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L’ordine delle cose

Regia di Andrea Segre

Italia, Francia, Tunisia, 2017

durata 112 minuti

1) SINOSSI E NOTE DI REGIA

2) INTERVISTA

3) SITO E PAMPHLET

4) TRAILER

 

1. SINOSSI E NOTE DI REGIA

LA STORIA

Corrado è un alto funzionario del Ministero degli Interni italiano specializzato in missioni internazionali contro l’immigrazione irregolare. Il Governo italiano lo sceglie per affrontare una delle spine nel fianco delle frontiere europee: i viaggi illegali dalla Libia verso l’Italia. La missione di Corrado è molto complessa, la Libia post-Gheddafi è attraversata da profonde tensioni interne e mettere insieme la realtà libica con gli interessi italiani ed europei sembra impossibile. Corrado, insieme a colleghi italiani e francesi, si muove tra stanze del potere, porti e centri di detenzione per migranti. La sua tensione è alta, ma lo diventa ancor di più quando infrange una delle principali regole di autodifesa di chi lavora al contrasto dell’immigrazione, mai conoscere nessun migrante, considerarli solo numeri. Corrado, invece, incontra Swada, una donna somala che sta cercando di scappare dalla detenzione libica e di attraversare il mare per raggiungere il marito in Europa. Come tenere insieme la legge di Stato e l’istinto umano di aiutare qualcuno in difficoltà? Corrado prova a cercare una risposta nella sua vita privata, ma la sua crisi diventa sempre più intensa e si insinua pericolosa nell’ordine delle cose.

NOTE DI REGIA

2. INTERVISTA

WALTER BRANDANI: “Com’è nata l’idea di realizzare il film L’ordine delle cose?”

ANDREA SEGRE: Il film si inserisce all’interno di un percorso di ricerca e di narrazione che, ormai da una decina d’anni, cerca di capire quali sono le direzioni di sviluppo del sistema di protezione europeo e quali sono le conseguenze nella vita delle persone. Dopo aver raccontato, in diversi film e anche diversi articoli, le conseguenze sulla vita dei migranti, mi interessava capire le conseguenze sulla vita degli europei.

Allora ho utilizzato la figura dei funzionari ( che si occupano di costruire questo sistema ) per riuscire a parlare un po’ anche di come stiamo NOI, anche se questo NOI, così come il pronome LORO, sembra troppo generalizzante.

Sicuramente ci sono diverse definizioni sia per NOI che per LORO. C’è però certamente un NOI e un LORO causato dall’appartenere a chi ha il diritto di muoversi e a chi questo diritto non ce l’ha.

Il NOI che ha il diritto di muoversi è attraversato da un sentimento, che parrebbe maggioritario, di limitare il numero di LORO che arrivano.

Allora come si fa a limitare questo numero? Chi lo fa? E che cosa succede a chi lo fa? Come si sente? Qual è la sua vita?

Da queste domande è iniziato un lungo percorso di ricerca. Abbiamo incontrato alcuni dei funzionari che fanno questo lavoro e abbiamo costruito la figura di Corrado Rinaldi (il protagonista del film), che serve non solo a dare informazioni su quanto succede al confine con la Libia e a raccontare quali sono gli sviluppi di quella situazione.

Corrado Rinaldi serve anche a riflettere su quali sono le conseguenze di quella che sembrerebbe appunto la scelta maggioritaria ed inevitabile, cioè, la scelta di cercare di fermare e di diminuire il numero di LORO.

Ecco che quando quel numero diminuisce NOI ci sentiamo più felici. Ma quali sono le conseguenze di ciò?  Quali sono le ferite che questa scelta apre? Corrado racconta anche questo.

 

WB: Quando si parla di immigrazione se ne parla spesso in termini problematici e catastrofici, come causa del disordine. Eppure i flussi immigratori sono sempre esistiti. Sono quindi inevitabili? Sono cioè come la pioggia, i cui effetti dipendono anche dalla “qualità” del terreno?

AS: Questo è vero, ma quello che sta avvenendo oggi è qualcosa di più della inevitabile volontà delle persone di muoversi. Quello che sta succedendo in questa epoca storica è un aumento costante delle diseguaglianze economiche e di condizioni di vita, una crescita molto forte della comunicazione globale e della globalizzazione delle merci e una tendenza dei più ricchi a proteggersi.

All’interno di questo scenario non ci si aspettava che i più poveri si mettessero in cammino creando un movimento tellurico non irrilevante.

Il come rispondere a questo movimento ha a che fare sicuramente con la metafora dell’acqua ed è innegabile che le cause di questa tensione migratoria siano profondamente interconnesse con noi, perché siamo noi la parte che gestisce la globalizzazione delle merci, siamo noi la parte che produce spettacolo e spettacolarizzazione del nostro stile di vita, siamo noi che vogliamo la protezione.

Ecco quindi che non possiamo esimerci dall’avere un ruolo in questa storia.

I modi per affrontare l’immigrazione sono di fatto due.

Il primo modo è quello di cercare “cattivi” alleati, che possono fare i cattivi senza avere pudori democratici, e a loro si affida il lavoro sporco. Perché per fermare esseri umani, che non hanno nulla da perdere, c’è un unico modo: essere violenti. Ed è quello che l’Europa sta facendo, con una capacità di rompere il senso del pudore esagerata, perché ormai possediamo anche le informazioni di come agiscono i nostri “cattivi” alleati, ma il fatto che agiscano “di là” ci rasserena.

Il secondo modo è quello di reagire a queste cause di oggettiva ingiustizia e di trovare un modo affinché questa esigenza migratoria entri all’interno di un flusso di movimento regolare e controllato, perché l’individuo si muova, secondo una norma, in un percorso documentabile.

Invece oggi nessuno ha la possibilità di andare in un consolato e dire: “io vorrei andare in Germania perché c’è mio fratello” o “io voglio trovare lavoro in Europa, aiutatemi a capire dove posso trovarlo”. Nessuno ha la possibilità di avere un visto per partire regolarmente, cosa che consentirebbe di sapere dov’è e cosa fa.

L’angoscia legata agli arrivi delle persone in barcone è una angoscia che io capisco. Ma non voglio pensare a quelle persone come povere vittime che hanno bisogno di aiuto.

Voglio pensare a loro, come a persone che non devono viaggiare in quel modo perché, così facendo, prima di tutto mettono a rischiano loro vita, secondo pagano e finanziano organizzazioni criminali molto pericolose e, terzo, ci mettono nella condizione di essere o angosciati (e quindi mossi verso pulsioni xenofobe ) o spinti a istinti umanitari.

Istinti Umanitari che, negli ultimi tre anni, hanno obbligato centinaia di uomini e donne a fare domanda d’asilo, quando volevano semplicemente cercare lavoro, e a bloccarsi in luoghi dove non hanno nessuna intenzione di stare.

Questo è stato un grave errore, sicuramente molto meno grave di chi ordina blocchi stradali o di chi li vorrebbe eliminare, perché è un errore mosso da un sentimento di bontà, ma la bontà in questa storia deve fare un passo indietro.

Credo che invece sia importante accorgersi che tutto ciò è conseguenza di un sistema molto chiaro, di un potere che vuole proteggere il proprio privilegio, che è poi la causa delle disuguaglianze e delle tensioni immigratorie.

 

WB: Ho trovato un forte legame tra il suo film e il film L’intrusa. In entrambi i protagonisti sono in dubbio se mantenere l’ordine delle cose o cambiarle, e in ambedue i film mi sembra che allo spettatore venga posta la domanda: “TU AL POSTO DEL PROTAGONISTA COME AVRESTI AGITO?” Può, secondo lei, il cinema favorire una riflessione per meglio definire i problemi della nostra società?

AS: Nei due film la struttura narrativa e il rapporto emotivo con lo spettatore è simile, ma quello che io vorrei è che le persone si chiedessero non solo che cosa io avrei fatto ma anche che cosa io sto già facendo?

Cioè se io non sto facendo nulla di esplicitamente contrario all’ordine che Corrado (il protagonista del film ) applica, io sono correo di Corrado in quella storia, perché Corrado non è un singolo individuo che agisce per interesse privato, è un funzionario di polizia che sta applicando un ordine.

Un ordine che corrisponde ad una scelta politica che, se noi non contestiamo o non smontiamo chiaramente, fa di noi i datori di lavoro di Corrado.

L’intrusa, che è un bellissimo film, è un film sociale. L’ordine delle cose è un film politico.

L’intrusa si occupa della scelta individuale di una donna che ha un peso civico e sociale: scegliere di far stare l’intrusa ha un peso nella comunità. L’ordine delle cose è un film politico, nel senso che decidere che cosa avrei fatto non dipende solo dalla mia scelta ma dipende anche dall’ordine che è sopra.

Se si generasse davvero una pressione di opinione in grado di affermare che questa cosa non la vogliamo per tre motivi

– perché non funziona e perché è una cosa che reitera costantemente  un meccanismo molto costoso e non efficiente;

– perché genera violenza e perché  ha bisogno della violenza di forze di polizia non democratiche per fermare corpi inermi;

– perché non affronta la causa  rispetto alla quale noi siamo corresponsabili

 

Ecco se riuscissimo a generare un movimento di opinione partendo da questi tre punti,  si creerebbe anche una spinta per cambiare L’ORDINE DELLE COSE.

3 SITO E PAMPHLET

Qui trovate l’edizione integrale del pamphlet “Per cambiare l’ordine delle cose”, ma vi chiediamo di leggerlo solo dopo aver visto il film. Leggerlo prima della visione del film rischia di non renderne chiara la sua funzione.

SCARICA IL PAMPHLET 

4. TRAILER E VIDEO

 

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IL CLIENTE

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Regia di Asghar Farhadi. Genere Drammatico – Iran, Francia, 2016, durata 124 minuti Consigli per la visionei: +13

INDICE: 1. Trama; 2. Recensione; 3. Video

TRAMA

Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti), sono una giovane coppia di attori costretta a lasciare la propria casa al centro di Teheran a causa di urgenti lavori di ristrutturazione. Un amico (Babak Karimi) si offre di affittargli un suo appartamento, tralasciando però dei particolari “importanti” sulla precedente inquilina che sarà causa di un incidente che segnerà le loro vite

 

RECENSIONE ecodelcinema.com

“Il cliente” di Asghar Farhadi racconta di una giovane coppia di attori che si trovano a dover cercare improvvisamente un posto dove abitare poiché il palazzo dove vivono, al centro di Teheran, è pericolante. Un amico trova loro un alloggio temporaneo, omettendo di dire loro che la casa ha un ‘passato’, purtroppo foriero di disavventure, che porteranno la coppia a rivalutare persino il proprio rapporto.

Premiato a Cannes 2016 per la migliore sceneggiatura, frutto dell’estro dello stesso regista, il film è il racconto asciutto, a tratti quasi teatrale, di come gli ‘incidenti’ della vita possano mostrare lati di ciascuno che rimangono sopiti, pronti però a destarsi quando sollecitati da qualcosa di imprevisto che irrompe nelle nostre giornate.

Il cliente: un notevole script elevato ad arte da regia e cast
“Il cliente” mostra chiaramente come la sofferenza possa cambiare anche gli animi miti, portandoli a meditare persino vendetta. Il protagonista Emad è interpretato con maestria da Shahab Hosseini, giustamente premiato a Cannes come miglior interprete maschile. L’attore porta sullo schermo la muta trasformazione del suo personaggio, le sue multisfaccettature emotive, il suo pudore, un sentimento quasi in disuso in un mondo occidentale dove l’apparire sta al centro di ogni attività relazionale.

Il disastroso ‘incidente’ che investe la coppia quasi tramortisce l’uomo, che si trova annichilito anche nei confronti della moglie Rana, egregiamente interpretata da Taraneh Alidoosti, che vive invece la propria difficoltà in modo intimo e personale, desiderosa soprattutto di andare avanti, ma non per questo non bisognosa di compagnia e conforto.

Gli eventi imprevisti alterano le dinamiche relazionali fra tutti i personaggi, fino ad un drammatico epilogo che vedrà la coppia costretta ad una resa dei conti inevitabile.

Il cliente: l’occasione per Farhadi di offrire uno sguardo di un Iran che cambia
Il regista iraniano premio Oscar come Miglior Film Straniero per “Una separazione”, sceglie anche di proporre la finzione nella finzione, mostrando il lavoro della coppia sulle tavole teatrali: quel “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, la cui critica sociale ben può essere applicata all’Iran di oggi, richiamato nel titolo originale, “The Salesman”. Tante quindi le chiavi di lettura di un film che si presenta come un thriller, con momenti di grande tensione, per lasciare poi spazio ad un’analisi intima dei personaggi che popolano la storia.

Farhadi realizza un film avvincente, intenso, coinvolgente, specchio di un paese che cambia, lontano nei modi dal nostro mondo, ma più che mai specchio di quello che l’occidente era, prima dei terremoti sociali che hanno annientato privacy e relazioni umane non virtuali.

Il cliente: le difficoltà possono esasperare i rapporti e far emergere reazioni impreviste
Ne “Il cliente” il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice, portando ciascuno di noi a chiedersi fino a quanto le circostanze ci possono spingere? Da vittime riusciremmo a lasciar emergere la nostra umanità al di sopra del dolore?

Basterebbe l’inquietudine che instilla nello spettatore a fare del racconto di Farhadi un film di alto livello, ma le sue qualità sono tante: la valenza dei contenuti è ben supportata da una regia puntuale che indaga le situazioni e i personaggi, lasciando che pian piano la matassa si dipani, in un crescendo emozionale.

“Il cliente” di Asghar Farhadi, che ha anche ricevuto la ‘designazione di interesse’ da parte del sindacato critici cinematografici italiani, è un film che consigliamo a tutti coloro che non hanno paura di storie forti.

Maria Grazia Bosu

VIDEO

TRAILER

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IL CLIENTE – Il nuovo appartamento

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IL CLIENTE – L’inquilina precedente
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IL CLIENTE – Dialogo tra i coniugi

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IL CLIENTE – Nella stanza

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IL CLIENTE – In teatro

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DOPO L’AMORE

REGIA di Joachim Lafosse.  Titolo originale L’économie du couple.

Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 100 min. – Francia, Belgio 2016.

 

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INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. VIDEO

1) TRAMA

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile

2) RECENSIONI

Un dramma borghese intimo e vibrante in cui ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti di Marzia Gandolfi  mynovie.it

Per Marie e Boris è l’ora dei conti. In tutti i sensi. Dopo quindici anni di matrimonio e due bambine, decidono di mettere fine alla loro relazione, consumata da incomprensioni e recriminazioni. Marie non sopporta i comportamenti infantili del marito, Boris non perdona alla moglie di averlo lasciato. In attesa del divorzio e costretti alla coabitazione, Boris è disoccupato e non può permettersi un altro alloggio, lei detta le regole, lui le contraddice. L’irritazione è palpabile, la sfiducia pure. Arroccati sulle rispettive posizioni sembrano aver dimenticato il loro amore, il cui frutto è al centro della loro attenzione. Genitori di due gemelle che stemperano con intervalli ludici le tensioni, Marie e Boris condividono una proprietà su cui non riescono proprio a mettersi d’accordo. A chi appartiene la casa? A Marie che l’ha comprata o a Boris che l’ha rinnovata raddoppiandone il valore? La disputa è incessante, il dissidio incolmabile. Ma è fuori da quella ‘loro’ casa che Marie e Boris troveranno la risposta. Una possibile.
Troppo spesso in una coppia il denaro diventa il mezzo migliore per esercitare potere sull’altro, per fargli pagare letteralmente il fallimento della relazione. Dopo l’amore abita lo scacco e presenta la fattura del disamore di una coppia che non sa più come accordare i propri sentimenti, regolare i propri conti, le responsabilità genitoriali, le tenerezze intermittenti, i rancori costanti. Joachim Lafosse, che ha fatto delle relazioni umane il suo terreno di elezione (Proprietà privata, Les Chevaliers blancs), dirige un dramma borghese in più atti intimo e vibrante. Ogni piano risplende di un’intensità eccezionale, approssimandosi ai suoi personaggi dissonanti.
Interpretato da Bérénice Béjo e Cédric Kahn, che superano i confini della rappresentazione, Dopo l’amore mette in scena con rara proprietà, eludendo cliché e psicologismi, i dubbi, le paure e la vitalità, malgrado tutto, di una coppia arrivata a fine corsa. Abile nell’individuare ed emergere i movimenti sottili che corrompono i sentimenti, l’autore belga chiude i suoi protagonisti in un interno e fa di quel domicilio coniugale qualcosa su cui litigare ma non la ragione del litigio, che è sempre altrove. La casa è il terreno su cui si cristallizza il loro rancore, su cui prendono posizione, ciascuno la sua, su cui pesano i rispettivi orgogli. Ma quel domicilio è soprattutto il valore aggiunto in termini d’amore che ciascuno apporta in una relazione. Boris reclama per sé la metà di quella casa certo, ma vuole soprattutto che Marie riconosca che lui è stato lì, che l’ha abitata, l’ha ristrutturata e ne ha aumentato il valore. Lui vuole che lei riconosca che è stato presente, utile, che ha contribuito con la sua ‘competenza’, tecnica e umana, alla costruzione della loro famiglia.
Per Lafosse l’economia di coppia, quella del titolo francese (L’économie du couple), è anche questo, piccole impronte, pennellate, tracce mai sentimentali. È l’amore e non si può ridurre alla metà del valore di una casa. L’amore di cui Marie e Boris si sono amati. Lo attesta ogni sguardo, lo dimostra ogni rimprovero. Marie e Boris sono stati felici e da quella loro felicità sono nate due gemelle, duo inseparabile e opposto ai genitori, isole provvisorie in cui abbandonarsi e abbandonare per qualche minuto la lotta. Le figlie li sfidano disarmanti, li catturano nelle loro coreografie del cuore, li confondono il tempo di una canzone (“Bella” di Maître Gims). Prima che ciascuno ritorni al suo esilio, al frigo diviso in due, a una coabitazione forzata regolata al millimetro e per questo quasi comica. È la loro antica passione a nutrire il rancore di oggi, è la loro economia che adesso si disputano. Ciascuno reclama la sua parte, prigionieri di uno spazio da cui non possono (e non vogliono) uscire. La macchina da presa li segue, li sfiora rimarcando l’erranza disordinata, ripetitiva, ossessionata che li trasloca attraverso l’appartamento, silenziosi, incomprensibili l’uno all’altra. Marie e Boris hanno perso il controllo del quotidiano, sono apparizioni indesiderabili nella cena o negli spazi dell’altro che sembrano godere dell’irritazione che suscita la loro presenza. Ma alla circolazione esasperata dei corpi e dei sentimenti, Lafosse guadagna questa volta la via d’uscita, l’accidente che determinerà una presa di coscienza provvidenziale per Marie e Boris, aggrappati alla routine del loro odio e incapaci di guardare il mondo fuori.
Dopo l’amore termina con un compromesso, un finale aperto e all’aperto, che fa respirare ambiente e personaggi, figurando come eccezione nell’opera al nero dell’autore. Una filmografia che fa vedere senza mostrare. Un’economia straordinaria, pertinente all’amore e al cinema. A una storia semplice così complicata da vivere.

 

L’économie du couple (Dopo l’amore da cinematographe.it Di Virginia Campione

L’économie du couple (Dopo l’amore) è un film di Joachim Lafosse presentato nella sezione Festa Mobile della 34esima edizione del Torino Film Festival dopo il passaggio a Cannes 2016 nella sezione parallela Quinzaine des Réalisateurs. La pellicola ha per protagonisti Marie (Bérénice Bejo) e Boris (l’attore/regista Chédrik Khan), due coniugi inquadrati nel momento più doloroso di una relazione sentimentale: la fine.

Marie e Boris si trovano ad affrontare un’ulteriore imbarazzante difficoltà: vivono ancora sotto lo stesso tetto in attesa di stabilire quanto e cosa spetti a chi con l’ulteriore responsabilità di dover far vivere tale limbo alle loro gemelline. Marie è quella che detiene il maggiore potere economico, avendo potuto la coppia comprare la casa grazie ai soldi della sua famiglia, mentre per Boris finire questo matrimonio senza una cospicua buona uscita significherebbe la rovina, anche a causa dei debiti contratti, che lo portano ad essere periodicamente minacciato dai suoi creditori.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): un “noi” che pretende invano di tornare ad essere l’ “io” di un tempo

 

Nessuna parola o riferimento ai motivi della separazione e dei problemi dei due quasi ex coniugi, Lafosse sceglie di raccontare la più banale delle situazioni sentimentali dal punto di vista toccante e meno esplorato delle conseguenze economiche della fine di una relazione. Un’economia che non si ferma all’aspetto monetario, declinandosi nell’accezione di quel delicato insieme di significati condivisi che non permette di dividersi tornando ad essere quelli di prima, ormai irreversibilmente cambiati dal valore aggiunto e non semplicemente sottraibile di un amore che ha costruito case e figli.

Dopo l’amore si pone così come un ritratto struggente di una famiglia ormai irrimediabilmente divisa ma che ha ancora bisogno di elaborare il lutto edulcorandolo con una vicinanza forzata ma forse non così necessaria come entrambi i coniugi vogliono far credere a se stessi e all’altro.

Marie e Boris affrontano allora tutte quelle piccole grandi insofferenze quotidiane che caratterizzano la fine dell’amore, esasperandole con la pretesa impossibile di salvare spazi e diritti delimitati all’interno della stessa casa, e finendo inevitabilmente per coinvolgere le bambine, confuse e innervosite da una mamma ed un papà che non viaggiano più sulla stessa lunghezza d’onda ma le contendono per prevalere l’uno sull’altra.

 

Quando la tensione emotiva si fa troppo alta, Lafosse permette ai suoi personaggi perfettamente tratteggiati di lasciarsi andare a sfoghi catartici che coinvolgono anche lo spettatore (in primis il toccante ballo sulle notte di “Bella”), partecipe passivo di un dramma che viene mostrato con un’onestà disarmante e dolorosa, riuscendo tuttavia a far sorridere amaramente per quanto si diventa buffi quando si è in realtà disperati.

Dopo l’amore (L’économie du Couple): fare i conti con un amore finito

 

Dopo l’amore è la dolorosa esplicitazione di come, soprattutto quando una coppia diviene famiglia, uno più uno non faccia più due ma si trasformi in una nuova entità la somma dei cui elementi non può più dare origine agli stessi, se divisa. Perché la coppia crea un nuovo microcosmo fatto di progettualità e beni condivisi, un universo non più scomponibile in modo razionale ma soprattutto impossibile da traslare altrove, fra le pagine di un futuro che – tuttavia – ogni esistenza infelice merita di poter cambiare.

3) VIDEO

 

 

 

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Julietta

Risultati immagini per julieta filmUn film di Pedro Almodóvar – Titolo originale Silencio –

Drammatico, Ratings: Kids+13 – durata 99 min. – Spagna 2016.

INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. TRAILER

 

 

 

1) TRAMA
La protagonista del film è Julieta, una professoressa di mezza età che, dopo aver compiuto cinquantacinque anni, decide di scrivere una confessione autobiografica dei suoi ultimi trent’anni di vita. Un compito oneroso, ma con un nobile fine: quello di recapitare questo testo a sua figlia Antia, scappata quando aveva diciotto anni dal nido materno, e farle così conoscere la verità su sua madre, raccontarle tutto quello che – in 12 anni di silenzio – non è stato possibile condividere.

 

2) RECENSIONI

JULIETA DI PEDRO ALMODÓVAR

Pedro è tornato. Tornato al Suo cinema, alle donne, al dramma, ai sentimenti, al destino, alla colpa, ai figli, alle madri. Tornato a Tutto su mia madre, a Volver, a un mondo dove il décor è il racconto e il racconto è l’anima della messa in scena.
Tutto è misura in Julieta, non meccanicità ma misura. Il dramma si costruisce, si articola nel tempo, nel suo racconto in flashback, nelle tappe che lo fanno avanzare mentre emerge dal passato fino a oggi attraverso gli ambienti, gli abiti, gli oggetti. Senza mai spingersi un millimetro più in là del punto in cui fermarsi è la scelta giusta. Perfino al di qua della lacrima, dell’incontro, della conciliazione, del confronto.

Un dramma che si fonda nel silenzio, nel rifiuto della parola, non può che trovare compimento nel suo stesso dire, senza bisogno di altro.

La vita di Julieta inizia su un treno proprio nel momento in cui rifiuta di parlare a un uomo che sembra molestarla. Quell’uomo, dopo pochi istanti, si suicida segnando per sempre con il marchio della colpa l’esistenza della donna. Quella stessa notte, su quello stesso treno, Julieta conosce però anche l’uomo della sua vita e concepisce sua figlia. Che il destino le farà perdere nuovamente, entrambi, nel silenzio di un confronto rifuggito.

Quando Julieta individua come unica possibilità di uscire dalla colpa il ripercorrere la propria esistenza, capisce che l’unico modo è cercare, finalmente, di raccontare la sua storia e i segreti custoditi dal silenzio.

Abbandona la casa bianca in cui i ricordi sono stati rimossi, sostituiti dalla fredda pulizia della somma di tutti colori e torna alla complessità della carta da parati. Girali e arabeschi che invadono lo spazio e si alternano a colori densi pieni dei segni del tempo e del peso della memoria. Questo è lo sfondo che Julieta sceglie per riprendere la sua vita in mano scrivendo seduta all’unico mobile che occupa l’ultima delle case della sua vita. Quella scelta per raccontare, replica vuota e invecchiata dell’appartamento in cui insieme le due cercavano di sopravvivere alla tragedia.

Per la prima volta, come sanno fare le donne del cinema di Almodóvar, come Manuela, come Raimunda, come tante grandi donne del cinema classico, Julieta non subisce più il destino ma fa la sua scelta: rinuncia alla possibilità di una nuova vita fondata sulla rimozione, per ripercorrere e narrare il passato. Senza soluzione. Perché la soluzione è il racconto stesso. Chiara Borroni CINEFORUM.IT

 


Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda

Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l’uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L’incontro casuale con Beatriz, amica d’infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c’è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l’illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l’autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l’afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un’ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell’Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L’una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l’altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e ‘giudicata’ tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall’uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all’avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all’eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno ‘delitto’ e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l’amore per scongiurare la morte, da Matador l’autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l’impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della ‘prima moglie’ che piomba sul dramma l’ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.

Marzia Gandolfi MYMOVIE

 

 

3)VIDEO

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La ragazza senza nome

La ragazza senza nome

Un film di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne.

Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 113 min. – Belgio 2016

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INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. VIDEO

 

1.TRAMA

Jenny Davin è una giovane dottoressa molto stimata al punto che un importante ospedale ha deciso di offrirle un incarico di rilievo. Intanto conduce il suo ambulatorio di medico condotto dove va a fare pratica Julien, uno studente in medicina. Una sera, un’ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e Jenny decide di non aprire. Il giorno dopo la polizia chiede di vedere la registrazione del video di sorveglianza dello studio perché una giovane donna è stata trovata morta nelle vicinanze. Si tratta di colei a cui Jenny non ha aperto la porta. Sul corpo non sono stati trovati documenti. A questo punto, tormentata dai sensi di colpa, Jenny decide di scoprire l’identità della ragazza, per poterle dare almeno una degna sepoltura.

 

2.RECENSIONI

La ragazza senza nome prova a scuotere le coscienze addormentate

Goffredo Fofi INTERNAZIONALE.IT

L’ultimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, i grandi registi belgi che, raccontando personaggi e situazioni del loro paese, parlano in realtà dell’Europa tutta così sorda e ottusa, si chiama La ragazza senza nome. Narra i sensi di colpa di una giovane medico, Jenny (Adèle Haenel, che condivide con i registi il peso del film), per non aver aperto fuori orario la porta del suo studio a una ragazza africana che pochi minuti dopo morirà ammazzata da qualcuno o per incidente. I riferimenti all’indifferenza che esiste in Europa sono evidenti, ma non insistiti. La metafora rimane nelle pieghe del racconto così lo spettatore può arrivarci da solo e a partire da sé a collegare il particolare e il generale. Anche perché l’Europa di sensi di colpa sembra averne ben pochi, e ciascuno, individuo e paese, gode o soffre del suo “particulare”, e sceglie soltanto tra l’indifferenza, il rinvio, l’ostilità.

Con ostinata fedeltà a una loro idea di cinema e di morale, i Dardenne raccontano personaggi che ci sembrano veri, li seguono e li scrutano e ci spingono a farlo anche a noi, in una rete di piccoli fatti che diventano significativi, depurando la narrazione dalle sue tentazioni naturaliste (l’ambizione a mostrare “la vita com’è”) e neorealiste (il “pedinamento del personaggio”). Scelgono da sempre, per aderire alla loro visione delle cose, una narrazione di tipo documentario, la macchina da presa che sta dietro all’attore e che lo colloca in situazione, e mostrano il contesto a partire da singoli incontri, da singole azioni, in ambienti comuni, banali, chiaramente delimitati. Con uno scopo bensì intimo, etico: farci riflettere sulle nostre, di colpe e di silenzi. Dall’individuo-attore all’individuo-spettatore, avendo per obiettivo i nostri sentimenti, la nostra identificazione con la questione e non solo con il personaggio.

Il film dei Dardenne era a Cannes, dove ha vinto quello di Loach, e si tratta di due film di pari interesse ma che seguono strade molto diverse. Nessuno dei due, va detto, è un capolavoro, ma entrambe sono opere degnissime. Loach sceglie un linguaggio mainstream, “da film” ben fatto, “normale” (che goda di una sceneggiatura studiatissima e di una regia perfettamente professionale), sceglie la via della denuncia tramite una comunicazione oggettiva. Sceglie la via del melodramma sociale che narra storie individuali come storie di ceti e di classi. Il suo scopo è di denunciare e di convincere, sperando in tal modo di contribuire a cambiare le cose, stimolare reazioni, propugnare giustizia. Il coinvolgimento deve crescere con l’indignazione. Conta il sociale, “la cosa pubblica”, il reale economico-sociale.

Se il limite del film di Loach è l’oratoria, quello della pellicola dei Dardenne è la sua struttura da poliziesco, non nell’impostazione ma nella forma, cioè un’indagine che lo fa somigliare a molte delle inchieste che bande di scrittori furbetti di tutto il mondo ci propongono quotidianamente sui tavoli delle librerie, affascinati dalla morte e dal crimine, e per niente dall’amor di giustizia. La ragazza senza nome non è il loro film più puro per questo, anche se è uno dei loro film, per il suo tema, tra i più ambiziosi. È troppo un “giallo”, ne ha troppo la struttura e i risvolti, i condizionamenti. I Dardenne hanno anche loro timore di non trovare spettatori e anche loro, come Loach, temono di non contare se non hanno un pubblico abbastanza vasto a cui parlare.

Anche se ci sono troppi risvolti e astuzie nella loro narrazione, nel loro giallo morale, il loro progetto resta tuttavia altissimo e dei più seri che sia possibile trovare nel cinema del nostro tempo. La loro scelta è di fondo, ed è chiara, vogliono raccontare esami di coscienza individuali perché credono che è solo a partire da lì che si possano affrontare quelli collettivi, che solo da lì è possibile ripartire, nella speranza che lo spettatore metta in discussione le proprie convinzioni, non sentendosi dalla parte del giusto e degli innocenti, delle vittime, ma vedendosi piuttosto come complice e come colpevole anche delle ingiustizie sociali che magari lo indignano.

Raccontando esami di coscienza individuali si possono affrontare quelli collettivi

Il grande tema dei film dei Dardenne e di questo in particolare è il tema della colpa. Del sentirsi colpevoli, come Jenny, per inadempienza o trascuratezza più ancora che per indifferenza. Si contribuisce anche in questo modo, indiretto, alla morte di altri. I due autori esigono che noi spettatori si prenda atto di ciò, ci si renda conto delle nostre responsabilità. Individuali. Dalla mancata assunzione di responsabilità, dall’indifferenza e trascuratezza nasce la corresponsabilità nei confronti del male che altri subiscono. Ed è da questo che può nascere, ma solo nei più sensibili (sempre più rari) il sentimento della colpa, la consapevolezza che anche noi c’entriamo con quelle morti. Con spiccata visione religiosa, che potremmo anzi dire cattolica, al tema della colpa – del superamento della colpa – si unisce quello della confessione, ma se il rischio del cattolicesimo è stato ed è quello di scaricare le coscienze (di liberare dalle responsabilità) con l’abuso rituale della confessione, nei laici Dardenne la confessione è un’assunzione pubblica di responsabilità. È qui la confessione alla polizia, alla giustizia, alla società. E alla confessione deve seguire l’espiazione, il cambiamento, altrimenti non vale.

Quel che i Dardenne chiedono è il riconoscimento pubblico delle nostre colpe, la nostra assunzione di responsabilità, la nostra trasformazione. Si rivolgono all’individuo per rivolgersi all’Europa, a un’Europa fatta di individui. Lo fanno con il mezzo del cinema, convinti che questa, come le altre arti, non serva soltanto a distrarci e non a metterci in crisi, invece che ad affrontare dilemmi eterni ma anche pressantemente odierni.

 

“La ragazza senza nome” dei fratelli Dardenne racconta il senso di colpa e le emozioni
L’Huffington Post | Di Giuseppe Fantasia

“Un bravo medico deve tenere da parte le emozioni, altrimenti rischia di farsi coinvolgere troppo e di non riuscire nel suo lavoro”. Una frase che suona come un rimprovero quella della dottoressa Jenny Davin (è Adèle Haenel) al suo stagista Julian (Olivier Bonnaud), che non è riuscito a rimanere inflessibile davanti ad un attacco epilettico di un giovanissimo paziente.

La dice all’inizio de “La ragazza senza nome” (La fille inconnue), il nuovo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, in uscita nelle sale italiane domani per la Bim.

Qualcuno suona alla porta dello studio medico, il ragazzo vorrebbe aprila, “ma non si può, perché siamo già oltre un’ora l’orario di chiusura”, gli dirà impassibile la dottoressa, pentendosi amaramente di quella risposta il giorno successivo, quando scoprirà che a suonare era stata una ragazza di colore, disperatamente alla ricerca di aiuto prima di essere ritrovata cadavere.

Da quel momento, la vita di Jenny – e non solo la sua – non sarà più la stessa e dilaniata dal senso di colpa, cercherà in tutti i modi di sapere qualcosa in più su quella ragazza senza nome, per non farla scomparire per sempre come se non fosse mai vissuta.

“Volevamo raccontare la storia di chi si sente responsabile, la storia di una donna e del suo senso di colpa che le permette di arrivare agli altri”, spiegano all’HuffPost i fratelli Dardenne, in questi giorni a Roma per la promozione del film dopo la presentazione ufficiale all’ultimo Festival di Cannes.

“Il medico è il confessore dei propri pazienti, una sorta di prete che ascolta i problemi cercando di risolverli – aggiungono – Sin dall’inizio abbiamo deciso di scegliere una donna nelle vesti di un medico, perché riesce meglio a manifestare la temperatura di una società. Quando una donna come lei, poi, dice di no, l’effetto è potentissimo”.

fratelli dardenne

“Bisogna tenere a bada le proprie emozioni, questo è vero e vale anche nel nostro mestiere”, aggiungono i due registi che con i loro film ci presentano sempre personaggi al limite, alle prese con un quotidiano difficile da sopportare che non può non coinvolgere.

“La nostra regola è applicare entrambe le cose: restare a distanza, ma allo stesso tempo cercare sempre di creare una certa empatia con tutti i personaggi”.

Agli spettatori consigliano di fare la stessa cosa e anche in questo caso, le sensazioni che proveranno non saranno da meno. Guardando Jenny, evidenziata da continui primi piani, è come se vi facessero entrare nella sua testa e chiedervi se quella presa è una scelta sbagliata oppure no. La sua, diventerà così la vostra ossessione, perché fino alla fine anche voi vorrete sapere chi è quella donna, qual è il suo nome, che lavoro fa e perché quella sera stava correndo disperata alla ricerca di aiuto.

Costruito come un giallo, il film è ambientato nella periferia di Liegi, grigia e scura come l’animo di tutti i personaggi dei Dardenne (tra gli altri, ci sono anche i loro due attori feticcio, Jérémie Renier e Olivier Gourmet), lo stesso posto dove girano tutti i loro film dal 1996, anno in cui uscì il loro indimenticabile “La promesse”.

Al centro della storia ci sono poi anche le differenze sociali, la disoccupazione, l’emarginazione e l’immigrazione. Quest’ultima “è un problema che riguarda tutti noi e la soluzione allo stesso non può che essere europea”, precisano i Dardenne che in occasione dell’uscita del film, assieme alla Croce Rossa Italiana e all’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, si uniscono per sensibilizzare il pubblico sul tema delle vittime senza volto.
“Ogni Paese deve impegnarsi ad accogliere una parte di immigrati, ma la solidarietà e la cooperazione tra le Nazioni è fondamentale”.

I Dardenne e il loro cinema de reale sono tornati al meglio, dimostrano ancora una volta di essere in splendida forma e noi gliene siamo grati.

3. VIDEO

 

 

 

 

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Al di là delle montagne

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Al di là delle montagne

Un film di Jia Zhang-Ke.  Drammatico, durata 131 min. –

Cina, Francia, Giappone 2015

INDICE

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONI
  3. VIDEO

1.SINOSSI

Cina, 1999. Amici d’infanzia Liangzi e Zhang sono entrambi innamorati di Tao, la bella della città. Tao alla fine decide di sposare il ricco Zhang. Hanno presto un figlio di nome Dollar. Dalla Cina all’Australia, le vite, gli amori, le speranze e le disillusioni di una famiglia su più di due generazioni in una società in continua evoluzione

2.RECENSIONI

RECENSIONE 1

“Go West!” cantano i Pet Shop Boys mentre un gruppo di giovani danza festeggiando il capodanno. È la fine del 1999 e l’inizio del 2000, la Cina non è ancora partita per l’ovest, ma ha già pronte le valigie.
Inizia così Al di là delle montagne. Con un balletto pop, i fuochi d’artificio e il formato 4:3 a inquadrare l’azione. Come A Touch of Sin anche quest’ultimo lavoro di Jia Zangh-ke è diviso in episodi, ma non episodi slegati l’uno dall’altro, bensì tre momenti nella vita degli stessi personaggi ambientati in tre tempi diversi: il 2000, appunto, il 2014 e il 2025.
Il tempo e lo spazio come assi cartesiani capitali, quindi. Le due direttrici primigenie che corrono perpendicolari l’una all’altra e all’interno delle quali si tracciano le linee dell’esistenza e si disegnano le vite degli individui. Jia sceglie questi due dispositivi essenziali per costruire un film che è giocato sin dal principio sulla messa in evidenza della sparizione, della transitorietà e della decadenza. Un film di dissolvenze all’interno del quale lentamente, inquadratura dopo inquadratura, svaniscono i corpi, i volti, i ricordi e i luoghi che ne formano il palcoscenico.
Ma non è solo il tempo che passa fra un episodio e l’altro a decretare questa frattura fra presente e futuro, perché Jia – regista dalla rara sensibilità e dallo smisurato talento visivo – ci dice dell’insostenibile mutabilità dell’esistenza anche attraverso la semplicità di un’inquadratura o addirittura con il solo uso del fuori campo. E ci avverte del fatto che a volte il tempo ci fagocita senza che riusciamo nemmeno a vederlo, proprio come non si possono vedere i fuochi d’artificio brillare in un cielo illuminato a giorno. Oppure, tutto al contrario, ci dice di come il tempo ci prende e ci porta via senza che si possa fare nulla per impedirlo, come un aereo che cade e si schianta al suolo, o come una bomba che ci esplode a pochi metri dagli occhi.
Ed è in fondo un film di esplosioni Al di là delle montagne. A partire dal formato (che dai 4:3 iniziali deflagra fino a occupare lo schermo nella sua interezza), ma che esplode letteralmente di immagini. Immagini evocative, immagini dialettiche, immagini che non stanno mai ferme (anche se ferma, immobile, è la macchina che inquadra), che portano verso universi sensoriali e orizzonti visivi vertiginosi, e che sono fatte di colori, forme e strati materiali dai quali non è possibile liberarsi la mente. Perché come tutte le esplosioni, lasciano delle tracce profonde e inconfondibili.
Ma è anche un film che esplode di passione e che pur affidandosi alla metafora come veicolo alla rappresentazione, non rinuncia a una narrazione modulata sullo schematismo del cinema di genere e, segnatamente (come in tanto altro cinema del regista cinese), del melodramma. Nei tre episodi, infatti, a condurre l’azione sono sempre i sentimenti forti e i legami più basilari ed essenziali. Il dramma familiare lungo venticinque anni che si racconta è tutto giocato sulle passioni interrotte. E il primo dei tre capitoli, la cui perfezione formale e il cui equilibrio estetico-narrativo basterebbero per farne un film a sé stante (e forse non è un caso che il regista metta, a chiusura di questa prima parte, un vero e proprio titolo di coda su fondo nero) descrive abilmente tutte le relazioni che si intrecceranno e addenseranno per il resto del film. A partire dal triangolo amoroso fra la giovane Tao e i suoi due pretendenti – il minatore Liangzi e il ricco Zhang – si dipana un’epopea familiare nella quale ogni tipo di rapporto finisce per essere frustrato. Non solo quello fra i tre protagonisti, che avrà fine quando Tao sceglierà Zhang, ma anche il conseguente matrimonio fra i due che si esaurirà in poco tempo. E ancora, il legame di entrambi con il figlio (Dollar, protagonista dell’ultimo episodio).
Un corollario di passioni troncate che sta lì a dirci che l’impossibilità di coltivare i legami familiari è sinonimo dell’impossibilità di tramandare una memoria. E andare a ovest partendo dalla Cina, significa appunto sgretolare e ridurre al grado zero tanto il senso della Storia, quanto quello della memoria. Memoria che, sia come bisogno intimo che come necessità collettiva, ci dice Jia, è allo stesso modo perduta. E non perché il regista indugi sull’aspetto romantico del passato o perché ritenga il futuro corrotto e pericoloso. Ma perché se il suo occhio endemico e pertinente riesce, come dicevamo in apertura, ad utilizzare lo spazio per parlare del tempo e viceversa, allora è vero che nella sua concezione del presente la Cina è una specie di antonomasia iperreale del mondo, una sua illustrazione esemplare. Un locus paradigmatico dove tutto succede più in fretta e i cambiamenti, per chi li sa cogliere, sono spaventosamente evidenti.
Ecco perché mostrare l’ascesa e la caduta della Cina compendiandole nello spazio temporale lungo una generazione, diventa un esercizio di lucida pertinenza oltre che di estrema violenza. L’universalità del finale del film in fondo è la testimonianza del fatto che la storia che nel film si racconta, appartiene a tutti noi e potrebbe essere raccontata in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Perché se è vero che Dollar dimentica il nome della madre oltre che la lingua (madre), è altrettanto vero che pure il mondo nel quale è cresciuto e nel quale è nato ha finito per scordarsi di lui. Al contrario di Tao, che diventata lo spettro di un mondo scomparso e ricoperto di neve, i suoi ricordi se li tiene ben stretti. Perché i ricordi sono tutto quello che ha. Lorenzo Rossi cineforum.it

RECENSIONE N2

 

La storia familiare narrata da “Mountains may depart” (questo il titolo originale, il cui senso, che sveleremo più avanti, si perde purtroppo con l’insignificante titolo italiano) riassume in modo cristallino la poetica del regista e delinea in modo maturo i temi di fondo della sua opera. E’ il film di Jia Zhang-Ke sinora più accessibile a uno spettatore occidentale: azzardiamo destinato a diventare il suo maggior successo di pubblico in Europa. Le sfumature melò rendono l’immedesimazione empatica decisamente più facile rispetto al passato, a quei titoli (“Platform”, 2000; “The world”, 2004; “Still life”, leone d’oro Venezia 2006) che hanno permesso di celebrare Jia quale uno dei più importanti cineasti contemporanei – oltre che il regista cinese più rappresentativo della sua generazione, la “sesta”.
Il film, che copre un arco temporale di un quarto di secolo, è – come spesso in Jia – suddiviso in parti distinte. Al centro vi è la vicenda di Tao (interpretata da Zhao Tao, attrice feticcio e moglie del regista) e di suo figlio Dollar. Il primo episodio si svolge fra il 1999 e il 2000 a Fenyang (città natale del regista), e vede Tao contesa da due amici, uno dei quali (il più ricco) lei sceglierà come marito. L’episodio si chiude con la nascita del figlio, cui per volontà del padre verrà dato il nome di Dollar (in una delle più evidenti concessioni didascaliche del film). Nel secondo episodio, ambientato nel 2014, madre e figlio si passano il testimone. Il terzo episodio si svolge nel futuro, in un 2025 non avveniristico, in cui Dollar vive in Australia con il padre, col quale ha seri problemi di comunicazione (ha dimenticato il cinese, mentre il padre non ha mai imparato l’inglese). Il passato è confuso e lontano come i ricordi della madre rimasta a Fenyang, il presente è una terra straniera, il futuro un non-luogo privo di significato e colmo d’angosce.
Metamorfosi

I tre episodi sono diversi nello stile come nei formati: si passa dai 4:3 del primo al formato panoramico dell’episodio ambientato nel 2025.
Anche se la contemplatività e l’uso del long take sono una costante, lo stile di Jia è da sempre in metamorfosi. Alcuni passaggi dei primi film (tutta la prima parte di “Platform”) si ispiravano, ad esempio, anche più che al cinema cinese della quinta generazione, allo stile tipico di Hou Hsiao Hsien. Nella fase centrale della sua filmografia Jia si è poi accostato al documentario (da cui, a differenza di altri, non proviene), sia realizzando documentari veri e propri (“Dong”, “Useless”), sia pellicole ibride (“24 city”), sia film di fiction i cui stilemi si avvicinano alla presa diretta (contaminazioni quasi sperimentali fra fiction e documentario: “The world” e “Still life”). Incessante innovatore, la sua penultima opera (“Il tocco del peccato”), pur mantenendo spiccati connotati realistici,presentava una dose di violenza del tutto inedita nel suo cinema.
“Mountains May Depart” riparte dalle origini: il primo episodio è girato con modalità che ricordano le sue prime pellicole, con uso dominante della frontalità e della macchina fissa. Il secondo, e soprattutto il terzo episodio, possiedono stili diversi, in cui la macchina da presa diventa man mano più fluida: una delle sequenze più belle è quella in cui Dollar è abbracciato alla sua insegnante di cinese, e la macchina fluttua sui loro corpi, decentrando ai margini dell’inquadratura il volto di Dollar, spesso tagliato, a sottolineare la crisi interiore del ragazzo.
Naturalmente vi sono costanti nello stile di Jia, oltre la predilezione per il long take. Il pianosequenza è per lo più rinnegato in favore di un uso controllato del montaggio, che finisce col render significativo ogni stacco: così, l’uso dilatato del campo/controcampo (in genere in unico raccordo per singolo dialogo) consente di concentrarsi con attenzione insolita sul volto di ciascun interlocutore. Nell’uso prevalente del campo medio, assume pregnanza il dettaglio (come succede per le chiavi di casa che Tao consegna al figlio nel secondo episodio). Tipici di Jia sono poi degli establishing shot alla rovescia, posti alla fine anziché all’inizio di una sequenza, a schiarire il contesto – con campi lunghi o lunghissimi – solo prima del cambio di scena.
Sradicamenti

Le montagne possono partire, dice il titolo originale. Richiama, contraddicendolo, un proverbio cinese secondo il quale gli amici sono stabili come montagne. Così dovrebbe essere, e non è, tra il padre di Dollar e l’amico più umile, sinceramente innamorato di Tao, in quel primo episodio che ha statuto autonomo tanto da esser corredato da propri titoli di coda. Al di là del proverbio, il titolo del film si riferisce alla Cina stessa: è lei, il suo popolo, la montagna destinata a spostarsi contronatura, in un movimento che simbolicamente rivoluziona le regole della fisica – non poi diversamente da quanto l’uomo riesce a fare, ad esempio quando costruisce una diga colossale a invadere d’acqua una vallata popolata da un milione di persone (“Still life” e “Dong”, documentario sulla costruzione della diga del Fiume Giallo).
Quello di Jia Zhang-Ke è cinema dello sradicamento. Prima ancora di essere cinema semi-documentaristico, “del reale”, cinema contemplativo che procede con ritmi dilatati e long takes; o cinema-documento sulla Cina contemporanea e sulle sue metamorfosi.
Il cinema di Jia ha il dono della semplicità e della trasparenza, nel porsi come critica dei vizi di fondo del modello capitalista e della corruzione (non solo materiale) che vi si insedia. Il progresso ha un costo terribile in termini di perdita, rinnegamento della memoria, delle radici. “Mountains may depart”, proprio come il titolo (originale) suggerisce, si sposta dalle radici con due movimenti a strappo, violenti e inesorabili come lo scorrere del tempo. Il passato si allontana e si sgretola; le memorie sono oggetto di rimozione. La perdita delle radici si accompagna alla rinuncia, inconsapevole, ai valori e alle emozioni, all’autenticità delle cose e al loro significato. Alla vita stessa. Il film si apre e si chiude (didascalicamente, ancora) sulle note di “Go west” dei Pet Shop Boys, che rimane per Tao memoria di giovinezza. Unica illusione di felicità?
C’è un pessimismo di fondo, nel cinema di Jia, verso il progresso in quanto tale. Un pessimismo che trascende la Cina e la contemporaneità, ed è in grado di tradursi immediatamente in metafora per l’intera civiltà globalizzata: in chiave di lettura del progresso umano in senso lato. Stiamo parlando di un autore orientale: il progresso e lo sviluppo non posseggono i connotati teleologici delle “magnifiche sorti e progressive” che hanno in Occidente. Nel cinema di Jia è evidente come il progresso sia ontologicamente una tara della modernità – e come tale sia vissuto sulla propria pelle dal popolo cinese. Su di una tradizione millenaria, il progresso non attecchisce che distorcendola, snaturandola.
E’ la peculiare declinazione nel contesto cinese della proverbiale “mutazione antropologica” della modernità, che ha sconvolto le nostre società dalla seconda metà del XX secolo. Oggi, in Cina, può apparire neorealismo in ritardo di settant’anni: invece funziona come monito e come riflessione su ciò che anche noi (i nostri nonni e genitori) abbiamo attraversato. E non ricordiamo, oggi, o non abbiamo mai saputo, per quali vie e percorsi, anche noi per quali sradicamenti, siamo giunti nel XXI secolo.   di Stefano Santoli ONDACINEMA

 

3,VIDEO

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Quando hai 17 anni

Quando hai 17 anniRisultati immagini per quando hai 17 anni filmUn film di André Téchiné.

durata 116 min. – Francia 2016. -VM 14

INDICE

  1. Recensioni

  2. Video

 


RECENSIONI

RECENSIONE N1

Sono innumerevoli i registi che hanno cercato di fissare sulla pellicola dolori e gioie dell’adolescenza, quell’età incerta in cui – dubitando di tutto – si devono prendere decisioni cruciali per la propria vita. Per riuscire a farlo così bene ci voleva un regista ultrasettantenne: o meglio, l’alleanza tra l’ultrasettantenne André Téchiné e la sua collega Céline Sciamma, giovane sceneggiatrice e regista in proprio (Diamante nero). Insieme, ci raccontano la storia di due liceali che vivono nei Pirenei. Figlio di un militare in missione in Afghanistan, Damien abita nella valle con la madre medico; Tom, adottato da una coppia di agricoltori, lavora alla fattoria negli intervalli dello studio. Un giorno il secondo fa lo sgambetto al primo, mandandolo faccia a terra davanti alla classe. Ha inizio una rivalità fatta di occhiate furiose, aggressioni verbali, zuffe continue: espressioni di un odio sotto il quale, però, ribollono altri sentimenti. La svolta avviene quando Tom, la cui madre adottiva attraversa una gravidanza a rischio, è invitato da Marianne, la madre di Damien, ad abitare con lei e col figlio il tempo necessario per migliorare le sue prestazioni scolastiche.
Si avverte che Quando hai 17 anni è il film di un intellettuale: lo tradiscono il titolo stesso, preso a prestito da un verso di Arthur Rimbaud, e una dotta disquisizione sul desiderio mascherata da materia di studio dei ragazzi. Tuttavia la storia è narrata con estrema semplicità, e per questo risulta tanto più efficace e coinvolgente. Sensibile cantore dell’adolescenza lungo tutta la sua carriera (Les Innocents, L’età acerba), il regista francese sceglie di rappresentare i gesti, le occupazioni quotidiane, la routine di ogni giorno: strato di normalità, però, che incapsula passioni e furori, paure e desideri di quell’età che poi interpellerà tutta la vita futura di un individuo. Così il film permette alla relazione tra i due ragazzi, e di quelli con le relative famiglie, di evolvere credibilmente, acquistando senso e verosimiglianza scena dopo scena. È vero che il regista porta ancora una volta nel film le proprie ossessioni e i propri temi ricorrenti, inclusi l’omosessualità e i fantasmi dell’incesto. Ma la sensibilità e l’acume con cui s’inoltra nell’universo di personaggi che oggi potrebbero essere suoi nipoti è ammirevole: non un’inquadratura che suoni falsa, nessuno stereotipo o luogo comune sull'”età ingrata”; mentre le asperità, le reticenze e perfino l’aggressività dei comportamenti sottendono un bisogno lancinante di empatia e di assistenza reciproca. Però, in tema di rifiuto dei cliché sull’adolescenza, la cosa più notevole è un’altra. Pur essendo a tutti gli effetti ragazzi della nostra epoca (ci sono diverse scene di Marianne e Damien in collegamento Skype col padre), quelli di Téchiné rifuggono dagli stereotipi che il cinema appiccica di regola ai teenager odierni: smartphone, messaggini, selfie e tutto il resto. Roba che, nelle intenzioni di tanti cineasti, vorrebbe “fare realismo” e invece serve solo a smarrire la linea retta della narrazione. Resta da aggiungere che Téchiné dirige gli attori da par suo, ottenendo il massimo dai due giovanissimi interpreti e dalla sempre più brava Sandrine Kiberlain. repubblica.it

 

RECENSIONE N2

Quando hai 17 anni  è un ritratto convulso e profondo dell’adolescenza. Téchiné, del resto, della gioventù è il cantore più grande che il cinema europeo ha. E forse ha avuto. Una carrellata iniziale lungo strade verdi d’estate e poi bianche d’inverno. Veloce, troppo veloce, e già Téchiné ci porta dentro l’atmosfera di questo film che deve dire così poco, per dire così tanto. Taglio. Palestra di una scuola. Due team vengono scelti per giocare una partita di pallacanestro. Solo due ragazzi restano seduti. Uno, perché è più scuro degli altri e forse troppo bello. L’altro perché, in qualche modo, non è come gli altri. Non c’è solitudine più grande di restare in panchina a diciassette anni. Soli, in due. Gli sguardi si sfiorano, ma questa compagnia forzata sulla panchina degli esclusi non rende la solitudine più sopportabile. Quando inizia il gioco della vita per Thomas (Corentin Fila) e Damien (Kacey Mottet Klein)?

Due anni fail pluripremiato Boyhood di Richard Linklater aveva già raccontato della necessità, del dolore e della gioia di diventare adulti. La storia, non solo al cinema, è antica come l’uomo. Eppure ogni volta nuova, quando a raccontarla sono artisti con lo sguardo di André Téchiné.
Thomas e Damien. Non dovrebbero stringere amicizia tra loro? Due outsider sono sempre, almeno, il principio di una maggioranza. Invece i due ragazzi si picchiano a ogni occasione. L’uomo è un prodotto non sempre riuscito dell’evoluzione. Perché la nostra specie deve ricorrere ai pugni per diventare adulti? La bellezza di questo film è che non si sforza da nessuna parte di spiegare il perché. Il perché, forse, è la tensione tra gli esseri umani.

La tensione tra Damien e Thomas è una delle forze generatrici e distruttrici della nostra specie. Il cinema di Téchiné mette a nudo questa tensione sempre tenuta nascosta della nostra specie. Thomas è figlio adottivo, vive sulle montagne con la famiglia povera. Damien è figlio di un militare di rango, una madre premurosa (ottima Sandrine Kiberlain), contesto borghese. Téchiné fa dei Pirenei sullo sfondo un personaggio del film. Anzi, il suo accompagnatore. Per forzare il figlio a confrontarsi con la sua aggressività, e per aiutare il compagno di classe Thomas negli studi, risparmiandogli tre ore di viaggio al giorno, la madre invita Thomas a stare da loro per un po’. Damien e Thomas sotto lo stesso tetto. È ora che quella tensione svela sé stessa. In cosa consiste la felice bellezza di Quando hai 17 anni? Non essere solo il racconto di un coming out (o forse due), ma renderci testimoni della vita stessa.  Simone Porrovecchio cinematografo.it

 

RECENSIONE 3

 

Thomas e Damien sono due compagni di classe, molto diversi tra loro, per carattere e provenienza. Il primo è di origine magrebina: è stato adottato da una famiglia di allevatori, che vive sulle montagne, a più di un’ora di distanza dal villaggio. È un ragazzo volitivo, sogna di fare il veterinario, ma ha serie difficoltà a scuola. L’altro è figlio di un militare e di una dottoressa, Marianne, una donna premurosa, a tratti persino estenuante, ma disponibile e aperta. Damien è molto legato ai suoi, ama cucinare e si allena nell’autodifesa. Ma anche lui, in buona sostanza, è un tipo solitario. Tra i due ragazzi nasce un odio immotivato, che li porta a più di uno scontro violento. E allora Marianne, per cercare di sedare gli animi e desiderosa di dare una mano a Thomas, lo invita a stabilirsi a casa sua per un po’ di tempo. Ma è una scelta che complicherà ancor più i problemi,

quando-hai-17-anni-corentin-fila-kacey-mottet-klein-sandrine-kiberlainTéchiné racconta un’altra età acerba, che si appropria inoltre della scrittura a fior di pelle del cinema di Céline Sciamma. Lo sguardo sull’adolescenza, allora, diventa pieno, rotondo, e passa in un batter d’occhi dai corpi ai cuori, dai cuori ai corpi. Quand on a 17 ans è un registratore che misura le azioni e le reazioni dei suoi protagonisti (i bravi Kacey Mottet Klein e Corentin Fila) e le pulsioni che le sottendono. E individua quel passaggio segreto, eppure universale, che conduce dal conflitto all’attrazione. Con la lentezza necessaria a compiere l’intero percorso. Diviso in tre trimestri, come un anno scolastico, il film, infatti, vive di tre movimenti, che hanno tutti una loro particolare tonalità e raccontano le evoluzioni dei sentimenti.

quando-hai-17-anni-sandrine-kiberlainLa nascita del sentimento che lega Damien e Thomas è, allora, un viaggio a tappe, che incrocia dei punti di passaggio obbligati eppur sempre nuovi, imperscrutabili. Prima c’è lo scontro, la repulsione, quel desiderio ossessivo che si maschera d’odio. Poi c’è la scoperta e lo svelamento, con tutte le paure e i turbamenti che ne conseguono. Infine c’è il momento del dolore, dell’elaborazione e del superamento. Intorno a questa traiettoria, si aprono altre tracce, i sentieri trasversali delle differenze di classe (e di colore), dei legami e dei destini familiari, delle attitudini e delle aspettative sul futuro. Tutte cose che vanno al di là del rapporto d’amore, e che pure lo riguardano, lo influenzano e ne modificano i tempi e i modi. Perché il mondo non è mai neutro, sta lì con le sue asperità, i suoi imprevisti, le distanze, le separazioni. Ben rappresentate da quelle montagne innevate dei Pirenei, da quei sentieri che portano dai boschi al villaggio, luoghi che si fanno materia di uno stato interiore, sospesi tra un fiero senso di solitudine e un invincibile desiderio di contatto. Téchiné è essenziale, sta lì con il suo cinema che coniuga la delicatezza della mano alla salda nettezza del tratto. Non è inquieto come la Sciamma, ha una specie di nitore neoclassico che imprigiona le linee di tensione. Eppure, senza alcuna morbosità, incontra ogni vibrazione dei corpi, le lotte, gli sfioramenti, gli abbracci, gli amplessi. Ogni immagine ha una concretezza fisica, densa, ma chiara, pulita, definita. E tutto sembra pian piano tramutarsi in uno studio plastico sul movimento, in cui l’interiore si fa gesto e si mostra nell’esteriore. Con una energia pulsante che forza la retorica del linguaggio (come nel momento della cerimonia funebre). E nega, finalmente, ogni chiusura. sentieriselvaggi.it

 

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UN PADRE, UNA FIGLIA

Un padre, una figlia

Un film di Cristian Mungiu. Ratings: Kids+13, durata 128 min. – Romania, Francia, Belgio 2016.

padre

INDICE

  1. RECENSIONI
  2. VIDEO
  1. RECENSIONI

 

Mungiu torna a interrogarsi sulle conseguenze di una scelta in un’opera che guarda alla paternità e alle seconde chances Marianna Cappi mymovie

Romeo Aldea è medico d’ospedale una cittadina della Romania. Per sua figlia Eliza, che adora, farebbe qualsiasi cosa. Per lei, per non ferirla, lui e la moglie sono rimasti insieme per anni, senza quasi parlarsi. Ora Eliza è a un passo dal diploma e dallo spiccare il volo verso un’università inglese. È un’alunna modello, dovrebbe passare gli esami senza problemi e ottenere la media che le serve, ma, la mattina prima degli scritti, viene aggredita brutalmente nei pressi della scuola e rimane profondamente scossa. Perché non perda l’opportunità della vita, Romeo rimette in discussione i suoi principi e tutto quello che ha insegnato alla figlia, e domanda una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale.

Il protagonista di Bacalaureat ha provato, a suo tempo, a cambiare le cose, tornando nel proprio paese per darsi e dargli una prospettiva di rinnovamento, anzitutto morale. Non ha funzionato. Tutto quello che ha potuto fare è restare onesto nel suo piccolo, mentre attorno a lui la norma era un’altra. Trasparente nel mestiere, meno nella vita sentimentale, perché la vita prende le sue strade, e non tutto si può controllare. Ora però non si tratta più di lui: le biglie dei suoi giorni trascorsi sono più numerose delle biglie nella boccia dei giorni che gli rimangono. Ora si tratta di sua figlia, di impedire che debba sottostare allo stesso compromesso, ovvero restare in un luogo in cui le relazioni tra le persone sono ancora spesso fatte di reciproci segreti, di silenzi da far crescere e redistribuire: una rete che imprigiona e “compromette” la vera vita. Ma fino a che punto si ha diritto di scegliere per i propri figli? Una rottura del proprio codice morale, per quanto occasionale e dimenticabile come una pietra che arriva improvvisa e rompe il vetro della finestra di casa, basta a mettere in discussione l’intera costruzione?
Come in Oltre le colline Mungiu s’interroga sulle conseguenza di una scelta, in un film però molto diverso dal precedente, per certi versi più freddo ma anche più morbido, in cui l’errore non è più lontano dalla presa in carico delle conseguenze e delle responsabilità che ne derivano e dove la lezione passa, aprendo forse davvero una seconda opportunità per il protagonista, proprio in quell’aspetto del suo essere che credeva di condurre al meglio: la paternità.
“Perché suoni sempre il clacson?” Domanda Eliza. “Per sicurezza.” “Sì, ma perché lo suoni anche quando non ci sono altre macchine?” L’ironia della sorte, che nel cinema rumeno degli ultimi anni non manca mai, e scorre tanto sotto le commedie grottesche che sotto i drammi più amari, fa sì che il dottor Aldea agisca quando non c’è bisogno di farlo, travolto dal terrore che il futuro di sua figlia possa andare improvvisamente in frantumi come il vetro, quando in realtà sono la sua età e la sua situazione che gli stanno domandando il conto.

“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu

È da un po’ che il cinema rumeno suscita grande interesse da parte della critica e del pubblico, tanto che si è sentita l’esigenza di organizzare anche un festival ad esso dedicato, inserito nell’evento Effetto Notte dalla Casa del Cinema a Roma dal 1 al 3 settembre. Il perché di tanto clamore lo conferma il bel film “Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, uscito nelle sale italiane in questi giorni, vincitore della Palma d’oro di quest’anno. Cristian Mungiu, regista e sceneggiatore, dal Festival di Cannes ha ricevutato tanto meritatamente. Nel 2007, si è guadagnato la Palma d’oro per il suo secondo film “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”, nel 2012 ha vinto per la miglior sceneggiatura di “Oltre le colline”, oltre al premio consegnato alle attrici per l’interpretazione.
In “Un padre, una figlia”, Mungiu affronta l’etica e la morale di un uomo messi a dura prova. Sullo sfondo di una Romania squallida e corrotta, Romeo Aldea (Adrian Titieni), è uno stimato chirurgo e vive in una nella cittadina di montagna della Transilvania. Sposato con un bibliotecaria, si trova costretto a mettere in discussione tutti i principi di onestà e d’impegno che ha insegnato alla figlia Eliza. Ormai vicina al diploma, la ragazza, studentessa modello, è riuscita a vincere una borsa di studio per seguire la facoltà di psicologia a Cambridge. Occorre solo superare l’esame di maturità a pieni voti, ma a quel punto si tratta soltanto di una formalità, e il padre, che ha sempre desiderato per lei un futuro all’estero, lontano dalla Romania, aspetta con ansia quel momento. Ma il giorno prima dell’esame, mentre si sta recando a scuola, la ragazza viene aggredita e, per lo shock, Eliza non riesce ad essere lucida alla prova scolastica. Alla confusione mentale si aggiunge anche la difficoltà a scrivere a causa del gesso alla mano destra per una frattura dovuta all’aggressione. I progetti che Romeo aveva formulato per lei rischiano di saltare e si troverà costretto ad utilizzare tutte le vie possibili, anche quelle che lui ha sempre contestato, affinché si realizzino. Un amico poliziotto lo consiglia di chiedere l’aiuto di un politico locale che è in lista d’attesa per un trapianto di fegato. E così la situazione di Romeo si complicherà ancora di più. Raccomandazioni, favori chiesti e ricambiati con metodi poco ortodossi, ricorda molto l’Italia e il suo malaffare questo film. “Perchè non posso rimediare ad un’ingiustizia con un’altra ingiustizia” si chiede Romeo che si sente impotente di fronte ad un fatto criminale. Ma “Un padre, una figlia” non è un film che parla solo della corruzione di un paese, ma piuttosto sulla difficoltà di essere genitore. Un padre è anche un uomo che ha commesso degli errori e non vuole farli ripetere alla figlia. Uno di questi era stato tornare in Romania dopo la morte di Ceausescu, lui e la moglie pensando che tutto sarebbe cambiato. Così non è stato. Eliza ha diritto ad avere un altro futuro e glielo ricorda ogni momento, facendole il lavaggio del cervello, anche quando le propone di truccare l’esame per superarlo. Romeo cerca un riscatto e pensa che manipolando il destino possa ottenerlo attraverso la figlia. Ma non tiene conto della vita e dei suoi imprevisti, ai quali la moglie ha risposto con la depressione e i forti mal di testa che la tormentano. Lui stesso non ha saputo reggere il peso di portare avanti un matrimonio basato su un’ illusione perduta e da tempo ha iniziato una relazione extraconiugale con una professoressa di sua figlia. Una piega nella rettitudine dell’uomo, insinuata già all’inizio del film quando un sasso lanciato contro il vetro dell’appartamento abitato da lui e la sua famiglia apre la storia come fosse un thriller. Ma proprio Eliza, interpretata da Maria Drâgus, rappresenta il nuovo che avanza. Si capisce che sta seguendo più i desideri del padre che i suoi. In realtà Eliza, vorrebbe fare delle scelte indipendenti, è contenta di stare dove si trova, ha un fidanzato che ama e le piacerebbe restare con lui in Romania, dove continuare a studiare senza compromessi. Liberarsi quindi dalla cappa in cui i suoi genitori iperprotettivi l’hanno tenuta fino ad allora e volare via.

Clara Martinelli ilquorum.it

 

2.VIDEO

 

Trailer 

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Il sogno di Romeo

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Eliza non è più vergine

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Il vicesindaco

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La canzone del mare

        La canzone del mare

REGIA Tomm Moore.

Animazione

Ratings: Kids+13,

durata 93 min. –

uscita giovedì 23 giugno 2016

 

 

 

INDICE

  1. Recensioni
  2. immagini
  3. video

 

  1. RECENSIONI

Saoirse è una bambina particolare, a 6 anni ancora non riesce a parlare e prova una strana e fortissima attrazione per il mare. Vive nella casa sul faro con il papà e il fratello maggiore Ben, spesso imbronciato e antipatico con la sorellina che ritiene responsabile della scomparsa dell’amata madre. La casa sul faro nasconde tanti segreti e oggetti magici, e quando Saoirse scopre due di questi, una conchiglia regalata dalla mamma a Ben per sentire il suono del mare e un vecchio mantello della madre, innesca un magnifico viaggio negli abissi marini tra foche e personaggi fantastici. Scopriamo così che Saoirse è una delle “selkies”, creature magiche che vivono a metà tra terra e mare e che con il proprio canto possono risvegliare le vittime della strega Macha, private di emozioni e trasformate in pietra. Saoirse è la prescelta e con questo suo compito inizia un immaginifico cammino in cui Ben metterà in gioco la propria vita per salvare quella della sorellina.

Song of The Sea è l’ultimo affascinante lavoro del regista nordirlandese Tomm Moore, già candidato all’Oscar perThe Secret of Kells. Attraverso personaggi e mondi magici, Moore indaga l’aspetto strettamente umano delle emozioni e dei ricordi. La strega malvagia che svuota le creature dei sentimenti negativi crede di agire in buona fede aiutandole ad eliminare il dolore. Saranno due bambini a farle comprendere che non bisogna mai privarsi delle emozioni, siano esse positive o negative, perché la vita è la storia delle nostre esperienze che, collegandosi l’un l’altre come pezzi di un puzzle, restituiscono all’uomo la sua unicità ed essenza. Ed è proprio dal dolore che parte la rinascita, quella della famiglia di Ben e Saoirse che troverà nella sensibilità e nell’audacia dei suoi più giovani componenti la forza per ripartire e tornare a vivere serenamente.
Con un’incantevole alternanza di semplicità grafica nella pittura dei personaggi e uso raffinato della tecnica per scenografie e paesaggi, Moore dà vita ad un film d’animazione per ragazzi che invita anche i più grandi a riflettere sui temi e sulle virtù tipicamente fanciullesche della solidarietà, della generosità e della purezza delle azioni.  Francesco Giuseppe Trotta – Redazione SdC MYMOVIE-

RECENSIONE

Cosa succede quando le antiche leggende irlandesi diventano un film d’animazione per bambini? Si crea un bellissimo capolavoro, come succede in La canzone del Mare (Song of the sea) di Tomm Moore, nominato agli Oscar nel 2015. Non è la prima volta che il regista si avvicina alla statuetta tanto ambita: cinque anni prima aveva affascinato bambini e adulti di tutto il mondo con un gioiello chiamato The secret of Kells. E in effetti un filo conduttore tra i due lungometraggi esiste: non si può parlare di un vero e proprio sequel ma ciò che resta, come dice il regista, è un follow-up spirituale, lo stile artistico ancora handmade, l’animazione in 2D e la musica di Bruno Coulais e Kila. Una musica che accompagna lo spettatore fin dalle prime scene, delicate, intime, di una tenerezza d’altri tempi e che riemerge poco alla volta fino a manifestarsi con tutta la sua forza nella scena finale del film. È quasi come un gioiello da salvaguardare, da esibire poco alla volta, fino alla conclusione della storia e all’emergere delle emozioni di tutti i personaggi. Perché le vere protagoniste di La canzone del mare sono proprio loro, le emozioni che caratterizzano i protagonisti: la tristezza del padre, la scontrosità del fratello Ben, la solitudine della sorella Saoirse e la voglia di cambiamento della simpatica nonnina. Tutto questo viene condito dalla soave voce della madre, che sparisce fisicamente dopo le prime scene ma resta come fantasma e spirito guida per tutta la durata del lungometraggio.

L’altro grande protagonista di La canzone del mare è il paesaggio della verde Irlanda, che con il suo mutare repentino di luci, ombre, nuvole e sole, definisce l’animo dei personaggi e riflette uno specchio di sentimenti in cui tutti noi possiamo facilmente immedesimarci. Queste le parole di Tomm Moore: “Un artista che ho ammirato molto è stato il pittore irlandese di paesaggi, Paul Henry, e ci dobbiamo ritenere fortunati per il contributo che ha dato il mio vecchio amico Ross Stewart al primo concept focalizzato soprattutto sul paesaggio irlandese”.

La canzone del mare: l’antico mito delle foche rivisitato in chiave contemporanea da Tomm Moore

Ma da cosa nasce questo racconto? Da un viaggio nelle costa occidentale in cui Moore vide una spiaggia piena di carcasse di foche, brutalmente uccise. Iniziò a pensare che un evento del genere non sarebbe mai successo nell’antichità, quando numerosi miti consideravano le foche come animali mistici, di un alto livello spirituale e protettrici delle anime delle persone disperse nei mari. Così decide di riportare il grande valore del mito nel mondo contemporaneo, dove ormai la velocità e la tecnologia ci ha allontanato dall’assaporare la musica delle nostre emozioni più profonde, e di aggiungere il suo contributo nella storia da trasmettere alle nuove generazioni, divenendo egli stesso un seanachai, ovvero una persona che impara e trasmette le storie. Come ogni mito, anche quello delle foche ha in sé dei valori universali, e il paragone con l’antica Grecia viene spontaneo, pensando ad un mito simile, che vedeva altri animali, i delfini, come mammiferi sacri, amici dell’uomo, amanti dei bambini e, guarda a caso, sensibili alla musica. La canzone del mare, vi aspetta finalmente nelle sale italiane il 23 giugno distribuito da Bolero Film. cinematographe.it

 

 

2) IMMAGINI

3) TRAILER

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