsi libera. CONTINUA A LEGGERE

3.VIDEO

TRAILER

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CON LO PSICOLOGO

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CON IL PADRE

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CON LE COMPAGNE

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METRO MANILA

Regia di Sean Ellis. Gran Bretagna, 2013, durata 114 minuti. Età dai 14 anni

Metro Manila movie review | Coconuts Manila Manila

  1. Sinossi
  2. Recensione
  3. Video

1. SINOSSI

Oscar, insieme alla sua famiglia, si trasferisce a Manila in cerca di una vita più dignitosa rispetto a quello che conduceva nelle risaie del nord delle Filippine. Nella metropoli, però, lui e i suoi cari finiscono vittime di manipolazione da parte degli abitanti locali, già temprati. In quel contesto Oscar deve cercare di sopravvivere e di lottare, nonostante abbia trovato anche un nuovo lavoro.

2. RECENSIONE

Di Teresa Monaco cinematographe.it

Con Metro Manila Sean Ellis dà alla disperazione i colori accesi della megalopoli, il valore quasi inesistente dei chicchi di riso e quello elevato del sacrificio umano. Regala allo spettatore una storia in cui l’amore cade nella fanghiglia della disonestà, della cattiveria, dell’arroganza, rimanendo però integro e puro in un modo così semplice e duro da far venire i brividi.

Il film britannico-filippino con Jake Macapagal (Oscar), Althea Vega (Mai) e John Arcilla (Ong), presentato al Sundance Film Festival 2013 – dove ha vinto il Premio del Pubblico – e in arrivo nelle sale italiane a partire dal 21 giugno 2017 grazie a Bunker Hill, non porta sicuramente nulla di nuovo sul grande schermo, ma lo fa in modo nuovo, delicato, poetico.

Sean Ellis racconta la storia di Oscar, un contadino costretto ad abbandonare il suo paese insieme alla moglie Mai e ai suoi figli, credendo di trovare una vita migliore nella grande città di Manila. Il viaggio che li conduce nella capitale filippina è scandito da giochi di luce e ombra, percorsi a piedi, viaggi in auto, colpi di sonno, preghiere. Un accumulo di aspettative e sogni che esplode nella visione di strade affollate, luci e colori, uniti da una musica classicheggiante che come un filo di cotone lega i pezzi di un puzzle in cui le sfortune affollano in un unico quadro.

Annaspando nel marasma della megalopoli, la famiglia Ramirez si trova a fronteggiare una serie di soprusi che corrodono ulteriormente la loro instabilità economica portandoli a vivere in una baraccopoli, a incontrare falsi amici e a fare lavori umilianti – Mai si trova costretta a prostituirsi in un bar – e rischiosi. Oscar infatti trova impiego come agente di sicurezza ai blindati di trasporto valori. Un lavoro duro, con una paga irrisoria se paragonata al rischio, ma che risponde ai bisogni della sua famiglia.

Se c’è una cosa che Metro Manila sa far venire a galla splendidamente, attraverso la sofferta e sincera interpretazione di Jake Macapagal, è la bellezza dell’onestà.
Oscar è un uomo semplice, uno che vuole vivere a testa alta, facendo la cosa giusta senza paura di avere meno di chi non lo merita. La sua condizione di povertà non lo porta a trovare la via più semplice per sopravvivere, bensì la via più giusta. Ma pur perseverando in questa direzione il destino si mostra a lui infame ponendogli lungo la strada una serie di ostacoli che lo porteranno al sacrificio estremo.

In Metro Manila si passa gradualmente dal racconto drammatico al thriller, con inserti che ci fanno conoscere il doppio volto di ognuno.
È il caso del collega di Oscar (Ong) che nasconde, dietro la maschera della generosità e dell’amicizia incondizionata, il volto del ricattatore. Sarà grazie a lui che Oscar troverà lavoro e casa; per causa sua che si troverà senza paga e senza speranza.

La regia di Sean Ellis è pulita e meticolosa, funge nel vero senso del termine da terzo occhio, ma un occhio quanto mai umano, fugace, che si sofferma sui dettagli che contano: una stretta di mano, degli occhi truccati, un volto sorridente. Cose piccole e quotidiane ma che nel calderone filmico acquistano senso e importanza anche in relazione alla storia narrata.

Quest’ultima si intreccia alla vicenda di Alfred Santos, l’ex datore di lavoro di Oscar che, portato allo stremo, sceglie di compiere un gesto disperato: salire su un aereo armato di pistola, minacciare i passeggeri in modo da racimolare dei soldi e poi lanciarsi giù dal paracadute e ricominciare una nuova vita.
Ma il piano di Alfred, come ci dice il protagonista, era solo un sogno andato a finire male. Il suo, invece, è un piano vincente e doloroso; un piano che mette da parte il “noi” per favorire il “voi”.

Metro Manila è uno di quei film che ci inducono alla riflessione, che ci fanno estrapolare il vero valore della vita indotta a trascinarsi nei meandri infelici della sopravvivenza.
Un film che parla di ultimi che non riescono a rialzarsi, uomini e donne che non conoscono lieto fine, sconfitti da una società accecata dalla rabbia e dal potere.

Sean Ellis fa dunque, col film Metro Manila, un ottimo lavoro di messa in piega al cinema filippino che, traslitterato attraverso le movenze della regia britannica, riesce a portare a galla quella parte di arte e di mondo che spesso il grande schermo tende a occultare.

3. VIDEO

Trailer

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La vita invisibile di Eurídice Gusmão

Regia di Karim Aïnouz. Brasile, 2019, durata 139 minuti. Età : +13

La vita invisibile di Eurídice Gusmão 
film
sorelle
walterbrandani.it

1. SINOSSI

2. RECENSIONE

3. VIDEO

  1. SINOSSI

Rio de Janeiro, 1950. Eurídice e Guida sono due sorelle inseparabili che vivono con i loro genitori dagli ideali conservatori. Immerse in una vita tradizionale, nutrono entrambe dei sogni: Eurídice vuole diventare una rinomata pianista, mentre Guida è in cerca del vero amore. Le loro scelte porteranno alla drastica decisione del padre di separarle. Le due sorelle prenderanno due strade diverse senza mai perdere la speranza di potersi ritrovare.

2. RECENSIONE

Francesco Boille, internazionale.it

Dopo una lunga serie di immagini fisse sulle quali sfilano i titoli di testa e che inquadrano una natura lussureggiante, dai colori vividi, ipnotici, il racconto prende inizio vicino al mare, tra gli scogli e i dirupi. Se quelle immagini sembrano richiamare una prossimità con la foto d’arte e le installazioni, l’estetica della sequenza che segue è più naturalistica, ma i colori, il verde soprattutto, restano di una certa intensità. Due ragazze di circa vent’anni sono inquadrate in un’atmosfera sospesa, vagamente inquieta, rafforzata da un commento musicale discreto ma persistente, che annuncia un possibile temporale, forse una tempesta. Una si alza, l’altra resta seduta, pensosa. Il vento muove le fronde degli alberi mentre vediamo una delle due ragazze inerpicarsi tra la vegetazione esotica e rigogliosa, avanzando tra cespugli e alberi dalle gigantesche radici ricoperte di muschio. Nel risalire si distanziano, poi si chiamano l’un l’altra. “Eurídice!”, dice una. “Guida! Aspettami!”, dice l’altra. La prima chiama ancora, senza l’altra sembra sentirsi come perduta in quel verde avvolgente. Quasi obnubilante. Subito dopo questo lungo prologo, dissolvenza sul nero poi, accompagnata da una musica al pianoforte, l’immagine torna circondata sempre dal nero, come fosse un quadro. Oppure una foto proveniente da un passato recente. Immersa in una luce bianca, soffusa, vediamo una delle due giovani stagliarsi da una porta che quasi la incornicia insieme a una tenda – aperta a metà – di un azzurro turchese e semitrasparente che ondeggia al vento. Per un momento pare un’immagine fantasmatica, distante, lontana, forse perduta per sempre. Un’estetica espressione di una grazia oggi scomparsa. Questo l’incipit, ammaliante, dello straordinario film brasiliano La vita invisibile di Eurídice Gusmão di Karim Aïnouz, adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice e giornalista brasiliana Martha Batalha che arriva ora nelle sale italiane dopo aver vinto il premio come miglior film nella sezione Un certain regard dell’ultimo Cannes. Senza contare la candidatura agli Oscar per il Brasile come miglior film straniero e l’esser stato designato come miglior film dal Sindacato nazionale dei critici italiani. È la storia, incredibile, appassionante, nel Brasile degli anni cinquanta di due sorelle molto somiglianti e insieme molto diverse, in realtà legate tra loro come due vere gemelle malgrado abbiano una differenza di età di circa due anni (Eurídice ha 18 anni, Guida ne ha 20). Eurídice sogna di diventare una grande musicista. Guida sogna invece il grande amore, fuori dai canoni. Entrambe sognano di avere una vita felice seguendo i loro desideri, le loro aspirazioni. Entrambe sperano di rivoluzionare le convenzioni sociali dell’ambiente circostante che dietro l’estroversione, una certa follia apparente, nasconde le tradizioni oppressive di una società dominata dalla cultura patriarcale. Aïnouz confonde e annulla i livelli tra narrazione intima e sociale, romanzo e melodramma, cinema d’impronta realista e cinema che trasfigura, tra sperimentazione e classicismo, tra telenovela e cinema d’autore. Tutto tiene in una sapiente alchimia di equilibri, fatta anche di tanti piccoli tocchi, come quelli di un pittore su un quadro. Del resto, quest’alchimia è altrettanto vera sul piano formale, sintomo di una perfetta unione tra la dimensione narrativa con quella visiva. Ma prima di approfondire quest’ultima, soffermiamoci su quella narrativa. Essere ragazza madre negli anni cinquanta non era uno scherzo, ancor più in Brasile. Cacciata dal padre, con una madre sottomessa al suo volere, Eurídice vivrà un’esistenza costantemente segnata dal fatto che i genitori le hanno fatto credere che la sorella fosse morta. Guida – che nel film qualcuno trova sia un nome difficile da ricordare o pronunciare forse perché ricorda il nome di Giuda, sinonimo di tradimento e disonore – sarà invece segnata dal costante interrogativo sul perché la sorella non risponda alle sue lettere. Non vogliamo rivelare molto di più. Crediamo sia chiaro che in un contesto sociale del genere se la donna è vittima di un uomo che la seduce, a farle poi pagare la propria ingenuità sia sempre un uomo. La cultura maschilista, qui uccide due volte, uccide sempre. In realtà uccide tutti, anche il padre.

Architetture oniriche
Tutto questo è avvolto in una dolcezza dall’onirismo persistente. I colori saturi ricercati dal regista che rievocano l’estetica ottimista delle cartoline degli anni cinquanta sono sempre modulati sapientemente con l’estetica dal registro più naturalistico. Quasi in ogni inquadratura i personaggi sono immersi, circondati, da muri, linee prospettiche, intersezioni divisorie, negli interni come negli esterni, che creano una grande vivacità visiva e una (ri)esplorazione degli ambienti, della loro veridicità e autenticità. Una sorta di mirabile unione formale che è l’opposto della vicenda delle due sorelle, due sorelle-specchio progressivamente sbriciolate, frantumate dal determinismo sociale. Ma queste linee divisorie sono avvolte in un onirismo costante che crea una sorta di stranissima psichedelia rétro, e non soltanto per il verde dominante, avvolgente. Non deve stupire: il regista è laureato in architettura, ha realizzato installazioni oltre che documentari, fiction televisive per la Hbo e diversi altri lungometraggi selezionati a Cannes, Berlino e per due volte a Venezia.

3 VIDEO

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LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO – clip – “Questo vestito ti sta d’incanto”

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LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO – clip – “Ricordi”
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LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO – clip – “Sorelle invisibili”

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I MISERABILI

Regia di Ladj Ly. Francia, 2019, durata 100 minuti. Età V.M. 14

Recensione “I Miserabili” (“Les Miserables”, 2019) – Una Vita da Cinefilo
  1. SINOSSI

2. RECENSIONE

3. IMMAGINI

  1. SINOSSI

Miglior film francese dell’anno e Premio della Giuria al Festival di Cannes, I miserabili, acclamata opera prima del regista Ladj Ly. Girato esattamente dove Victor Hugo aveva ambientato il suo romanzo, a Montfermeil, nella periferia a un’ora dal cuore di Parigi si consuma un thriller dal ritmo avvincente e adrenalinico. Stéphane, insieme a due colleghi veterani di una squadra anticrimine, si trova a fronteggiare una guerra tra bande, membri di un ordine religioso, ragazzini in rivolta. Un semplice episodio di cronaca diventerà il pretesto per una deflagrante battaglia per il controllo del territorio, in un tutti contro tutti senza pietà

2. RECENSIONE

CINEFORUM.IT Chiara Borroni

Victor Hugo con  I miserabili aveva cercato di mettere in un libro “il destino e in particolare la vita, il tempo e in particolare il secolo, l’uomo e in particolare il popolo, Dio e in particolare il mondo”; l’ispirazione della prima opera di finzione di Ladj Ly (dopo la coregia del bellissimo documentario A voce alta – La forza della parola) è dunque dichiarata fin dal titolo che ricalca letteralmente quello di uno dei monumenti della storia della letteratura e non solo perché è ambientato nella Montfermeil dove Hugo fa muovere parte dei suoi personaggi intorno alla locanda dei Thénardier. La vocazione – vedi ambizione – del giovane regista nato e cresciuto nella stessa banlieue, è infatti realizzare un affresco storico, sociale, politico (come lo era d’altra parte anche il documentario sulla competizione di arte oratoria all’università di Saint-Denis) e di metterlo, questa volta, in forma di finzione narrativa. Per questo Ladj Ly sceglie di calare la sua materia nel poliziesco e di farlo spingendo sugli stilemi del genere (inteso in una declinazione action decisamente più americana che europea) che adatta a mettere in scena la vita dei quartieri della periferia parigina. Il destino, la vita, il tempo e soprattutto l’uomo sono al centro del racconto che ruota intorno a tre flic incaricati di tenere sotto controllo la situazione tra i casermoni di periferia in cui l’equilibrio è sempre sul punto di saltare. I tre (uno nero e uno bianco radicati, ognuno a suo modo, nelle dinamiche del quartiere, e poi il novizio appena trasferito da Cherbourg), a bordo della loro Peugeot grigia si muovono nel dedalo degli hlm tra le vie ingombre di detriti, il campo da calcio, i giardinetti, l’ufficio del cosiddetto “Sindaco”, il kebabbaro punto di riferimento della comunità islamica: osservano, controllano, intervengono dalla strada. Non vegliano perché vegliare prevede di mantenere una distanza che non possono avere in mancanza di una soluzione sistemica. Si muovono dal basso, allo stesso livello degli abitanti, non dissimili, mai davvero uguali, tutti parte dello stesso meccanismo in cui l’unica via è assecondare le pressioni e le tensioni per evitare che esplodano. Questa negazione della possibilità di un ordine sociale ri-stabilito diventa per Ladj Ly anche la negazione di uno sguardo esterno agli avvenimenti (oggettivo si potrebbe dire): tutto è portato dentro all’azione continuamente e senza sosta, la narrazione è totalmente immersa, la macchina da presa segue, incalza, racconta, senza prendere mai posizione perché non ci sono in fondo né buoni né cattivi. Gli unici che provano a reagire riprendendosi quella distanza necessaria sono i bambini, i soli – non a caso – che riescono a osservare da “fuori”, dall’alto, dai tetti, attraverso un drone o dietro uno spioncino, i soli a poter provare – forse – a scardinare questo ordine non costituito. La scelta di Ladj Ly diventa però anche il limite del film che asseconda la narrazione senza riuscire a dominarla fino in fondo, ritrovandosi a più riprese a svicolare, scegliendo la soluzione più semplice, senza osare davvero, senza, appunto, prendere per davvero una posizione.

3. IMMAGINI

Trailer

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Clip “Noi non giochiamo”

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THE FAREWELL

Regia di Lulu Wang – USA, Cina, 2019 – durata 98 minuti – età +13

  • sinossi
  • recensione
  • video
  • SINOSSI

Billi, una giovane newyorkese con aspirazioni artistiche, scopre dalla sua larga famiglia cinese che all’anziana nonna Nai Nai è stato diagnosticato un tumore incurabile in fase molto avanzata: tornati in Cina a farle visita, tutti i parenti decidono di comune accordo di tenerle nascosta la verità per farle vivere amorevolmente quei pochi mesi che le rimangono. Tuttavia, più trascorre del tempo con Nai Nai, più Billi si ritrova a dubitare di quanto quel che stiano facendo sia giusto.

  • RECENSIONE

Di Martina Barone – cinematographe.it


Ogni persona racchiude due anime: sentimentale e razionale, mite e irrequieta, sincera e apparente. Anche in Billi si contrappongono due realtà, due luoghi che rappresentano nella propria vita i poli opposti che l’hanno formata. C’è l’America, stato dell’indipendenza, terra delle opportunità in cui puoi essere chiunque vuoi, puoi diventare chiunque tu voglia. E poi c’è la Cina, la tradizione, le origini, ma, soprattutto, la famiglia di sempre. Quella allargata, con zii e cugini che sono emigrati lontano, con nonne che continuano a prendersi cura di te e parenti alla lontana che ritrovi solo nelle grandi occasioni.

È la lontananza di due luoghi che entrano in coincidenza nell’interiorità della protagonista di The Farewell – Una bugia buona, che riecheggiano come posti in connessione da un filo conduttore che collega mondi distanti, quanto mai inconciliabili, entrambi spogliati dalle reciproche ipocrisie e messi in mostra da Lulu Wang nel suo meraviglioso film. Di singolarità personali, di Paesi e ideologie, di riti culturali e usanze comunitarie: l’opera ne intreccia i fulcri senza mai risultare ridondante, senza eccedere nel desiderio di rendere un’unica, allargata famiglia il centro delle contraddizioni di una collettività assai più grande, ma in cui è possibile coglierne tutti gli attriti; quegli umori antitetici che, in The Farewell, fanno da sostegno all’intero racconto.

The Farewell – Una bugia buona: dall’Oriente all’Occidente, dall’indipendenza alle tradizioni

C’è un motto cinese che dice: se una persona ha un cancro non è la malattia ad ucciderla, è la paura. È per questo che le famiglie decidono di tenere segreto un male così insopportabile, come scelgono di fare anche i consanguinei Wang, trasformando l’ultima visita all’anziana madre e nonna Nai Nai (Zhao Shuzhen), malata di cancro ai polmoni, in un matrimonio organizzato all’ultimo momento tra il nipote Hao Hao (Chen Han) e la novella fidanzata giapponese. Un’occasione per l’intera famiglia di ritrovarsi insieme dopo anni, facendo ritorno in una Cina che li porrà davanti alle loro contrapposizioni.

Quella di The Farewell è una pellicola ispirata a una storia vera. Non solo una vicenda arrivata alla sceneggiatrice e regista per essere rimaneggiata e resa racconto filmico, ma esperienza diretta di una cineasta che, al suo lungometraggio di esordio, affronta con sincerità i dilemmi e le imperfezioni della propria famiglia. Di un’appartenenza all’Occidente che la separa dall’aspetto profondo e risoluto dell’Oriente, il quale non manca però di risiedere nei ricordi della Lulu Wang bambina e, così, anche nell’infanzia e nei pochi stralci di memoria della sua protagonista. Una giovane, che nel mezzo dell’indicibile menzogna, tenta di ritrovare una conciliazione tra le sue ambivalenti anime.

È nella sincerità di The Farewell che si coglie l’importanza che la pellicola ha per l’autrice. Un sentimento espresso non provando il bisogno di sottolinearlo con rimarchi di scrittura, rischiando di mettere in primo piano semplicemente una parte di sé, tralasciando la possibilità di dare alla sceneggiatura una potenza che serve più a suggerire che a evidenziare, più a esortare che a rivelare. E, nella leggiadria della storia, è la sensazione di risiedere davanti a qualcosa di profondamente personale che lo spettatore abbraccia completamente. Un film che, come pochi altri, tocca sul vivo l’empatia del pubblico, che sapendo o meno di trovarsi di fronte al passato della regista, riesce a viverne la dimensione intima, confidenziale, di inclusione in quel piccolo segreto e nella riflessione che ne vede poi derivare.

The Farewell – Una buona bugia: dalla genuinità di Awkwafina al vero che diventa cinema

Il tutto non dimenticando una bellezza scenica di una calorosità carezzevole, attenta alle assonanze delle inquadrature, con palette di colori che tingono una mise en scène in cui ogni frammento risalta impeccabile, impreziosito dall’abilità registica di Lulu Wang. Evocativa nella consapevolezza dei propri spazi, pieni ogni volta delle emotività dei personaggi. Una protagonista, l’attrice Awkwafina, che rispetta l’autenticità della pellicola e del suo significato, dandosi con una genuinità che rende il film ancora più reale, in un connubio tra l’onestà verso la propria regista e il contributo della propria prova attoriale.

Il vero che diventa cinematografico, ma non per questo meno incisivo: The Farewell – Una bugia buona è il mettere a nudo gli effetti di un mondo sempre più globalizzato. Persone che lasciano la propria casa nella speranza di una vita migliore, in cui è però impensabile dimenticare le proprie radici, dovendo imparare a separarne i confini e, inevitabilmente, a conviverci. Una famiglia che Lulu Wang riporta con grazia e con una sensibilità che avvolge racconto e spettatori, per una pellicola di una armonia e una benevolenza incorruttibili, un incanto preso dal vero che diventa cinema.

  • VIDEO
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TRAILER
https://www.youtube.com/watch?v=ULpyM4QDVV0

film in streaming

Elenco di film visibili gratuitamente in streaming. Indicazione età e breve riassunto. (clicca sul titolo per vedere il film)

La Freccia Azzurra

durata 89 minuti. Età visione: per tutti

Nel suo negozio la Befana riceve gli ordini per i doni della notte del 6 gennaio. Il suo assistente, il perfido dottor Scarafoni, la costringe a letto con una falsa influenza per prendere in mano la situazione. Il suo scopo è di arricchirsi servendo solo i figli dei clienti facoltosi. Francesco, povero ed orfano, sa che non vedrà esaudito il suo desiderio di avere in dono il trenino “Freccia Azzurra”. Ma nel negozio i giocattoli, capita la situazione, decidono di agire

Il fiuto di Sherlock Holmes

Sei episodi di 25 minuti Età visione: per tutti Regia: Hayao Miyazaki

Sherlock Holmes è un abilissimo investigatore privato, capace di smascherare qualunque malvivente. Suona il violino ed è un appassionato di esperimenti chimici. Al suo fianco, l’inseparabile Dottor Watson, ex medico che ha abbandonato la professione per seguire le investigazioni di Sherlock. Il nemico giurato di Holmes è il Prof Moriarty, astuto ladro, convinto di essere il più gran furfante del mondo.

Le avventure di Zarafa, giraffa giramondo

Durata 71 minuti. Età visione: per tutti

All’ombra di un baobab, un anziano racconta ai bambini la storia dell’amicizia tra il piccolo Maki e Zarafa, una giraffa orfana offerta in dono dal Pascià d’Egitto al re di Francia

NAT E IL SEGRETO DI ELEONORA

durata 75 minuti. Età visione: per tutti

Nat e la sua famiglia ereditano dalla zia Eleonora la casa e la biblioteca piena dei testi di quelle favole che la zia era solita raccontare al nipote. Nat però non sa ancora leggere e di tutti quei libri non sa che fare, finché non scopre che questi nella notte si animano e che i loro personaggi prendono vita… Quando i genitori decidono di vendere tutti i libri al gretto rigattiere Ramazzatutto, Nat per salvare i suoi personaggi preferiti si trasformerà in eroe

Mià e il Migù

durata 87 minuti. Età visione: per tutti

Una bambina di 10 anni di nome Mià vive in un villaggio dell’America del Sud sotto la tutela di tre vecchiette. La madre è morta da tempo mentre il padre, Pedro, è stato costretto a partire per lavoro. Una notte, svegliata da un brutto presentimento, la piccola decide di mettersi alla ricerca del genitore ed affronta un viaggio le farà incontrare i Migù, strani spiriti della foresta grazie ai quali conoscerà la forza e le meraviglie della natura…

Iqbal – Bambini senza paura

durata: 80 minuti. Età visione: per tutti

Iqbal è un bimbo sveglio che vive con il fratello Aziz e la madre Ashanta, in un posto molto povero. Quando suo fratello si ammala, è pronto a tutto pur di trovare i soldi per curarlo e finisce nelle mani di uno schiavista, che lo costringe a lavorare, con altri bambini, in una fabbrica di tappeti

Pipì Pupù e Rosmarina e il mistero delle note rapite

durata 82 minuti. Età di visione: per i più piccoli

Riusciranno i tre cuccioli a far “suonare” la partitura composta dal Mapà per il grande concerto d’opera di Ferragosto?

Houdini

durata 53 minuti. Età visione: per tutti

Una fiaba animata che ci conduce con dolcezza e maestria nel mondo della magia. Houdini già da bambino è alle prese con i primi esperimenti di magia. La strada è lunga, all’inizio piena di spiacevoli imprevisti, ma il piccolo mago è destinato a diventare molto presto il più celebre illusionista della sua epoca