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La famiglia Bélier

 

belierLa famiglia Bélier

Un film di Eric Lartigau.

Ratings: Kids+13,

durata 100 min. – Francia 2014.

 

….

 

INDICE

  1.  RECENSIONE
  2. INTERVISTA AL REGISTA (video)
  3. TRAILER (video)
  4. IL TALENTO (video)
  5. IL PRIMO APPUNTAMENTO (video)
  6. MIEI CARI GENITORI, NON FUGGO , IO VOLO (video e testo)

 

 

1)  RECENSIONE
Marzia Gandolfi  MY MOVIE

Paula Bélier ha sedici anni e da altrettanti è interprete e voce della sua famiglia. Perché i Bélier, agricoltori della Normandia, sono sordi. Paula, che intende e parla, è il loro ponte col mondo: il medico, il veterinario, il sindaco e i clienti che al mercato acquistano i formaggi prodotti dalla loro azienda. Paula, divisa tra lavoro e liceo, scopre a scuola di avere una voce per andare lontano. Incoraggiata dal suo professore di musica, si iscrive al concorso canoro indetto da Radio France a Parigi. Indecisa sul da farsi, restare con la sua famiglia o seguire la sua vocazione, Paula cerca in segreto un compromesso impossibile. Ma con un talento esagerato e una famiglia (ir)ragionevole niente è davvero perduto.
Campione di incassi in Francia e nella stagione appena passata, La famiglia Bélier è una commedia popolare che aggiorna con note e sorrisi il vecchio tema dell’adolescente alla ricerca di un’identità stabile. Sospeso tra focolare e autonomia, il nuovo film di Éric Lartigau ‘riorganizza’ una famiglia esuberante intorno a un’età per sua natura fragile e scostante. A incarnarla è il volto pieno e acerbo di Louane Emera, ex concorrente dell’edizione francese di The Voice, che presta voce e immediatezza a un personaggio in cerca di un posto nel mondo. Se comicità e crisi si accomodano tra la rappresentazione genitoriale del futuro filiale e la tensione allo svincolo della prole, i personaggi vivono situazioni esilaranti, annullano lo scarto con l’amore e spiccano il salto verso una condizione nuova. Appoggiato su una sceneggiatura solida, che mescola con perfetta misura umorismo, lacrime, disfunzioni, pregiudizi e canzoni, La famiglia Bélier svolge una storia ben ordita in cui ciascun personaggio gioca la sua parte con effetto e sincerità, senza mai sconfinare nel pathos. Precipitando lo spettatore nel mondo ‘smorzato’ dei malentendants, Lartigau elude lo sguardo (fastidioso) dei ‘normali’ sui disabili, mettendo in scena una famiglia che quella difficoltà ha imparato a gestirla, intorno a quella difficoltà è cresciuta e su quella difficoltà si è impratichita, sentendo ogni movimento della vita. La famiglia Bélier non emoziona perché è differente ma al contrario perché è universale, si agita, si rimprovera e fa pace come tutte le famiglie del mondo. Chiusi nella sordità e in una bolla di sicurezza familiare, i Bélier si fanno sentire forte e chiaro attraverso la voce limpida di Paula e attraverso il linguaggio marcato dei segni. Linguaggio che regista e attori dimostrano di saper adottare con sensibilità dentro un film good movie alla francese, che ‘canta’ Michel Sardou. Celebre chanteur parigino, ammirato dal professore appassionato e coinvolto di Éric Elmosnino, Sardou è il tappeto musicale che ‘accompagna’ il ritratto di una famiglia in un interno domestico e in un esterno bucolico, lontano dalle città e dentro una Francia atemporale e irriducibile, che alla techno preferisce la chanson française, al formaggio di soia quello a latte crudo, alle hall degli aeroporti le piazze di paese. Per preservare ‘quella Francia’ i Bélier sono addirittura disposti a scendere politicamente in campo e a battersi ‘a gran voce’. In tempi di crisi, la commedia di Lartigau ripara nei valori di cui Paula è in fondo portatrice sana. Perché il suo distacco dalle ‘origini’ è solo fisico, mai totale e lirico come le parole ‘segnate’ di Sardou (“Je vole”). Parafrasando la canzone, Paula “non fugge, lei vola” verso spazi e tempi di prova in cui prepararsi alla vita. Dentro una moltitudine di diversità Éric Lartigau pesca quella irresoluta dell’adolescenza e di un’adolescente che deve apprendere un ‘linguaggio’ nuovo ed evidentemente altro e incoerente rispetto a quello familiare. Ispirato al libro di Véronique Poulain (“Les Mots qu’on ne me dit pas”), La famiglia Bélier è abitato da un cast irresistibile, condotto da François Damiens e Karin Viard, genitori affatto ‘sordi’ a la maladie d’amour e a quel fiume di note impetuose che cercano una melodia. Una melodia che Paula legittima adesso con la sua voce (e le sue mani).

 

 

2) INTERVISTA AL REGISTA

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3) TRAILER

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4) IL TALENTO

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5) IL PRIMO APPUNTAMENTO

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6) MIEI CARI GENITORI…NON FUGGO . IO VOLO

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Mes chers parents je pars
Je vous aime mais je pars
Vous n’aurez plus d’enfants, ce soir
Je m’enfuis pas je vole
Comprenez bien je vole
Sans fumée sans alcool je vole, je vole

C’est jeudi, il est 5h05,
j’ai bouclé une petite valise
et je traverse doucement l’appartement endormi
j’ouvre la porte d’entrée en retenant mon souffle
et je marche sur la pointe de pieds
comme les soirs où je rentrais apres minuit
pour ne pas qu’ils se réveillent
Hier soir à table
j’ai bien cru que ma mere se doutait de quelques chose
Elle m’a demandé si j’etais malade,
pourquoi j’etais si pâle
j’ai dit que j’etais très bien
Tout à fait clair je pense qu’elle a fait semblant de me croire
et mon père a sourit.

En passant a coté de la voiture
j’ai ressenti comme un drôle de coup
je pensais que ce serait plus dure et plus grisant
un peu comme une aventure mais moins déchirant
Oh, surtout ne pas se retourner, s’éloigner un peu plus
Il y a la gare,
et après la gare il y a l’Atlantique,
et après l’Atlantique…

C’est bizarre cette espece de cage qui me bloque la poitrine
ça m’empeche presque de respirer
je me demande si tout à l’heure
mes parents se douterons que je suis en train de pleurer
Oh surtout ne pas se retourner, ni les yeux ni la tete,
ne pas regarder derrière
seulement voir ce que je me suis promis
et pourquoi et où et comment…
Il est 7h moins 5 je me suis rendormi dans ce train
qui s’éloigne un peu plus
oh surtout ne plus se retourner… jamais!

Mes chers parents je pars
je vous aime mais je pars
vous n’aurez plus d’enfants ce soir
je m’enfuis pas je vole
comprenez bien je vole
sans fumée sans alcool, je vole, je vole

Hungry Hearts

 Hungry Hearts

Hungry-Hearts

Hungry Hearts
Un film di Saverio Costanzo.

Ratings: Kids+16

durata 109 min.

Italia  2015

 

 

                                           

INDICE

– RECENSIONE

– INTERVISTA AL REGISTA

RECENSIONE: una riflessione profonda sulla genitorialità

 

Mina e Jude si incontrano per la prima volta in un’angusta toilette di un ristorante cinese. Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dal colloquio con una veggente a pagamento Mina si convince che il suo sarà un figlio speciale che andrà protetto da ogni impurità. Inizia a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. Jude decide di opporsi a queste scelte portando di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa più acuto.
Il disagio, il malessere esistenziale sono da sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Che si tratti dei palestinesi di Private, dei seminaristi di In memoria di me o dei giovani de La solitudine dei numeri primi la sua macchina da presa inquadra situazioni che sono al contempo estreme e quotidiane. È quanto accade anche in questo film che trae ispirazione dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso in cui Costanzo mette a frutto la propria profonda conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM ma non solo.
Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: “La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire”. È questo tipo di consumo che Mina (precocissima orfana di madre e con un padre con cui non ha più contatti) sta cercando, anche se vorrebbe evitarne inizialmente, l’avveramento. Costanzo non vuole fare il fustigatore di teorie e/o credenze più o meno diffuse (osservanza vegana compresa) perché di fatto spinge il suo sguardo decisamente molto più in là.
Mina non è una Rosemary polanskiana più o meno consapevolmente gravida di demoni interiori. È una donna che dimentica di essere tale (quindi annullando anche la propria sessualità che era in precedenza vitale e solare) in funzione di una ‘proprietà’, quella del figlio, che diviene totalizzante. Il punto di non ritorno è quando utilizza l’aggettivo possessivo più improprio (“mio”) nei confronti del neonato. Da quel momento Jude viene estromesso (con sentenza passata in giudicato nella mente della compagna) dalla condivisione che è propria dell’essere genitori. Per far ciò non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. È sufficiente ritenere di essere gli unici depositari del sapere ‘cosa è bene’ per l’essere umano in formazione rifiutando qualsiasi confronto. Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell’amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare. Costanzo sa come descrivere questo processo. MYMOVIE Giancarlo Zappoli

 

 

“HUNGRY HEARTS”: INTERVISTA A SAVERIO COSTANZO

Questa intervista è uscita sul Venerdì di Repubblica.

Roma. C’è anche la possibilità di detestarle, le due madri di Hungry Hearts: una trepida mamma vegana che affama il figlio per non contaminarlo con le impurità del mondo e una risoluta suocera che risolve drasticamente il problema del nipotino sottopeso. Saverio Costanzo ha riversato materiali incandescenti nel suo film, che parte come una commedia e poi svolta verso un horror familiare, dove un omogeneizzato di carne può elevarsi a dispositivo del thrilling. Due giovani si incontrano, si innamorano, nasce un bambino (indaco, ovvero dotato di superpoteri spirituali, secondo il vaticinio di una veggente) e monta la tragedia. Che si era già preannunciata in gravidanza con alcuni segnali, perché il diavolo è nei dettagli. Alba Rohrwacher ed Adam Driver, premiati alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi, sono Mina e Jude, lei italiana a New York che lavora nelle ambasciate e lui ingegnere: sono diversi, ma si vede che si amano, il guaio è che certe volte l’amore, anche materno, è il detonatore di esplosioni devastanti.

Anche questo film può essere un detonatore: di polemiche, sebbene Costanzo non emetta giudizi sui suoi personaggi. Per esempio: l’ostinata pratica vegana di Mina, la filosofia più inoffensiva della terra, non viene mai accusata di nuocere ai bambini, eppure, sul web, alcuni vegani un po’ meno inoffensivi se la sono già presa col regista, accusandolo, tra l’altro, di specismo (ovvero di discriminare gli animali dagli umani, soprattutto a tavola) per un’incauta dichiarazione festivaliera nella quale confessava di gradire molto il Big Mac e di propinarlo ai figli una volta al mese. In realtà queste sue scorrerie nel fast food sono più casuali che programmatiche, ma tant’è. Poi c’è il discorso sulle madri, ancora più ostico. Costanzo dice, giustamente, che «ogni film viene illuminato dalla luce dello spettatore», quindi ognuno può vedere quelle madri alla luce delle proprie esperienze, o disavventure, infantili. A chi in tenera età non se l’è passata tanto bene, il senso di possesso della mammina sul figlio e l’atteggiamento manipolatorio della suocera fanno venire i brividi. Ma qui bisognerebbe mettersi d’accordo sul fatto che di certe mamme, o certe nonne, è lecito diffidare. E apriti cielo.

Che ha detto sua madre del film? 

Perché?

Così, per sapere. 

Come spettatrice, mi sembra le sia piaciuto, sì, credo le sia piaciuto. Ha riso.

Le ha chiesto perché?

No, ho un certo pudore, poi mi è difficile pormi come figlio rispetto a questo film.

Questo film, come il precedente La solitudine dei numeri primi, altro horror di ambiente familiare, nasce da un libro, Il bambino indaco di Marco Franzoso. Ma se il romanzo di Giordano era arrivato a Costanzo per mano di un produttore, questo se l’è trovato da solo. Si ricorda ancora quando e dove l’ha letto: un anno e mezzo prima di scrivere la sceneggiatura, su un treno per Udine. «Avevo visto una recensione di Goffredo Fofi. C’è poco da dire, mi ha colpito. E respinto. Sentivo che era una storia che potevo raccontare, ma mi sembrava ci fosse troppa violenza. Però ogni tanto sono tornato a pensarci e un giorno questo pensiero è diventato la prima scena. La sceneggiatura è andata avanti con una scrittura naturale, semplice. Conclusa in una settimana».

La prima scena – che nel romanzo non c’è, ma Costanzo ha un approccio molto libero negli adattamenti dei libri, che legge e poi dimentica per conservare la storia, non i dettagli – è stata un po’ censurata nelle recensioni del film, ma andrebbe raccontata. Ristorante cinese a New York, la porta dell’antibagno in cui Mina si è lavata le mani non si apre, è bloccata. Si apre invece la porta del bagno e insieme a Jude esce una puzza mostruosa, apocalittica: lui ha mangiato qualcosa di molto indigesto e questi sono gli effetti. Imbarazzo, intimità coatta e vertiginosa, finché non li libera un cameriere.

Dopo Le conseguenze dell’amore, ecco Le conseguenze del mangiare: nel suo film, il cibo è pessimo in tutte le sue forme. 

Beh, sì: nella scena specifica, trattasi di merda. Ma è anche divertente. E in effetti c’è una coerenza fra il prologo e l’epilogo, ma non è studiata, costruita. Spesso questo film mi faceva paura. E a volte ridere.

Paura del male che può fare una madre? 

No, quello che ho capito o dovevo capire con Hungry Hearts è che le madri hanno sempre ragione. Ho faticato ad accettare il ruolo della madre più quando sono diventato padre che da bambino: allora non lo discutevo. Ho fatto pace con questa figura e imparato anche a guardarmi con più indulgenza nel ruolo di padre. Ma soprattutto ho capito e accettato che una madre ha sempre ragione.

Anche quando non vuol vedere che suo figlio rischia la vita perché non lo nutre a sufficienza? O quando comincia a purgarlo di nascosto per non fargli assimilare la carne prescritta dal pediatra? 

Se si entra in un’ossessione non si controllano le azioni. Questa è la storia estrema di un’ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire. Non sa che fare di tutto l’amore da dare al bambino. Non riesce a contenere il miracolo di cui si rende capace, la maternità. È un’ idiozia darla per scontata. Si dice: la donna fa i figli, l’uomo no. E finisce lì.

Quindi non esistono cattive madri. 

È come dire: non esistono cattive persone. No, io non penso che esistano cattive persone e basta, cattive fino in fondo.

Che reazione ha alla parola famiglia?

Tutti i miei film sono sulla famiglia, questo è sicuro. Cerco di capirla. Ma non saprei rispondere su una cosa così profonda.

Qualche conto in sospeso? 

Se ci sono state delle mancanze lo ho perdonate: sono diventato un padre. Guardo con indulgenza agli eventuali errori dei miei.

Un padre famoso può essere devastante. 

C’è uno scambio di amore nella nostra famiglia di cui non parlo perché sono cose private. Grazie a mia madre il nostro quotidiano era fatto di normalità e discrezione, non mi sono mai socializzato come figlio di Maurizio Costanzo. Se lo dimentichi tu, lo dimenticano anche gli altri. E non ti ferisce chi pensa, come poi è normale, che tu abbia avuto dei privilegi, anche se non li hai mai chiesti né accettati.

In Rosemary’ Baby, film del 1968 di Polanski, Mia Farrow è vittima di congiura satanista condominial-coniugale che la fa mettere incinta dal demonio. Durante la gravidanza ha dei sospetti, ma viene trattata da visionaria. In Hungry Hearts, Mina ordisce da sola il suo complotto, e contro le forze del male (inquinamento, medicina allopatica, suocera carnivora), ma sa anche che gli altri, gli sconsiderati normali, la giudicano pazza. Inevitabile riconoscere un filo rosso fra i due film, ma Costanzo rivendica un’altra sintonia, con Una moglie di John Cassavetes (che, guarda caso, era il marito di Mia Farrow in Rosemary’s Baby, questo però non c’entra niente): «Che bel film, contiene la verità di una donna, tutto il suo amore e la sofferenza che comporta. Ancora oggi, quella di Gena Rowlands è forse la performance femminile più profonda perché non dà per scontata la maternità, è una lotta interiore. Una lotta buona e lieve».

Vecchia passione quella per Cassavetes: Costanzo dice che vorrebbe essere ingenuo come lui. Ma si può voler essere ingenui? «Sì, fidandoti dell’istinto, aspettando che le cose accadano, facendo lavorare l’esterno. Sul set, il mio modo di girare è stato quello di Cassavetes: non andare a cercarti uno stile, racconta semplicemente una storia dando lo spazio all’attore, che è la storia. Rimani su di lui e nel modo più onesto, senza metterti nella condizione di sapere troppo quello che vai a fare. Rosemary’s Baby è entrato nel film malgrado me, perché purtroppo non posseggo il candore di Cassavetes. Dico purtroppo perché lui non va mai a finire in un genere, rimane coerente con la danza umana che mette insieme, mentre io ho una parte evidentemente più orrorifica e in quell’interno di coppia ci vedo molto buio, così emergono degli incubi che appartengono a Polanski. Anch’io poi ho pensato a Rosemary’s Baby: perché Alba ha lo stesso biancore di Mia Farrow, la stessa eleganza, e perché io volevo l’Upper West Side, avevo bisogno di quella New York. Ma sono somiglianze più che altro estetiche».

Seguendo la corrente Cassavetes, sono successe cose, durante la lavorazione: Adam Driver, l’unica faccia giusta per il film, era indisponibile; stava per saltare tutto, ma poi si è liberato. Il minuscolo e nitido appartamento della coppia o la villa della suocera coi trofei di cervi alle pareti (proprietà di una signora dedita alla caccia con l’arco) non erano proprio quelli previsti dalla sceneggiatura, ma alla fine l’hanno arricchita. Il budget poco superiore al milione di euro ha consentito a Costanzo di lavorare, sollevare divani, faticare («ne avevo un gran bisogno»), la mancanza delle sovrastrutture da grande produzione ha eliminato deleghe e dispersioni. E assumendo anche il ruolo di operatore, il regista ha potuto sperimentare direttamente i rischiosi fisheye che deformano l’immagine quando la coscienza di Mina comincia a sfrangiarsi. «Volevo girare le scene con due obiettivi diversi, ma non c’erano né il tempo né i mezzi. È andata bene così».

In questo fecondo disordine creativo tocca parlare di altri disordini, quelli alimentari, già affrontati in La solitudine dei numeri primi. Perché tanto interesse? 

È casuale. In questa storia la protagonista non è anoressica, infatti Alba non è dovuta dimagrire dieci chili come nella Solitudine. Non mangia per un’ansia di purezza, che sarà pure anoressia, ma il tema del film non è il rapporto con il cibo, anche se l’ho girato a New York perché là mangiare una verdura che sa di verdura è un privilegio da miliardari, mentre in Italia è relativamente facile.

Il tormentone sul cibo è un tema filosofico? 

Non so. Aumenta la consapevolezza che distruggiamo la Terra, forse è una reazione, e magari allargando i consumi di alimenti biologici i prezzi di questi alimenti potrebbero scendere. Ma detesto fare sociologia e non c’è niente su cui non cambio opinione se incontro al bar  uno con un’idea più illuminata. E poi il dibattito sul cibo lo trovo noiosissimo.

TRAILER

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Birdman

birdman

Birdman

regia Alejandro González Iñárritu.

Attori Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Andrea Riseborough, Amy Ryan.

Ratings: Kids+13,

durata 119 min. –

uscita  5 febbraio 2015.

 

 

 INDICE

TRAMA

RECENSIONE 1

RECENSIONE 2

VIDEO

 

 

TRAMA

Dopo un folgorante passato nei panni di un glorioso supereroe, l’attore Riggan Thomson (Michael Keaton) spera che dirigere un nuovo, ambizioso spettacolo a Broadway riuscirà a rilanciare la sua carriera moribonda e a dimostrare a tutti – e a se stesso – che non è solo una ex star di Hollywood. Nei giorni che precedono la sera della prima, Riggan deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso

RECENSIONE 1 : “Birdman”, un attore tra crisi d’identità e bisogno d’amore

Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? È questo, senza interrogativo finale, il titolo di una delle più straordinarie raccolte di racconti del Novecento. Ed è la domanda che attraversa il nuovo film di Alejandro Iñárritu, “Birdman”, uno dei migliori dell’anno, il più nominato agli Oscar (9), con “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson e davanti allo splendido “Boyhood” di Richard Linklater. Lo sappiamo al cinema dai tempi dell’“Effetto notte” di Truffaut. È un disperato bisogno d’amore che spinge a fare il mestiere dell’attore e forse anche per altri: ormai quasi tutti sono attori, qualsiasi lavoro facciano. Ma quale sia la forma di questo amore, se la fama, il successo, l’adorazione, il numero dei followers e come questa ricerca influisca sul bisogno d’amore quotidiano, tangibile per una donna, un uomo, un figlio, un amico, questo è il tormento del nostro eroe.

Riggan Thomson è una vecchia celebrità di Hollywood, famoso per aver interpretato uno dei tanti grotteschi supereroi da cassetta, Birdman, decaduto da quando ha rifiutato di girare il quarto film della serie blockbuster. A distanza di anni, punta tutte le sue aspirazioni di affermarsi come vero artista nella riduzione teatrale delle meravigliose novelle di Raymond Carver, un progetto per Broadway di cui è scrittore, produttore e protagonista in scena. Mentre si avvicina la fatidica sera della prima, in un crescendo di ansia, la disperata e donchisciottesca scommessa di Riggan si dipana in un labirinto d’incontri e confronti con il passato e il presente, con la ex moglie dolce e materna, una figlia disincantata, colleghi ancora più insicuri e nevrotici, una critica teatrale frustrata e sadica, un amico avvocato al quale spetta il ruolo di Sancho Panza nel sogno di gloria. La camera di Iñárritu lo insegue in un flusso continuo, omaggio cinefilo al grande Hitchcock, sfiorando con leggerezza alcuni solidi luoghi comuni – il rapporto fra cinema e teatro e letteratura, fra arte e mercato – senza mai cadere nella banalità e anzi virando ogni volta verso situazioni inattese, a tratti d’irresistibile comicità. Nella forma e nella sostanza Iñárritu descrive la parabola del folle volo di un Ulisse, di un Icaro del nostro tempo fragile e disperso fra mille inutili tentazioni e ricorrenti crisi d’identità.
La forza creativa del cinema di Iñárritu è sostenuta da una scrittura brillante e da una prova d’attori fenomenale. Ed Norton è travolgente nella parte di Mike, vanesio e arrogante coprotagonista e contraltare dell’eroe, Emma Stone, sempre più brava, interpreta un’indimenticabile figlia cinica e seduttiva, Naomi Watts è perfetta nel ruolo di un’attrice in fuga dal ruolo di sex symbol. Su tutti però giganteggia Michael Keaton, già vincitore del Globen Globe e favorito per un Oscar che realizzerebbe un’altra favola hollywoodiana. Perché si tratta proprio di lui, del Keaton protagonista dei primi due “Batman”, poi ripudiato dalla Mecca del cinema per aver rifiutato “Batman 3” e ora tornato alla gloria con il personaggio autobiografico di Birdman, fra gli applausi del pubblico che si era dimenticato di lui e gli osanna d’una critica che l’aveva sempre considerato un mediocre attore miracolato dal botteghino.
Con “Birdman” il messicano Alejandro Iñárritu si conferma uno dei registi di maggior talento del panorama cinematografico mondiale e forse nella notte degli Oscar confermerà anche il ruolo di portafortuna hollywoodiano della mostra di Venezia. Il suo film aveva inaugurato l’ultima edizione, proprio come “Gravity” del suo fratello artistico Alfonso Cuarón aveva aperto la precedente, prima di fare il pieno di statuette. Con simili premesse è probabile che al prossimo festival del Lido assisteremo a una corsa dei produttori per aggiudicarsi la serata inaugurale. Se fossero tutti del livello degli ultimi due, per Alberto Barbera sarà un dramma dover scegliere. Curzio Maltese Repubblica.it

RECENSIONE 2 
Riggan Thompson è una star che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità non gli basta, Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore. Decide allora di lanciarsi in una folle impresa: scrivere l’adattamento del racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, e dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway. Nell’impresa vengono coinvolti la figlia ribelle Sam, appena uscita dal centro di disintossicazione, l’amante Laura, l’amico produttore Jake, un’attrice il cui sogno di bambina era calcare il palcoscenico a Broadway, un attore di grande talento ma di pessimo carattere. Riuscirà Riggan a portare a termine la sua donchisciottesca avventura?
Dopo il tuffo negli abissi della disperazione di Biutiful, capolavoro poco apprezzato dal grande pubblico, il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera. Temi principali sono l’ego, in particolare quello maschile, e l’incapacità di distinguere l’amore degli altri dalla loro approvazione. Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo? Inarritu scandaglia l’animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima, ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all’interno dei quali gli attori recitano senza inerruzioni come su un palcoscenico teatrale, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l’azione alla strada, e dentro e fuori i camerrini, i corridoi, il backstage del teatro stesso. In un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli.
Il paragone con Robert Altman è inevitabile: i piani sequenza (come quello iniziale de I protagonisti), l’adattamento da Carver (come in America Oggi), la messa in ridicolo corale del mondo dello spettacolo (Nashville, I protagonisti, Radio America). Come è altmaniana la visione da insider della Hollywood contemporanea, in particolare quella dei franchise dedicati ai supereroi, “pornografia apocalittica” responsabile dell’infantilizzazione irreversibile del pubblico.
Birdman è anche un capolavoro di metacinema: il protagonista è quel Michael Keaton che deve la sua celebrità all’interpretazione di Batman (ma che è anche un grande attore, come dimostra appieno nel film di Inarritu); è più volte citato The Avengers, il film cui Edward Norton, che in Birdman ha il ruolo del prim’attore, ha rifiutato di partecipare nei panni di Hulk, dopo aver litigato con la produzione del film sul gigante verde. E c’è una scena in cui Inarritu fa ciò che Hollywood vorrebbe da ogni regista, dopo aver fatto per tutto il resto del film ciò che Hollywood detesta (tranne la notte degli Oscar): infiniti virtuosismi registici, dialoghi interminabili, mancanza di un eroe immediatamente identificabile.
Birdman è apparentemente privo di montaggio (o meglio: il montaggio è molto attento a “non interrompere un’emozione”) il cui ritmo è dato da una pianificazione meticolosa, una inarrestabile agilità nei movimenti di macchina, una recitazione rocambolesca, un incalzante rullo di batteria che accompagna tutte le azioni che coinvolgono Riggan. Ed è un esperimento in linguaggio cinematografico coraggioso e spaccone, reboante e ridondante, eccessivo ma funzionale alla storia che narra. Inarritu racconta l’uomo (e in particolare il maschio) nella sua fragilità e contraddizione, nei suoi sogni di gloria e le sue delusioni di vita. Racconta la presunzione, ma anche la vulnerabilità, di ogni artista, o anche di chi crede di esserlo ed è costretto a confrontarsi con l’evidenza contraria. Attraverso lo sguardo di Riggan, il regista commenta su tutta la società contemporanea, sul “genocidio culturale” in corso e sulla prevalenza fagocitante dei social media, creatori di una nuova forma di ambizione, quella di diventare virale, e una nuova forma di delusione, quella di credere che milioni di contatti equivalgano ad un singolo attestato di stima.
Il risultato è un film magmatico (e in questo senso perfettamente “almaniano”) che è un piacere per gli spettatori, gioiosamente ridondante e tracimante vita ed ambizione. Nella sua bulimia creativa Inarritu inanella troppi finali, ma è difficile biasmiarlo per la volontà di dire troppo invece che tutto, ricordando che chi rischia cammina sempre sull’orlo dell’abisso. Paola Casella MYMOVIE

 

VIDEO

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Guarda mi disegno

confdise

L’Istituto Comprensivo Galilei e il Comitato Genitori organizzano:

Guarda, mi disegno

Conferenza – mostra con proiezione di immagini

a cura del Prof. Angelo Croci

13 marzo 2015 – ore 21.00
Villa Truffini, Corso Bernacchi – Tradate

CLICCA QUI PER SCARICARE IL VOLANTINO

EVENTO CONFERENZA SU FACEBOOK

 

LA CONFERENZA:

Il disegno infantile è un vero e proprio linguaggio che ci insegna molto sui modi di comunicare, sull’espressività e sull’esuberante gioia di vivere dei bambini.  Nel disegno, infatti, il bambino proietta i suoi stati d’animo, i suoi bisogni, il suo mondo interiore, le sue speranze, le sue gioie, le sue sicurezze, le sue paure, le sue angosce. Attraverso il disegno il bambino narra vicende vissute o immaginate, trasfigura la realtà, se ne impadronisce, mostra le proprie conoscenze e ragiona su di esse.

La conferenza guarda, mi disegno vuole essere un’ importante occasione per genitori, insegnanti ed educatori, per svelare meglio i misteri di questo linguaggio, perché “Il disegno di un bambino è un po’ della sua anima” (E. Claparéde).

Professore Angelo Croci Pedagogista,  Critico d’arte e cinematografico. Esperto dei linguaggi dell’infanzia

LA MOSTRA:

Durante la conferenza e fino al 15 marzo si potrà visitare una mostra di disegni fatti da bambini dai 3 ai 10 anni.

INFORMAZIONI UTILI:

La conferenza, è rivolta a genitori, insegnanti, operatori psicosociali ed educatori. La partecipazione è gratuita. A chi ne farà richiesta verrà rilasciato un attestato di partecipazione.

Per i bambini presenti è previsto un servizio di babysitting in loco curato da La Banca del Tempo e dei Saperi.

Per info e per richiedere attestato: comitatogenitorigalileitradate@gmail.com

COLLABORAZIONI E ADESIONI:

( Chi è interessato a collaborare può inviare una email a comitatogenitorigalileitradate@gmail.com )

Con la collaborazione dell’Associazione di solidarietà familiare “Genitori quasi perfetti” e l’adesione di: AGEV, Asilo Nido Baby Gioc Tradate, Ass. L’Aquilone Tradate, Banca del Tempo e dei Saperi Tradate, Comitato Genitori del Collegio Arcivescovile  Bentivoglio Tradate, Comitato Genitori Venegono S., Coop. Baobab Tradate, Fond. Asilo Infantile Abbiate Guazzone, Scuola Materna Fondazione Carlo Saporiti  Tradate, Amici dell’Asilo di Abbiate

 

NON E’ PIÙ COME PRIMA. Elogio del perdono nella vita amorosa

perdono

Autore: Recalcati Massimo
Titolo: Non è più come prima
Sottotitolo: Elogio del perdono nella vita amorosa

Editore: Raffaello Cortina Editore

Pagine: 160
Anno: 2014
Prezzo: 13,00€

Indice

1) Riassunto

2) Note autore

3) Intervista

4) Video

 

1) RIASSUNTO:

Questo libro si interessa dell’amore che dura, delle sue pene e della sua possibile redenzione. Non si occupa degli innamoramenti che si esauriscono nel tempo di una notte senza lasciare tracce. Indaga gli amori che lasciano il segno, che non vogliono morire nemmeno di fronte all’esperienza traumatica del tradimento e dell’abbandono. Cosa accade in questi legami quando uno dei due vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade poi se chi tradisce chiede perdono e, dopo aver decretato che non era più come prima, vuole che tutto torni come prima? Dobbiamo ridicolizzare gli amanti nel loro sforzo di far durare l’amore? Oppure possiamo confrontarci con l’esperienza del tradimento, con l’offesa subita, con il dolore inflitto da chi per noi è sempre stato una ragione di vita? Questo libro elogia il perdono come lavoro lento e faticoso che non rinuncia alla promessa di eternità che accompagna ogni amore vero.

2) L’AUTORE

Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia, è membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Nelle nostre edizioni ha pubblicato con successo L’uomo senza inconscio (2010), Cosa resta del padre? (2011) e Ritratti del desiderio (2012) –

3) RECENSIONE

Il pregio del volume di Massimo Recalcati «Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa», Raffaello Cortina Editore, è quello di trattare con tono scorrevole, chiaro e convincente questioni che hanno, in un modo o in un altro, in maniera più o meno intensa e coinvolgente, riguardato la vita di molti di noi: l’amore e il perdono.

Quello che emerge come prima cosa dall’analisi di Recalcati, fra i più noti psicanalisti italiani, è che pochi sentimenti muovono il mondo come l’amore.
Forse il più potente di tutti. Il cui centro, nell’inspiegabilità e casualità di un’emozione così forte si trova, a mio parere, nella citazione che l’autore fa da Sartre, per cui la vera gioia dell’amore sta nel fatto che: «per via dell’amore dell’Altro, io vengo salvato dalla mia fatticità, che, in altri termini, io non esisto più per caso, privo di senso, non sono più “di troppo” nel mondo, la mia esistenza non è qui per niente, ma diventa il “senso” della vita dell’Altro, ciò che dà significato a quella vita e che da quella vita attinge reciprocamente il suo significato. È questa la gioia dell’amore quando c’è. La mia esistenza, che non è mai il fondamento di se stessa, una volta amata si trova ad esistere perché è voluta dell’Altro nei suoi minimi particolari, per “tutto”».

Da questa asserzione così intensa e bella nascono tutta una serie di questioni, fra cui quella del perdono quando qualcosa si inceppa o si rompe nella vita amorosa che si voleva per sempre («se l’amore salva la vita associandola al senso, la perdita dell’amore la rigetta nella violenza primitiva del non-senso» scrive Recalcati). È possibile questa opzione?
L’operazione è lunga ci spiega l’autore, ed è un lavoro su se stessi che deve andare in profondità ma lo stesso ci avverte che: «può essere impossibile perdonare perché non si vuole venire meno alla grandezza dell’incontro che si voleva per sempre […] L’impossibilità del perdono può essere grande come il perdono».
L’analisi affronta anche il dramma della violenza sulla donna e del femminicidio. Recalcati descrive come uomini e donne «parlino» due «lingue differenti»: «La lingua straniera della donna può far innamorare o imbestialire gli uomini […] Il carattere straniero della lingua delle donne […] si rifiuta all’alfabeto fallico fondato sul dominio ottuso dell’avere e della proprietà». È quando questa incomprensione diventa intolleranza che scatta la violenza.
Egli parla di una assenza di cultura negli uomini: «Il rifiuto di apprendere la lingua straniera delle donne mostra come la violenza dei maschi verso le donne sia sempre senza cultura in questo senso profondo […] L’assenza di cultura consiste nel rifiuto pervicace di apprendere l’alfabeto dell’amore».
L’autore tocca argomenti che potremmo definire archetipici ma di una importanza straordinaria. E parlando dell’amore e del perdono non può, e non vuole, eludere il messaggio evangelico dell’amore gratuito (come sono tutti gli amori veri) di Dio incarnato attraverso il suo unico figlio verso l’uomo; fino all’esempio sommo di perdono: quello esercitato da Gesù verso l’adultera (definito in maniera molto significativa).
D’altra parte dalla potenza eterna dell’amore di Dio verso suo figlio si passa mutatis mutandis al fatto che, scrive Recalcati, l’esigenza che sia per sempre, presente in ogni vero grande amore, affermi: «in modo inattuale che il legame d’amore non è affatto destinato a dissolversi nel tempo, ma che in esso fa la sua apparizione la sospensione del tempo come figura irruente dell’eterno».
Attraverso l’amore l’eterno entra nello scorrere del tempo, quasi lo ferma, determinando cioè l’aspirazione di tutti alla continua ripetizione di quell’attimo, di quel momento così forte, così penetrante e così bello, dove il mondo non è più visto, ci ricorda l’autore, nella prospettiva dell’Uno ma in quella del Due. Da ciò tutto proviene e ogni cosa si muove sia a livello personale che comunitario (può l’amore, in forza di tale diade, essere considerata una categoria politica ?). Fatto sta che, parafrasando Dante, da ciò si mettono in movimento il sole e l’altre stelle….e non se ne può fare a meno. europaquotidiano.it

 

4) INTERVISTA:

Come mai un libro sul perdono? E’ un momento storico-sociale in cui questo concetto trova un senso più che in altri momenti?
“La vita amorosa attraversa di continuo il continente impervio del perdono. Non c’è coppia che non sia passata da questa strettoia. Perdonare e non perdonare? Soprattutto quando c’è in gioco il trauma del tradimento. Ecco, il perdono nella vita amorosa è un modo per ridare vita a qualcosa che il trauma del tradimento e dell’abbandono ha reso morto. Non a caso la cultura cristiana e anche Francesco I fanno del perdono la virtù più grande e specifica di Dio e dell’amore. Saper perdonare avvicina gli uomini a Dio? Può essere. In un mondo come il nostro fatto di odio e di invidie feroci l’accesso al perdono appare come un percorso faticosissimo ma capace di dare una gioia misteriosa…”.

L’amore “per sempre” è un’utopia?
“Che l’amore per sempre vada ridicolizzato è un’altra tendenza del nostro tempo. Gli amori vanno e vengono, si sciolgono come la neve al primo sole. Sono amori liquidi direbbe Baumann. Il contrario dell’amore destinato all’eternità. Sono amori che non sanno durare. Certo si potrebbe anche chiedersi se in un amore è più importante durare o consumarsi… In ogni caso questo libro è un grande elogio all’amore che sa resistere alla corruzione del tempo, all’amore che sa durare. Io diffido dell’idea che sembra egemone nel nostro tempo che i legami affettivi che durano nel tempo sono destinati a spegnere il desiderio. L’esperienza dell’amore realizza esattamente il contrario: più l’amore dura più il desiderio, anche erotico, è vivo. Noi viviamo invece nella menzogna che la sola cosa che conti sia il godimento fine a se stesso. Non il mondo vissuto insieme ma il mondo goduto dall’Uno”.
Se esistono quali sono le modalità per far resistere un rapporto agli acadimenti della vita?
“L’amore che dura è l’amore che vuole vivere ancora. Non sopravvivere. Lacan definiva la parola d’amore più alta quella che recita: “ancora”. Ancora come adesso, ancora come oggi, ancora te, ancora te per sempre. Ancora non esige il ricambio del vecchio oggetto per il nuovo – come accade nella logica del capitalismo – ma mostra che il Nuovo è nel rinnovare l’amore nello Stesso. Se questo miracolo esiste allora l’amore dura e non si lascia consumare”.

Ma l’uomo è naturalmente monogamo?
“L’uomo non è un ente naturale. Gli istinti non sono per lui una bussola infallibile. Oggi i neuroscienziati che si sono occupati di questi temi ci dicono che l’ebbrezza provocata dal primo incontro può durare al massimo 18 mesi… Poi è destinata a calare. Io credo che l’intensità dell’amore non dipenda dai livelli di dopamina, ma che si rinnovi a meno dalla forza del rapporto stesso. Se la fedeltà è una postura dell’amore per sempre a volte sappiamo bene – gli psicoanalisti si occupano anche di questo – che può diventare essa stessa una camicia di forza. Non è mai il caso di chi abbraccia la monogamia come una fede. Soprattutto quando questa richiede sacrificio inutile”.

Il tradimento può assumere un valore positivo? Può essere di qualche insegnamento per la coppia?
“Il tradimento che avviene in una coppia legata dall’amore è un trauma per chi lo subisce. Nel mio libro parlo diffusamente di questo attraverso la storia di O. Il problema che mi pongo è se quando chi ha tradito e ha rotto il patto chiede di essere perdonato diventa possibile rilanciare il rapporto o il rapporto che si è rotto non può più aggiustarsi… Il tradimento è un trauma che solleva braci antiche, altri traumi, più primari… E’ il caso di O. che tradito dalla moglie rivive l’esperienza dell’abbandono che aveva già conosciuto agli esordi della sua vita…” Virginia Perini

5) VIDEO

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LO ZAINO DI EMMA

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LO ZAINO DI EMMA

Fuga Martina

Editore Mondadori Electa

Pubblicato 17/11/2014

Pagine 141

 

   indice

1) Sinossi

2)L’autrice

3)Intervista

4)pagina facebook e sito

 

1)Sinossi

“Molti pensano che la disabilità di un figlio sia un dono, ma chiedetelo ai nostri figli. La sindrome di Down non è un dono, mia figlia è un dono, ma per com’è lei, non per la sindrome. Non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe se… e non me lo chiedo per me, me lo chiedo per lei! Io di quello zaino sulle spalle di Emma posso anche farmi carico, ma fino a che punto? Non posso portarlo io al suo posto! Un giorno lei vorrà toglierselo quello zaino e io dovrò spiegarle che non è possibile. Quel giorno sarà il più difficile della mia vita.” Martina Fuga, mamma di una bimba con sindrome di Down, racconta la sua storia di vita possibile. Ricordi, episodi, riflessioni si snodano lungo il percorso di accoglienza della disabilità della figlia iniziato quasi dieci anni fa. Nelle istantanee di vita narrate in una prosa asciutta ed essenziale si alternano difficoltà e conquiste, dolore e coraggio, paura e fiducia nel futuro, in un equilibrio delicato che la vita spesso impone. Lontano da intenti buonisti, spietato come la verità sa essere, Lo zaino di Emma racconta lo straordinario rapporto che lega una madre a una figlia e offre spunti di riflessione a chiunque si interroghi sul senso vero della vita.

2) L’autrice

Martina Fuga è nata a Venezia, si è laureata in Lingue Orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è stata direttore generale di Arthemisia, una società di produzione mostre. Ha organizzato tra le altre le mostre di Hokusai (Milano 1999), Rothko (Roma, 2007), Hopper (Milano, 2009). Dal 2010 è professore a contratto del Master “Progettare cultura” dell’Università Cattolica di Milano e dal 2012 amministratore di Artkids, un progetto che si propone di avvicinare i bambini al mondo dell’arte.

Dal 2012 collabora con Ballandi Arts alla redazione di documentari d’arte in onda sui SkyArte. Appassionata di running, è sposata con Paolo Orlandoni, portiere dell’Inter, da cui ha avuto tre figli Giulia, Emma e Cesare. Emma è affetta dalla sindrome di Down e l’esperienza di questa maternità, che Martina vive con passione e amore, l’ha portata ad impegnarsi nel mondo dell’associazionismo – è presidente di Pianetadown Onlus, membro del comitato di gestione del CoorDown, e consigliere di AGPD Onlus Milano – e a raccontare la sua storia. È autrice della pagina facebook Emma’s friends e del blog Imprevisti

3) Intervista

Cosa l’ha spinta a scrivere il libro “Lo zaino di Emma”?
In verità sono state due le spinte, una dall’interno e una dall’esterno.
Ho sempre scritto, scrivevo di me, dei miei pensieri e delle mie emozioni. Per lo più per mettere ordine dentro di me e per fissare ricordi, ma quando è nata Emma la cosa è diventata quotidiana, era una specie di terapia autogestita. Avevo una matassa nello stomaco da districare, una rabbia da gestire, emozioni da contenere… E l’ho fatto attraverso la scrittura. Questi fiumi di parole ad un certo punto ho cominciato a condividerli su facebook e poi sul blog e il confronto che le altre persone, spesso sconosciute, mi ha fatto un gran bene e molti di loro mi hanno dato riscontri altrettanto positivi.
Ma la spinta esterna è stata la vera ragione per cui oggi “Lo Zaino di Emma” è in libreria: è stato infatti l’editore Mondadori Electa nella persona di due persone eccezionali che mi hanno chiesto di scrivere il libro. Io avevo grossi dubbi, lo trovavo inutile e anche un po’ esibizionista, ma poi proprio in quei giorni ho incontrato una neo-mamma che mi disse che le cose che aveva letto su facebook e sul blog la stavano aiutando molto, così mi sono ricordata delle letture che avevo fatto alla nascita di Emma e di quanto sostegno, fiducia e coraggio mi avessero dato nell’entrare in quel mondo. Così ho colto l’occasione …

 

A chi consiglierebbe il libro?
Beh non dovrei dirlo io… io pensavo di scrivere per un pubblico ristretto, diciamo familiari di persone con sindrome di Down, ma mi sono resa conto dalle lettere che ricevo che è un libro per genitori in generale, in fondo non parlo solo di Emma, parlo anche molto dei suoi fratelli e della mia esperienza di mamma in generale. Poi ho una speranza… che lo leggano più persone possibili, non tanto per il successo del libro che non è la ragione per cui l’ho scritto, ma perché vorrei che tutti sapessero cos’è davvero la sindrome di Down e come si vive con un figlio disabile, perché mia figlia ma con lei tutti i ragazzi con disabilità possano essere guardati senza pregiudizi.

 

Cosa ha pensato quando ha saputo che Emma aveva la sindrome di Down?
Lo racconto a fondo nel libro, ora è davvero difficile sintetizzare il tutto in poche parole, ma all’inizio io ero solo preoccupata della salute, mi avevano fatto un quadro complicato di potenziali patologie connesse alla sindrome e io temevo che Emma non stesse bene, ma la vita è stata generosa con lei e le ha dato un’ottima salute sin dal primo giorno.
La notte mi sono persa in pensieri bui, pensavo a tutto quello che non sarebbe stata a quello che non sarebbe stata capace di fare, ma mi sbagliavo, oggi posso dire che sono davvero poche le cose che gli sono state precluse a priori a causa della sindrome! in futuro, vedremo…

 

Emma ha trovato o trova difficoltà fuori dalle relazioni familiari?
Emma vive un contesto di relazioni molto ricco, a scuola, in famiglia, nelle attività sportive ed è circondata da tante persone che la conoscono, le vogliono bene e la sostengono, e direi anche la proteggono, quindi faccio fatica a parlare di difficoltà. Le difficoltà più grandi insorgono per lo più fuori del nostro contesto, in vacanza o quando usciamo da ambienti che frequentiamo abitualmente. Emma ha una significativa difficoltà nel linguaggio e quindi spesso la prendono in giro o le fanno notare di non capirla e per lei, che ci mette tanto impegno per esprimersi, è molto frustrante.

 

 “Una gioia immensa!…Emma era finalmente tra le mie braccia”, leggendo il libro emerge molto forte che sua figlia è una “forza della natura” capace di dare molto nella relazione con la madre, ma cosa riceve Emma di prezioso ogni giorno dalla madre?
Non so davvero rispondere… Io ci sono e questo è tutto. Credo sia molto ma mai abbastanza. Credo che nessun genitore sia mai abbastanza per i suoi figli. Mi guardo intorno e credo che facciamo tutti sempre e solo del nostro meglio, ma i nostri figli hanno bisogno di molto di più, tutti. Più sguardo addosso, più abbracci, più giochi insieme, più spazio dentro di noi… Credo che dovremo aspettare qualche anno e chiederlo ad Emma.

 

Lei ha scritto che considerava Emma bisognosa di tutte le sue attenzioni, pensa che Giulia e Cesare si siano sentiti in qualche momento non al centro delle attenzioni materne?
Sì, purtroppo sì. Cesare soprattutto che è nato 15 mesi dopo Emma, ma anche Giulia che siccome è grande viene sempre dopo oppure può fare da sola. Purtroppo con questo senso di colpa conviverò per il resto dei miei giorni anche perché i figli sono cartine di tornasole e te ne accorgi presto quando si sentono invisibili. Ma si fa del proprio meglio e ho imparato a ritagliarmi spazi esclusivi per tutti i miei figli e dare ad ognuno le attenzioni che desiderano. Poi penso che avere dei fratelli insegni soprattutto questo: condividere. Condividere spazi e cose, ma anche amore ed è un valore importante da imparare.

 

Quando Emma ha visto il libro cosa ha detto?

Ha fatto uno dei suoi sorrisi sornioni e ha detto: “Lo sapevo!!!”
Fa così quando è in imbarazzo e vuole togliersi dall’imbarazzo. Le avevo accennato al libro e, barando, le ho detto che avevo scritto un libro sulla nostra famiglia e un po’ di più su di lei e per questo l’avevo messa in copertina, ma lei ha dei momenti di assoluta consapevolezza, molto di più di quanto io mi aspetti e ha sorriso come per dirmi: “non me la racconti…”
Ora la cosa la diverte, si sente un po’ una star e firma autografi nel cortile della scuola. Non è quello che volevo, ma è una cosa che non posso controllare, spero solo che piano piano finisca e soprattutto che lei un giorno non si dispiaccia che io lo abbia fatto.

 

Quanti anni ha adesso Emma e cosa fa di bello?
Emma ha 9 anni e mezzo, frequenta con soddisfazione la IV elementare e un corso di danza. Nuota come un pesce, ma non ha ancora imparato ad andare in bicicletta! Sorride sempre, è forte, determinata e piena di fiducia verso la vita. E’ una ragazzina felice questo mi sento di dirlo, ha una vita ricca di amore e di complicità con i suoi fratelli e i suoi amici. Spero solo che fra qualche anno potrò continuare a dirlo…

 

4) Pagina facebook e sito

pagina facebook Emma’s friends

Blog IMPREVISTI

Mommy

MOMMYMommy

Un film di Xavier Dolan.

 Ratings: Kids+16,

durata 140 min. – Francia, Canada 2014.

 

 

 

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. SCENE DEL FILM

 

1) SINOSSI

Una madre vedova, allevando da sola il figlio, un turbolento quindicenne , trova nuova speranza quando una vicina misteriosa si inserisce nella sua famiglia.

 

2) RECENSIONE
Mommy è la storia di un rapporto madre-figlio, un amore fusionale, totale e ovviamente melodrammatico, tra un ragazzo con un bel po’ di problemi caratteriali e una donna vedova, single e nevrotica. I due vanno a vivere insieme in una nuova casa in un quartiere povero, un suburbio di un’anonima città del Quebec, litigano furiosamente e altrettanto furiosamente fanno pace, conoscono la vicina di casa – un’insegnante in anno sabbatico, ipersensibile al limite dell’implosione ma affettuosa – che diventa una sorta di presenza organica di questa famiglia di strambi allegri infelici.

Qualche giorno fa sono andato a vedere Mommy; era il secondo o il terzo giorno di programmazione, sono entrato allo spettacolo delle 22.20 in un cinema medio grande romano. Ero con due miei amici, e in tutto il cinema c’erano altri cinque spettatori. L’odore dei popcorn lasciati sul pavimento da quelli dello spettacolo delle 20 faceva sembrare ancora più triste un cinema così vuoto, come mi rendevo conto che era abbastanza deprimente – oltre che insensato – vedere Mommy doppiato (nonostante la bravura dei doppiatori) e non nel francese québécois; ma nelle otto sale dove era proiettato a Roma, non ce n’era nessuna che lo dava in versione originale.

Nonostante tutto ciò, è difficile non considerare – lo fanno tutte le top ten – Mommyuno dei migliori film dell’anno, un quasi capolavoro, un’opera incredibile se si considera che il regista Xavier Dolan è uno che ormai è perfino stucchevole reputare un enfant prodige (a 25 anni ha realizzato cinque film non così piccoli, uno più bello dell’altro, il primo a 19 anni su una sceneggiatura scritta a 17) ed è difficile non ammettere la bellezza di Mommy fin dal primo minuto.

Ossia fin da quando Dolan decide di restringere lo schermo a un quadrato. Una dimensione 1:1 invece di un 4:3 o di un 16:9, due barre di nero al lato dunque che producono subito due effetti. Primo, farci sentire attraverso questo piccolo stratagemma il senso di artificio rispetto a quello che stiamo vedendo; secondo, stringere il fuoco intorno agli attori come a volerli placcare – una camera piazzata addosso.

Da questo quadrato e da una scritta in sovraimpressione parte Mommy. Nella scritta in sovrimpressione si dice che siamo nel futuro prossimo (giusto il 2015) di un Canada appena appena distopico, dove è possibile per genitori con figli problematici affidarli a (leggi: internarli in) ospedali psichiatrici appositi. Questo duplice artificio – visivo e narrativo – compie una magia: riesce a rendere per contrasto immediatamente vitale, iperrealistico, quello che accade nel quadrato.

E dentro la cornice del quadrato c’è tutto. Subito: ci sono luci che entrano in campo in modo invadente, riverberando come una pioggia solare (siamo dalle parti di Terrence Malick, per capirci). E c’è appunto il corpo di DDD, Diane “Die” Després – una donna senza lavoro, sfortunata, spiccia, arrogante, cafona – che si va a riprendere suo figlio Steve da una specie di riformatorio: suo figlio iperattivo, ingestibile, che ha appena massacrato di botte un compagno. Che farne di questo figlio impossibile? Quando lo vediamo comparire in scena, un clamoroso Antoine-Olivier Pilon, capiamo che la risposta di Diane può essere solo una: rimanere soggiogati dalla sua invadenza. Lei lo ama alla follia, lui ricambia. Più edipici di qualunque Edipo, si insultano e si abbracciano, si stuzzicano e si giurano amore eterno, si picchiano e si perdonano. (“Ma noi ci amiamo ancora, vero?” “Certo, è la cosa che ci riesce meglio”).

Basterebbero i loro bisticci continui, le risate spanciate, le voci urlate, a ingombrare tutto il film, come accade a Diane e Steve con il loro appartamento messo a soqquadro una scena sì e una no, e come accade a noi spettatori distratti dalla recitazione esplosiva di Anne Dorval e Antoine-Olivier Pilon. Ma poi dentro il quadrato, Dolan sa che può osare, e inserire tutto ciò che ha a portata di mano. Quindi, come a saturare lo spazio disponibile, getta dentro da subito un sonoro sporco e onnipresente (rumori di chiavi, chiacchiericcio, traffico…) e una presenza musicale schiacciante, autoradio in sordina e volumi che si alzano e si abbassano e stereo a palla che si sovrappongono a altre fonti musicali e alle volte si sovrappongono anche a una colonna sonora già di suo invadente, cafonissima, iper-pop: i brani più sputtanati di Craig Armstrong, Dido, Counting Crows, Lana Del Rey, Oasis. (qui un’intervista sul rapporto con la musica di Dolan).

Ma tutto questo eccesso – la recitazione iperemotiva, la camera attaccata ai corpi (più di Gus Van Sant, più dei Dardenne, più della televisione-verità), i grandangolari, i primissimi piani, sequenze di volti come una serie continua di fototessere, campi e controcampi quasi da soap, la musica a cascata… – ancora non basta a Dolan per creare una sua estetica compiuta e ammaliante. Occorre la fotografia di André Turpin, che satura anche lui: gli esterni allagandoli di luce solare che alle volte ci mostrano una sorta di apocalisse tropicale in Canada, e le scene d’interni virandole al verde, al giallo ocra, al rosso, al dorato, al blu elettrico… Oppure, come una specie di scommessa da genio, reinventandosi completamente i toni del film in una scena in cui si dice che è appena avvenuto un black-out e i personaggi si muovono in una penombra bluastra.

E ancora: una sapienza di montaggio (sempre Dolan, che firma regia, sceneggiatura, produzione, costumi, e montaggio appunto) per cui i non detti, le elisioni, le omissioni sono lasciati alla sceneggiatura, mentre se c’è qualcosa che ci viene mostrato, noi lo ipervediamo. Clinicamente, senza pudore. Ed ecco per esempio l’uso, l’abuso del ralenti, che è una cifra stilistica di Dolan (qui e qui un paio di meravigliosi esempi presi anche dai suoi precedenti film)

Perché accade tutto questo in Mommy e non ci sembra di avere a che fare con un prodotto kitsch o addirittura con il bluff di un bravo videoclipparo?

Nelle interviste dopo Cannes, dove ha vinto il premio speciale della giuria ex aequo con Jean-Luc Godard, Dolan recitava onestamente la parte di quello che non ha mai visto i film di Fassbinder o Cassavetes (a cui viene facile, è vero, di accostarlo) e che con grande naturalezza dichiara che Godard non ha praticamente nessun posto nella sua ispirazione, occupata da gente come Jane Campion o Wong kar wai ma anche e soprattutto da Peter Jackson e da James Cameron, le scene iniziali delSignore degli anelli o quelle sul ponte del Titanic i suoi feticci.

E allora, come è possibile che da queste naïveté, da questo consumista radicale di immagini, possa venire fuori un lavoro così raffinato? Dolan è seduttivo e geniale perché arriva a ridefinire che cos’è il pop, e lo fa come se la storia del cinema non esistesse e fosse stata sostituita da una specie di continua rappresentazione diffusa: lì il suo inconscio si è formato, tra i riferimenti commerciali degli anni novanta.

E da regista cresciuto nel mondo di YouTube e film in streaming, non ha soggezione nei confronti di nessuno, né desiderio di emulazione. Dolan è più libero di quella generazione di registi iconoclasti come Tarantino e Almodóvar, perché non rielabora, non usa il grottesco, o l’ironia, e non rovescia nemmeno il melò per rifarlo in salsa gay. Dolan letteralmente dilaga, è bulimico, incontenibile, fa tutto, e vuole tutto. Questa è la sua forza.

Ci sono tre scene – e qui spoilero un bel po’ – in cui questa potenza dilagante, questo debordamento estetico arriva a inondare lo spettatore, che a quel punto o si ritrae oppure si lascia sommergere. La prima arriva quando Steve in skate e le due donne, Die e Kyla, la vicina (Suzanne Clément, strepitosa anche lei), in bici escono per il quartiere; la camera li segue incalzata dalla musica (Wonderwall, Oasis) che batte sullo schermo e lo deforma letteralmente: Steve allarga le braccia e per un istante il formato quadrato si apre e ingloba tutto. Vi sarà capitato in vita vostra di volervi mangiare il mondo?

Il coraggio formale di Dolan, il suo sostanziale fregarsene di regole che non rispondano a un’emotività dello sguardo, opera un meraviglioso errore di grammatica cinematografica: la musica diegetica diventa extradiegetica. Ciò che potrebbero sentire solo loro tre a un certo punto diventa ciò che potremmo sentire solo noi spettatori.

La terza è quando Steve accompagna la madre a un appuntamento con un uomo in un locale dove fanno il karaoke e Steve decide di cantare Bocelli, Vivo per lei, mentre una gelosia bruta, terminale, distruttiva se lo divora nota dopo nota. (Qui capite bene, il non-senso del doppiaggio raggiunge delle vette quasi comiche).

In questi tre momenti la richiesta che Dolan fa allo spettatore non è più il suo coinvolgimento, ossia l’adesione a un’estetica febbrile. Ad un certo punto, io ho sentito che Dolan voleva essere amato, che noi quattro gatti in sala gli restuissimo l’amore che lui stava dando senza risparmio ai suoi personaggi, complicati e spesso detestabili, ma di una fragilità tale da non poterci permettere nessun distacco nei loro confronti. Si sono affidati completamente a noi.

E perché questo? A che serve quest’amore? Per poterlo avere alla nostra portata in una scena verso il finale, quando Die è rimasta sola, in casa, senza Steve e senza Kyla, quando questa saturazione che abbiamo visto per due ore si rovescia nel suo ovvio opposto: un senso di solitudine infinita e agghiacciante. Una casa deserta senza un suono, con una luce troppo neutra.

Mommy che fino a un secondo prima ci poteva sembrare uno struggente melodramma con un juke-box sotto, ci rivela il suo carattere invece di cinema sociale: più Ken Loach che Baz Luhrmann. E capiamo che Dolan non voleva fare un film solo su un devastante rapporto madre-figlio, ma provare a pensare come la crisi economica delle famiglie dal reddito basso monoparentali porti una sorta di distopia di massa, in cui i disagi sociali vengono oggi farmacologizzati e in futuro prossimo magari ospedalizzati. Tutte le famiglie infelici finiscono per assomigliarsi, con le stesse prescrizioni terapeutiche.

Per questo ci viene da amare Die. Anne Dorval è un mostro di bravura e le dipinge sul volto di una smorfia terribile, un raggrumarsi dei nervi che si tiene senza esplodere in una tensione spaventosa. Per un attimo ogni artificio scompare, e vediamo solo il vuoto.

Una performance attoriale così intensa della disperazione recentemente l’ho vista forse incarnata da Juliane Moore in Maps to the stars o da Naomi Watts inMulholland Drive o, per andare più indietro, da Gena Rowlands in Una moglie. Ma qui stiamo già citando John Cassavetes, e Dolan giustamente mi farebbe una pernacchia. Christian Raimo internazionale.it

 

 

3) TRAILER

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I sospiri del mio cuore

I sospiri del mio cuore

I_sospiri_del_mio_cuore

di Yoshifumi Kondo, Hayao Miyazaki. genere: Animazione Ratings: Kids  durata 111 min. – Giappone 1995.

INDICE:

1) Trama

2) Recensioni

3) video

Trama
La storia inizia durante le vacanze estive del 1994 a Tokyo e narra di Shizuku, comune studentessa delle medie con una normale famiglia: padre, madre e sorella universitaria. Shizuku è appassionata di romanzi e spesso si reca alla biblioteca di quartiere per prendere in prestito numerosi volumi. Un giorno, nel prenderne in prestito alcuni, si accorge che nella tessera dei prestiti stranamente ricorre sempre un cognome prima del suo: Amasawa, ed incomincia quindi a fantasticare su chi sia questo ragazzo che sembra avere i suoi stessi gusti letterari.

Qualche giorno dopo, durante la sua consueta visita alla biblioteca, incontra sulla metropolitana uno strano gatto e decide di seguirlo; il felino la conduce in un quartiere ordinato e silenzioso sulla collina ed entra in un negozio di antiquariato. L’anziano proprietario mostra alla ragazza alcuni dei tesori del suo negozio, tra cui uno strano orologio e la statuetta di un gatto antropomorfo che chiama Baron. Shizuku fa anche la conoscenza di Seiji Amasawa, il nipote dell’antiquario, che altri non è che la misteriosa persona che leggeva i suoi stessi libri. Seiji ama tantissimo la musica e il vero obiettivo della sua vita è quello di diventare un bravo liutaio. Col passare dei giorni l’amicizia tra Shizuku e Seji si rafforza e approfondisce sempre più finché lui parte per un tirocinio di due mesi a Cremona presso un mastro liutaio per mettersi alla prova ed imparare a costruire violini. Nell’attesa del suo ritorno, anche Shizuku promette a sé stessa di testare le sue abilità scrivendo il suo primo romanzo.

Dopo un colloquio con i suoi genitori decide di non affrontare le superiori, per “mettere alla prova sé stessa”, senza rivelare a nessuno il lavoro che sta svolgendo. Appena finito il romanzo, che ha Baron come protagonista, Shizuku porta il manoscritto all’antiquario, che lo legge e ne rimane soddisfatto. Dopo aver finito il suo racconto, Shizuku decide infine di frequentare le scuole superiori, contenta di ciò che è stata in grado di realizzare e carica per scrivere nuovi romanzi e continuare gli studi. Alla fine del film Shizuku si sveglia nella notte e vede Seiji, che la aspettava in bicicletta. Dopo un viaggio in bici, Seiji porta Shizuku nel suo “posto segreto”, dove i due ammirano la città e il sole nascente. Mentre si svolge lo spettacolo dell’alba, Seiji rivela a Shizuku il suo amore e le chiede se un giorno l’avrebbe sposato, richiesta accettata con commozione da Shizuku.

 

Recensione

 Emanuele Sacchi mymovie
La piccola Shizuku si diletta in poesie e traduzioni dall’inglese, frequentando assiduamente la biblioteca in cui lavora il padre. Incuriosita dal fatto che un tale Amasawa prende in prestito gli stessi libri scelti da lei, Shizuku arriva a conoscere il ragazzo, grazie all’aiuto di uno strano gatto incontrato in metropolitana.
I sospiri del mio cuore è destinato a vestire perennemente i panni di unico lascito del talento di Yoshifumi Kondo, allievo prediletto di Miyazaki Hayao scomparso a soli 47 anni per un malore dovuto a stress da superlavoro. Una tragedia che portò Miyazaki ad allontanarsi per qualche anno dal cinema, afflitto dal dolore della perdita e dal senso di colpa. E che incrementa l’aura di malinconia che pervade il film, acuendo il lato “agro” rispetto a quello “dolce” di un racconto di formazione che mescola con maestria turbamenti dell’adolescenza, etica del lavoro, fede nei propri sogni e quel pizzico di magia che svolge un ruolo cruciale e maieutico nella consapevolezza di Shizuku sul proprio talento. Per Yoshifumi la suggestione di un negozio di cianfrusaglie, capace di attirare l’attenzione di un gatto sornione e di una ragazzina curiosa, è il motore di una svolta nel percorso di vita della protagonista, che si trova a mescolare la scoperta dell’amore e la ricerca della propria identità in un ottundente caos di emozioni. La delicata perizia di Yoshifumi Kondo si traduce in una messa in scena “verista” (più vicina in questo a Takahata Isao, l’altro mentore dello studio Ghibli, che a Miyazaki) della sceneggiatura di Miyazaki, in cui anche il minimo particolare è parte integrante della narrazione, contributo fondamentale alla veridicità del racconto e al potenziale di transfert tra spettatore e protagonista, in un racconto che si rivolge alle gioie e alle paure che accomunano gli adolescenti di ogni latitudine e generazione. La difficoltà di raggiungere un interruttore della luce, la necessità di un kleenex in più per un raffreddore che non se ne vuole andare sono piccoli gesti che contribuiscono al contrasto ossimorico con la sequenza “magica” (ma calata in un contesto onirico) in cui i due gatti magici Baron e Muta guidano Shizuku verso un percorso di crescita a cui manca solo un sentiero di mattoni dorati.
Lo script miyazakiano è immediatamente riconoscibile per alcuni topoi inconfondibili, a partire dalla scelta anagrafica della protagonista fino alla contrapposizione tra il Giappone come terra del Lavoro e l’Europa (specie l’Italia) come terra di Arte e Mistero: contrasto che si amalgama in uno Yin e Yang di sacrificio e talento, esemplarmente incarnati dalle contraddizioni del personaggio di Shizuku. Solo un finale sbrigativo e con ansia da happy end finisce per ridimensionare in parte gli spunti più stimolanti de I sospiri del mio cuore, quelli che si concentrano in un sinistro pre-finale che pare preludere a un futuro di disillusione, se non un presagio di morte, che resta uno spunto suggerito, ma parzialmente incompiuto. Come il talento di Yoshifumi Kondo, purtroppo, prematuramente strappato al cinema di animazione mondiale.
Il film è tratto da un manga (omonimo) di Aoi Hiiragi e i maniaci della Ghibli non mancheranno di apprezzare diversi omaggi celati qua e là al corpus miyazakiano, dalla scritta “Porco Rosso” su un orologio al pupazzo di streghetta che riecheggia la Kiki di Kiki Consegne a domicilio. I due gatti Baron e Muta ritornano come protagonisti in The Cat Returns di Hiroyuki Morita, del 2002.

Recensione

La pellicola, diretta dall’ormai scomparso Yoshifumi Kondô, maestro dell’animazione giapponese, che ha animato serie di successo come “Conan il ragazzo del futuro” e “Anna dai capelli rossi”, racconta la storia di Shizuku, una ragazza di 14 anni impegnatissima con lo studio per gli esami di ammissione al liceo. Shizuku non è come le altre studentesse però: la sua passione sono le storie ed infatti si reca ogni giorno alla biblioteca del suo quartiere per leggere.Macinando un volume dopo l’altro, Shizuku scopre, sbirciando i nomi sulla tessera dei noleggi, che c’è un ragazzo che prende in prestito i suoi stessi libri: Seiji Amasawa. La ragazza comincia quindi a fantasticare su questo Seiji e a domandarsi chi sia.

Un giorno, andando alla biblioteca, Shizuku segue un gatto che la porta ad un negozio di antiquariato: qui fa la conoscenza di un anziano signore che le mostra i suoi tesori, tra cui la statuetta di un uomo con il viso da gatto chiamato Il Barone (lo stesso personaggio che compare nel film “La ricompensa del gatto”, sempre dello studio Ghibli, così come la scritta “Porco Rosso” che si legge su un orologio del negozio che richiama l’omonimo film di Miyazaki, a dimostrazione che non solo la Pixar sa autocitarsi). Per uno scherzo del destino la ragazza viene a sapere che il nipote dell’antiquario è proprio Seiji: tra i due comincia così una timida ed avvincente storia d’amore, fatta di sogni, aspirazioni che sembrano impossibili e musica.

“I sospiri de mio cuore” ha la qualità magica di tutti i film scritti da Myazaki: attraverso i delicati disegni e la narrazione pacata, che si prende tutto il tempo per dare ampio respiro ai suoi personaggi, la storia induce nello spettatore la voglia di tornare giovane, di innamorarsi di nuovo di qualcuno, della vita, delle storie. I film dello studio Ghibli hanno davvero qualcosa di speciale: sanno toccare corde intime attraverso storie apparentemente semplici che in realtà hanno una potentissima carica emotiva. Shizuku, che vuole diventare una scrittrice, e Seiji, che vuole diventare un fabbricante di violini, rappresentano la speranza, l’amore, i sogni acerbi di persone giovani che hanno tutta la vita davanti per realizzare le proprie aspirazioni e prendersi il proprio pezzetto di felicità.

Di storie così abbiamo sempre bisogno. Valentina Ariete