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La scuola non serve a niente

 

UnknownAndrea Bajani

La scuola non serve a niente

Edizione: LATERZA 2014
Collana: i Robinson / Letture
Serie: iLibra

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Descrizione

A cosa serve la scuola? A cosa serve un romanzo? A niente. A che cosa servono gli insegnanti? A niente. O al più: a spostare mobili. Si entra a scuola ammobiliati in un modo, e giorno dopo giorno ci sarà
qualcuno che cercherà di spostare la disposizione di quello che siamo. A questo serve la scuola: a cambiarci la disposizione delle stanze. Nient’altro. Ci servono insegnanti che non rinuncino a farlo. E ci serve uno Stato che a questi insegnanti riconosca questa responsabilità. Nient’altro. Solo a questo ci serve la scuola. Con la capacità di cambiare la disposizione di una stanza si fa tutto: si comincia a pensare che se il mondo è disposto in un modo, e quel modo non ci piace, si può anche cambiare. Fare uscire i ragazzi dalla scuola con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello che hanno consegnato loro, e non solo essere bravi a inserirsi dentro caselle già disegnate: la scuola a questo dovrebbe servire, a non accettare il gioco, a fare domande scomode. È una scelta politica quella di imparare a immaginare. Immaginare, scegliere, inventare delle parole nuove per dare forma nuova al mondo – liberarlo, in qualche modo, dalle parole in cui l’hanno costretto. È una scelta politica, quella di imparare ad accettare che una scuola non serve a niente se non a questo. A spostare mobili, a cambiare la disposizione del mondo.

 

Indice

Prologo
L’era del «Rinuncianesimo»
Separati in casa
Scaldare la sedia
Cosa resta del Prof 35
La scuola non serve a niente
Epilogo
In questione
Massimo Recalcati, Cari professori, non fate gli psicologi,
Marco Lodoli, Addio cultura umanista. Per i ragazzi non ha senso,
Christian Raimo, Ma a qualcuno interessa educare noi insegnanti?,
Mariapia Veladiano, Maestri con la valigia,
Cronache dal fronte

Silvia Dai Pra’, Il primo giorno,
Chiara Valerio, Almeno una regola, per favore,
Marco Lodoli, Insegnare a imparare,
Christian Raimo, Prof, la richiamo,
Silvia Dai Pra’, Argomento a piacere,
I numeri della scuola
Cronologia delle riforme

 

Biografia

Andrea Bajani
Andrea Bajani è nato nel 1975. Con Feltrinelli ha pubblicato Mi riconosci (2013) e La gentile clientela (2013), oltre ad alcuni racconti nella collana digitale Zoom. Tra i suoi libri, Cordiali saluti (Einaudi, 2005), Se consideri le colpe (Einaudi, 2007, Premio Super Mondello, Premio Brancati, Premio Recanati), Ogni promessa (Einaudi, 2010, Premio Bagutta) e La mosca e il funerale (nottetempo, 2012). Per il teatro è autore di Miserabili, di e con Marco Paolini, e di 18mila giorni, Il pitone, con Giuseppe Battiston e Gianmaria Testa. Collabora con diversi quotidiani e riviste. I suoi romanzi sono tradotti in molte lingue.

INTERVISTA DA REPUBBLICA

La scuola? Non serve a niente. Non è solo un diffuso e stucchevole stereotipo, ma anche il titolo dell’ultimo, graffiante libro di Andrea Bajani, arricchito dai contributi, tra gli altri, di Massimo Recalcati, Mariapia Veladiano e Marco Lodoli. La scuola non serve a niente (in vendita in edicola, libreria e qui in formato ebook) è sicuramente una forbita provocazione del 38enne scrittore, che sviscera le lacune dell’istruzione italiana, oggi sempre più abbandonata dagli studenti, come mostrano ricchi video, grafici e statistiche allegati al volume. Ma è anche il denso auspicio di un’istruzione che sia sì focolare di nozioni e conoscenze, ma soprattutto faro brillante di una più lucida lettura del mondo. Affinché alunni e studenti possano dare “un nome alle cose” di questa sfuggente società liquida.

Insomma, Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente»?
“È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto “servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a quello che c’è dentro la scuola”.

E cosa c’è dentro?
“C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra”.

E invece si allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come lo chiama nel libro una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di rinunciatari passivi.
“È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a “disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana. Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità”.

Perdita di autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
“È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”. Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti, alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto: “L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore passaggio fondamentale”.

Quale?
“L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare”.

Invece, l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
“Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento”.

Riforme che tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e responsabilizza gli studenti.
“Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece, si è sviluppata una passività sempre più marcata”.

Per questo lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
“Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose, che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere, per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza il filtro della scuola, è merce senza valore”.

VIDEO PRESENTAZIONE

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Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione

MARIN INSEGNARE A VIVERE

Autore: Morin Edgar

Titolo: Insegnare a vivere
Sottotitolo: Manifesto per cambiare l’educazione

Pagine: 116
Anno: 2015

editore: Raffaello Cortina Editore

Prezzo: 11,00€

 

 

 

Il libro

Sulle tracce di La testa ben fatta e I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Edgar Morin auspica una riforma profonda dell’educazione, fondata sulla sua missione essenziale, che già Rousseau aveva individuato: insegnare a vivere. Si tratta di permettere a ciascuno di sviluppare al meglio la propria individualità e il legame con gli altri ma anche di prepararsi ad affrontare le molteplici incertezze e difficoltà del destino umano. Questo nuovo libro non si limita a ricapitolare le idee dei precedenti ma sviluppa tutto ciò che significa insegnare a vivere nel nostro tempo, che è anche quello di Internet, e nella nostra civiltà planetaria, nella quale ci sentiamo così spesso disarmati e strumentalizzati.

L’autore

Edgar Morin è una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea. Nelle nostre edizioni ha pubblicato, tra gli altri, La testa ben fatta (2000), I sette saperi necessari all’educazione del futuro (2001), La nostra Europa (con Mauro Ceruti, 2013), La mia Parigi, i miei ricordi (2013).

 

 

 

Anticipazione  testo pubblicata su Avvenire.

 

RECENSIONE

Edgar Morin. Insegnare a vivere

 

Il novantaquattrenne Edgar Morin, sociologo e filosofo, ci consegna l’ultimo saggio di una trilogia dedicata all’educazione. Insegnare a vivere (Cortina 2015), come i precedenti La testa ben fatta e I sette saperi necessari all’educazione del futuro (Cortina 2000 e 2001), non è un’opera pedagogica né una proposta di riforma del nostro sistema scolastico ma un suo radicale superamento. A indicare l’urgenza della proposta di Morin, due domande in esergo al libro chiudono ad anello le sorti dell’umanità e il destino del nostro pianeta: “Quale pianeta lasceremo ai nostri figli?” (Hans Jonas) ci richiama alla responsabilità nei confronti di quel prossimo che sono le generazioni future; “A quali figli lasceremo il mondo?” (Jorge Semprùn) affida la responsabilità all’insegnamento educativo che fin d’ora dovremmo attivare. L’intreccio fra l’umano e il naturale è ormai diventato un gaddiano garbuglio; gli oggetti con cui conviviamo sono sempre più ibridi, direbbe Bruno Latour, dove si fa indistinto il confine fra quanto è prodotto da noi e quanto si deve alle leggi del mondo. Di qui l’esigenza (che accomuna Morin a un altro “maestro del nostro tempo”, Michel Serres) di superare l’antica barriera che la nostra stupidità ha costruito fra cultura umanistica e saperi tecno-scientifici: non si tratta di questione accademica, o di conflitto di facoltà (mentali ed universitarie), in gioco è l’urgenza di una comprensione che ricollochi l’uomo nella natura. Tema su cui Morin ha l’innegabile merito di aver imposto tra i primi una riflessione, a partire dal lontano Il paradigma perduto (1972), quando ci invitava a comprendere la natura umana muovendo dalle radici evolutive da cui è emersa. Finché continueremo a tenere separate le due rive della cultura (fino a renderle rivali) non riusciremo a gestire le ricadute del nostro intervento sulla natura e di quest’ultima sulla comunità degli umani. Una comunità di destino, ricorda Morin, che si avvia a diventare planetaria, come esito della globalizzazione, o meglio, suggerisce il termine francese, mondializzazione, perché coinvolge non solo i gruppi umani, ma anche le loro relazioni con la biosfera.

 

Con la metafora della testa ben fatta (ripresa da Montaigne), Morin invitava a formare menti che fossero, non tanto piene di conoscenze, quanto in grado di porre e trattare problemi globali, grazie a criteri organizzatori che tengano conto della complessità che li governa. È questo che non sa fare la scuola, dalla primaria all’Università, frantumata com’è in discipline, affidata a competenze unilaterali o settoriali, cullata dalle certezze dei propri limitati campi d’indagine. Sempre più siamo posti di fronte a sistemi instabili, flou, dai confini indistinti e mobili (come le nuvole che già Wiener eleggeva a emblema del sapere cibernetico): in essi entrano in gioco il grande numero e molteplici variabili strette in relazioni non lineari, le leggi che governano le componenti non bastano a spiegare l’evolversi del sistema, con la conseguenza che si stempera ogni certezza previsionale. Se un tempo si poteva guardare alla geometria euclidea e/o alla fisica newtoniana come scienze regine, paradigmi di rigore esplicativo, oggi sono altre le scienze che ci educano a dialogare con l’incertezza. La matematica stessa, in perenne cammino verso il rigore, ci ha svelato la fecondità di campi dove domina il qualitativo e l’anesatto (dalla topologia ai frattali), fornendoci modelli molto più rispettosi della complessità del reale. L’esattezza è una richiesta che dovrebbe adattarsi agli esattori delle finanze più che agli insegnanti di matematica; qualcuno di essi ricorda il nevrotico protagonista di “Bianca” di Nanni Moretti, turbato dal non ritrovare ordine e regolarità fra le coppie degli amici, che fanno errori stupidi, e si separano.

continua a legge qui

 

 

 

LO ZAINO DI EMMA

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LO ZAINO DI EMMA

Fuga Martina

Editore Mondadori Electa

Pubblicato 17/11/2014

Pagine 141

 

   indice

1) Sinossi

2)L’autrice

3)Intervista

4)pagina facebook e sito

 

1)Sinossi

“Molti pensano che la disabilità di un figlio sia un dono, ma chiedetelo ai nostri figli. La sindrome di Down non è un dono, mia figlia è un dono, ma per com’è lei, non per la sindrome. Non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe se… e non me lo chiedo per me, me lo chiedo per lei! Io di quello zaino sulle spalle di Emma posso anche farmi carico, ma fino a che punto? Non posso portarlo io al suo posto! Un giorno lei vorrà toglierselo quello zaino e io dovrò spiegarle che non è possibile. Quel giorno sarà il più difficile della mia vita.” Martina Fuga, mamma di una bimba con sindrome di Down, racconta la sua storia di vita possibile. Ricordi, episodi, riflessioni si snodano lungo il percorso di accoglienza della disabilità della figlia iniziato quasi dieci anni fa. Nelle istantanee di vita narrate in una prosa asciutta ed essenziale si alternano difficoltà e conquiste, dolore e coraggio, paura e fiducia nel futuro, in un equilibrio delicato che la vita spesso impone. Lontano da intenti buonisti, spietato come la verità sa essere, Lo zaino di Emma racconta lo straordinario rapporto che lega una madre a una figlia e offre spunti di riflessione a chiunque si interroghi sul senso vero della vita.

2) L’autrice

Martina Fuga è nata a Venezia, si è laureata in Lingue Orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è stata direttore generale di Arthemisia, una società di produzione mostre. Ha organizzato tra le altre le mostre di Hokusai (Milano 1999), Rothko (Roma, 2007), Hopper (Milano, 2009). Dal 2010 è professore a contratto del Master “Progettare cultura” dell’Università Cattolica di Milano e dal 2012 amministratore di Artkids, un progetto che si propone di avvicinare i bambini al mondo dell’arte.

Dal 2012 collabora con Ballandi Arts alla redazione di documentari d’arte in onda sui SkyArte. Appassionata di running, è sposata con Paolo Orlandoni, portiere dell’Inter, da cui ha avuto tre figli Giulia, Emma e Cesare. Emma è affetta dalla sindrome di Down e l’esperienza di questa maternità, che Martina vive con passione e amore, l’ha portata ad impegnarsi nel mondo dell’associazionismo – è presidente di Pianetadown Onlus, membro del comitato di gestione del CoorDown, e consigliere di AGPD Onlus Milano – e a raccontare la sua storia. È autrice della pagina facebook Emma’s friends e del blog Imprevisti

3) Intervista

Cosa l’ha spinta a scrivere il libro “Lo zaino di Emma”?
In verità sono state due le spinte, una dall’interno e una dall’esterno.
Ho sempre scritto, scrivevo di me, dei miei pensieri e delle mie emozioni. Per lo più per mettere ordine dentro di me e per fissare ricordi, ma quando è nata Emma la cosa è diventata quotidiana, era una specie di terapia autogestita. Avevo una matassa nello stomaco da districare, una rabbia da gestire, emozioni da contenere… E l’ho fatto attraverso la scrittura. Questi fiumi di parole ad un certo punto ho cominciato a condividerli su facebook e poi sul blog e il confronto che le altre persone, spesso sconosciute, mi ha fatto un gran bene e molti di loro mi hanno dato riscontri altrettanto positivi.
Ma la spinta esterna è stata la vera ragione per cui oggi “Lo Zaino di Emma” è in libreria: è stato infatti l’editore Mondadori Electa nella persona di due persone eccezionali che mi hanno chiesto di scrivere il libro. Io avevo grossi dubbi, lo trovavo inutile e anche un po’ esibizionista, ma poi proprio in quei giorni ho incontrato una neo-mamma che mi disse che le cose che aveva letto su facebook e sul blog la stavano aiutando molto, così mi sono ricordata delle letture che avevo fatto alla nascita di Emma e di quanto sostegno, fiducia e coraggio mi avessero dato nell’entrare in quel mondo. Così ho colto l’occasione …

 

A chi consiglierebbe il libro?
Beh non dovrei dirlo io… io pensavo di scrivere per un pubblico ristretto, diciamo familiari di persone con sindrome di Down, ma mi sono resa conto dalle lettere che ricevo che è un libro per genitori in generale, in fondo non parlo solo di Emma, parlo anche molto dei suoi fratelli e della mia esperienza di mamma in generale. Poi ho una speranza… che lo leggano più persone possibili, non tanto per il successo del libro che non è la ragione per cui l’ho scritto, ma perché vorrei che tutti sapessero cos’è davvero la sindrome di Down e come si vive con un figlio disabile, perché mia figlia ma con lei tutti i ragazzi con disabilità possano essere guardati senza pregiudizi.

 

Cosa ha pensato quando ha saputo che Emma aveva la sindrome di Down?
Lo racconto a fondo nel libro, ora è davvero difficile sintetizzare il tutto in poche parole, ma all’inizio io ero solo preoccupata della salute, mi avevano fatto un quadro complicato di potenziali patologie connesse alla sindrome e io temevo che Emma non stesse bene, ma la vita è stata generosa con lei e le ha dato un’ottima salute sin dal primo giorno.
La notte mi sono persa in pensieri bui, pensavo a tutto quello che non sarebbe stata a quello che non sarebbe stata capace di fare, ma mi sbagliavo, oggi posso dire che sono davvero poche le cose che gli sono state precluse a priori a causa della sindrome! in futuro, vedremo…

 

Emma ha trovato o trova difficoltà fuori dalle relazioni familiari?
Emma vive un contesto di relazioni molto ricco, a scuola, in famiglia, nelle attività sportive ed è circondata da tante persone che la conoscono, le vogliono bene e la sostengono, e direi anche la proteggono, quindi faccio fatica a parlare di difficoltà. Le difficoltà più grandi insorgono per lo più fuori del nostro contesto, in vacanza o quando usciamo da ambienti che frequentiamo abitualmente. Emma ha una significativa difficoltà nel linguaggio e quindi spesso la prendono in giro o le fanno notare di non capirla e per lei, che ci mette tanto impegno per esprimersi, è molto frustrante.

 

 “Una gioia immensa!…Emma era finalmente tra le mie braccia”, leggendo il libro emerge molto forte che sua figlia è una “forza della natura” capace di dare molto nella relazione con la madre, ma cosa riceve Emma di prezioso ogni giorno dalla madre?
Non so davvero rispondere… Io ci sono e questo è tutto. Credo sia molto ma mai abbastanza. Credo che nessun genitore sia mai abbastanza per i suoi figli. Mi guardo intorno e credo che facciamo tutti sempre e solo del nostro meglio, ma i nostri figli hanno bisogno di molto di più, tutti. Più sguardo addosso, più abbracci, più giochi insieme, più spazio dentro di noi… Credo che dovremo aspettare qualche anno e chiederlo ad Emma.

 

Lei ha scritto che considerava Emma bisognosa di tutte le sue attenzioni, pensa che Giulia e Cesare si siano sentiti in qualche momento non al centro delle attenzioni materne?
Sì, purtroppo sì. Cesare soprattutto che è nato 15 mesi dopo Emma, ma anche Giulia che siccome è grande viene sempre dopo oppure può fare da sola. Purtroppo con questo senso di colpa conviverò per il resto dei miei giorni anche perché i figli sono cartine di tornasole e te ne accorgi presto quando si sentono invisibili. Ma si fa del proprio meglio e ho imparato a ritagliarmi spazi esclusivi per tutti i miei figli e dare ad ognuno le attenzioni che desiderano. Poi penso che avere dei fratelli insegni soprattutto questo: condividere. Condividere spazi e cose, ma anche amore ed è un valore importante da imparare.

 

Quando Emma ha visto il libro cosa ha detto?

Ha fatto uno dei suoi sorrisi sornioni e ha detto: “Lo sapevo!!!”
Fa così quando è in imbarazzo e vuole togliersi dall’imbarazzo. Le avevo accennato al libro e, barando, le ho detto che avevo scritto un libro sulla nostra famiglia e un po’ di più su di lei e per questo l’avevo messa in copertina, ma lei ha dei momenti di assoluta consapevolezza, molto di più di quanto io mi aspetti e ha sorriso come per dirmi: “non me la racconti…”
Ora la cosa la diverte, si sente un po’ una star e firma autografi nel cortile della scuola. Non è quello che volevo, ma è una cosa che non posso controllare, spero solo che piano piano finisca e soprattutto che lei un giorno non si dispiaccia che io lo abbia fatto.

 

Quanti anni ha adesso Emma e cosa fa di bello?
Emma ha 9 anni e mezzo, frequenta con soddisfazione la IV elementare e un corso di danza. Nuota come un pesce, ma non ha ancora imparato ad andare in bicicletta! Sorride sempre, è forte, determinata e piena di fiducia verso la vita. E’ una ragazzina felice questo mi sento di dirlo, ha una vita ricca di amore e di complicità con i suoi fratelli e i suoi amici. Spero solo che fra qualche anno potrò continuare a dirlo…

 

4) Pagina facebook e sito

pagina facebook Emma’s friends

Blog IMPREVISTI

DIZIONARIO DEL LAVORO EDUCATIVO

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Dizionario del lavoro educativo

Walter Brandani, Sergio Tramma

Carocci editore: 2014

Pagine: 424
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1) quarta di copertina

2) presentazione (clicca qui)

3) indice delle voci e degli autori ( clicca qui)

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1) QUARTA DI COPERTINA

Nella società contemporanea il lavoro educativo è interessato da molti cambiamenti, in particolare per quanto riguarda i destinatari, gli obiettivi, le metodologie, le direzioni di senso.

Tutto ciò ha comportato anche modifiche nel vocabolario composto da parole attinenti a discipline diverse. Nell’attuale panorama editoriale esistono molte riflessioni sull’educare e sull’educatore, ma non è ancora presente un testo di approfondimento delle parole chiave che connotano l’inter-vento educativo. Questo dizionario costituisce quindi un’importante novità editoriale e anche un prezioso strumento di riflessione.

Il testo comprende oltre 90 lemmi e contributi di circa 70 autori (pedagogisti, docenti universitari, educatori professionali) appartenenti a diverse aree disciplinari e d’esperienza.

 

 

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L’ora di lezione. (Per un’erotica dell’insegnamento)

ora

L’ORA DI LEZIONE

Per un’erotica dell’insegnamento

di Massimo Recalcati

Editore: EINAUDI
Pubblicazione: 09/2014
Prezzo: € 14,00

 

  INDICE

  – leggi l’introduzione

– recensioni

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE (clicca qui)

 

RECENSIONI:

1) AFFARITALIANI.IT di Alessandra Peluso
Squillo della campanella per molti studenti, ma chissà per quanti ancora questo suono simboleggia l’eccitazione di un inizio scolastico e l’entusiasmo di imparare per crescere.
Crescere in una scuola smarrita – come la definisce – Massimo Recalcati è complesso: «La Scuola rischia di non essere più il luogo pubblico della formazione degli individui, la quale viene invece filtrata e organizzata in altri luoghi (televisione, internet), al di fuori del campo della cultura, lasciata in balia delle illusioni di cui si nutre il discorso capitalista». (p. 12).
“L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento” è una critica acerrima alla scuola, e al contempo un’analisi obiettiva alla sua esistenza oggi, al suo esserci, a com’era in passato e come probabilmente dovrà essere in futuro, perché diventi un luogo di crescita e non di erudizione passiva e pedante, né peggio un luogo di perdizione. Così infatti appaiono molti ragazzi, passivi, persi, dei contenitori che ingurgitano informazioni a dismisura sino a raggiungere uno stato di anoressia, nella quale niente più a senso. Situazione che si potrebbe definire deprimente, le cui mancanze non sono da attribuire esclusivamente ai ragazzi.
Massimo Recalcati affronta un’anamnesi delle lezioni scolastiche, del rapporto insegnante-studente, proponendo in chiave psicoanalitica, una fantastica relazione d’amore tra i due soggetti che si incontrano, trasformando il sapere in un rapporto d’amore. Bellissimo e quantomai evolutivo e coinvolgente il testo di Recalcati; e in particolare, è a ben vedere, un libro che ogni insegnante dovrebbe leggere, e forse anche ogni studente che vorrebbe essere considerato un soggetto, protagonista, e non un oggetto, uno sterile contenitore da riempire: «Senza il desiderio di sapere non c’è possibilità di un sapere legato alla vita, capace di aprire porte, finestre, mondi». (p. 61).
Occorre fomentare nei ragazzi il desiderio di apprendere, conoscere con passione perché non ci sia un “vuoto di cultura”. La scuola come la droga – afferma Pasolini – è un surrogato, un surrogato della cultura. La droga viene a riempire un vuoto causato dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura. Oltre a questa provocatoria e dolorosa affermazione pasoliniana scorre in “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento” un puro godimento, un’apertura al desiderio, un innamoramento verso altri mondi da esplorare. Sarebbe meraviglioso se ciò si realizzasse, se ci fosse “questo rapporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il più potente antidoto per non smarrirsi nella vita”. (p. 87). Complesso senza dubbio, ma possibile se solo si riesce a prendere la scuola per ciò che è, il suo valore insito e intrinseco e non un’alternativa alla strada che pure ha da insegnare.
Massimo Recalcati si sofferma dapprima sui tre grandi “complessi” che hanno investito e riguardano oggi la Scuola (da notare la S maiuscola che l’autore utilizza nel libro proprio per evidenziare la grandezza e l’importanza della Scuola): il complesso di Edipo, di Narciso e Telemaco sino a soffermarsi sul “trasporto erotico del sapere” e a “l’ora di lezione” dove il corpo diventa un libro, ossia il corpo sessuale non è solo strumento per il mio godimento, ma diventa qualcosa da poter leggere: libro erotico, libro fatto di carne, libro pulsionale. È un corpo che non si stanca mai di leggere e di divorare. È un corpo che diventa ammirazione per il mondo dell’Altro. La possibilità che il corpo diventi un libro, coincide con la possibilità dell’amore, l’incontro con l’altro, in quanto ogni incontro degno di questo nome è sempre un incontro d’amore. (p. 86).
Affascinante lezione quella proposta da Recalcati, ammaliante, carismatica.
Nella conclusione amorosa e passionale – come poi dovrebbe essere la vita – si dipana il mestiere dell’insegnante. Il maestro che non deve essere un padrone, comportando l’omologazione dei suoi allievi, in quanto – sostiene Deleuze – non apprendiamo nulla da chi ci dice di fare come lui. Vi è l’incontro spiazzante tra l’autore e la sua insegnante e la possibilità di considerarsi imperfetto, contingente, possibile all’inciampo; è l’incontro con l’ostacolo, infatti, che sia l’insegnante e sia l’allievo, e dunque ogni essere umano, è portato a riconoscere, a superarlo e a considerarlo fondamentale per crescere, altrimenti risulterebbe un’esistenza desertica.
Tuttavia, il sistema “Scuola” costituisce il caposaldo dell’istruzione e pertanto, va supportato da un sistema politico evolutivo, progressivo che guardi al futuro dei giovani e non miri a stroncare la loro vita già precaria sul nascere, privando loro di punti di riferimento validi.

2) EDSCUOLA.EU di Mario Coviello

 

Per la maggior parte dei ragazzi questa sarà l’ultima settimana libera. Per quelli della Provincia autonoma di Bolzano le vacanze sono già finite: l’8 settembre sono tornati sui banchi di scuola. La campanella suona mercoledì 10 per i «cugini» di Trento e per i molisani e giovedì 11per i valdostani e gli abruzzesi . Il 15 settembre tocca agli alunni di altre quattordici regioni. Tra elementari, medie e superiori quest’anno scolastico gli studenti sono in Italia quasi ottomilioni precisamente 7.881.838.
Le famiglie, si legge che quest’anno spenderanno 450-490 euro soltanto per il corredo scolastico. Altri 300-350 euro serviranno per l’acquisto dei testi alle scuole medie e superiori. Conto finale: da 750 a 840 euro per ogni figlio.
A lungo, in questi giorni ho pensato a come augurare alla scuola italiana un anno scolastico sereno e mi è venuto in aiuto il libro “ L’ora di lezione “ di Massimo Recalcati (Einaudi, pagg. 162, euro 14)«Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. ”Una “vite storta”, così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». E sembra di rileggere Daniel Pennac che in “Come un romanzo” racconta che viene rinchiuso in un riformatorio perché ritenuto un ritardato.

Anche Recalcati è una vite che della stortura fa oggi un vanto, “ perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce.”

E allora la prima cosa che sento di dover raccomandare ai genitori e ai docenti è “ che nel cielo perturbato dell’adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del genitore e del maestro.” Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo,che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola “erotismo”.

All’inizio del nuovo anno scolastico , nel vivo della discussione sulla “ Buona scuola” del governo Renzi, con Recalcati voglio ricordare a tutti i docenti che «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore,l’insegnamento efficace è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert».

La scuola ,secondo Recalcati,come “sentinella dell’erotismo del sapere”, della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all’inaudito, all’imprevisto». L’urto che ti costringe a pensare.”
Ma come si fa col precariato, gli insegnanti di sostegno che scarseggiano, le scuole sporche, la carta igienica che manca, gli insegnanti “anziani e sfiduciati “ che aspettano di andare in pensione?

Recalcati afferma che” l’apprendimento è un miracolo che può compiersi solo se non c’è sudditanza. Non vi può essere. Ed è questo l’errore in cui precipita l’attuale scuola delle competenze, quella dell’efficienza e della prestazione, che riduce l’apprendimento a plagio, alla pura ripetizione, al calco acritico di un sapere costituito.”

La metafora dell’amore, spiega lo studioso, consiste nel trasformare chi ascolta in soggetto attivo, da “eromenos” in “erastes”, dallo statuto inerte dell’amato a quello partecipe dell’amante, di colui che cerca. All’origine è il gesto scandaloso di Socrate nella scena di apertura del Simposio. Agatone lo vuole vicino a sé per essere “riempito” della sua sapienza, ma il maestro rifiuta il ruolo.
Senza ricerca non ci può essere conoscenza. Il sapere si alimenta di vuoti, non di pieni. «E il sapere del maestro non è mai ciò che colma la mancanza quanto ciò che la preserva». Questo in sostanza dice il gesto spiazzante di Socrate.
Recalcati è convinto che per questo che bisogna ripartire dall’ora di lezione. Solo l’incontro misterioso tra allievi e maestri può salvare un’istituzione che rischia il naufragio. Niente può sostituirlo: né computer né slide né pillole tecnologiche. Recalcati non ignora il carico di paradossi che grava sull’insegnante, figura sociale mortificata eppure oggi più che mai investita di attese e responsabilità.
Se nella scuola che Recalcati definisce “Edipo” quella antica fondata sull’autorità del padre, gerarchica, assai temuta era integro il patto tra genitori e insegnanti, nell’attuale scuola “Narciso” quel patto s’è frantumato, travolto da una nuova mortifera alleanza tra genitori e figli. Un’alleanza fondata sull’abolizione di ostacoli e limiti, sul “perché no?”, su una coincidenza dí narcisismi paterni e filiari che non contempla frustrazioni e ancor meno fallimenti. E’ questa la solitudine dell’insegnante, «costretto a supplire a famiglie inesistenti o angosciate». Ed è anche la solitudine in cui versa la scuola che, se prima incarnava l’istituzione sorvegliante e punitiva, oggi si trova a essere l’unico baluardo di resistenza «all’iperedonismo acefalo», dunque uno strumento di liberazione piuttosto che di intruppamento ideologico. È un’isola di anticonformismo, ripete giustamente Recalcati, la sola che ponga dei limiti al godimento immediato. La legge della parola contro l’indisciplina del consumo sfrenato: di oggetti tecnologici, di alcol, di fumo, di droghe. E senza legge non c’è neppure desiderio.
Ma come si fa a conciliare norma ed Eros? Come si trasforma un libro in corpo erotico, cosa che permetterà all’allievo di «tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere»? Qui l’autore non può che evocare gli insegnanti della sua vita. La maestra delle elementari che lo sottrasse dalla “malinconia ebete” del bambino negletto. L’incontro folgorante nel secondo anno dell’istituto agrario, nella periferia povera di Quarto Oggiaro: fu Giulia Terzaghi a rappresentare il taglio, “la ripartenza”, «non sarei più stato l’idiota della famiglia, lo studente storto che gettava i suoi genitori nell’angoscia “.

Ogni lettore penserà ai suoi di maestri, a quelli che hanno acceso le stelle filanti del desiderio. Ne ricorderà la voce, quel particolare timbro, le inflessioni, la particolarità. Perché è vero quel che scrive Recalcati, dei professori si può dimenticare la faccia o il nome ma non la voce. La voce che è corpo, «espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare».
Il desiderio di insegnare, ecco il filo comune. I maestri sono per sempre, in ciò che sei diventato, in quello che leggi e impari ogni giorno. «Sei una presenza che insiste a vivere in me», scrive Recalcati in una lettera d’amore alla professoressa Giulia. «Impossibile continuare senza di te, ma impossibile non continuare senza di te». Parole di Beckett che resistono.

IL MIO ALLENATORE ( Raffaele Mantegazza)

 

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IL ‘MIO’ ALLENATORE

Autore: RAFFAELE MANTEGAZZA
Editore: WWW.ALLENATORE.NET EDIZIONI
IN DISTRIBUZIONE DAL 10 MAGGIO 2014
Prezzo: 22.00€

INDICE

   – Intervista a Raffaele Mantegazza
   – Presentazione libro
   – Indice libro
   – video conferenza
   – L’autore 

 

 INTERVISTA

WALTER BRANDANI: Nelle presentazioni delle società sportive alla voce ALLENATORI, spesso si trova un elenco di nomi senza riferimenti a titoli di studio o corsi frequentati, solo in alcuni casi si può leggere qualche accenno alla carriera sportiva dell’allenatore. Questo vuol dire che per allenare è sufficiente essere stato un ex giocatore?

RAFFAELE MANTEGAZZA: Ovviamente no. Equivale a chiedere se un esperto programmatore di computer può insegnare informatica ai ragazzi di terza media senza sapere niente di pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, comunicazione didattica. Purtroppo il mondo dello sport, soprattutto del calcio, sembra essere piuttosto sordo a queste sollecitazioni, per cui ci si illude che basti saper giocare per saper insegnare a giocare. Ma certo non bastano i corsi, che pure sono indispensabili: occorre indagare sulle motivazioni che portano una persona a voler allenare, e se non si tratta di motivazioni realmente educative si parte già con il piede sbagliato.

WB: Quali sono le principali competenze che dovrebbe possedere un allenatore?

 

RM: Occorrono ovviamente competenze tecniche ma spesso, soprattutto per i settori giovanili, vengono esagerate, in particolare a livello tattico. Piuttosto che perdere due ore a studiare la difesa a zona del Barcellona un allenatore di ragazzini impiegherebbe il suo tempo in modo più proficuo studiando pedagogia e psicologia. Un allenatore deve sapere comunicare, sapere in che cosa un adolescente si differenzia da un  bambino, qual è la percezione del proprio corpo in un bambino di sette anni e come muta a dieci anni, conoscere la psicologia dei gruppi ecc.

WB: Se si vince bravi tutti, ma sopratutto l’allenatore, se si perde è colpa dei ragazzi che non si impegnano. Per un allenatore qual è il rapporto tra l’insegnare una disciplina sportiva e il vincere la partita?

 

RM: L’allenatore dei settori giovanili non FA sport ma INSEGNA sport. La cosa è completamente diversa. La vittoria ovviamente fa parte dello sport, non è eliminabile da esso, ma se per l’allenatore  della prima squadra la sconfitta è solamente sconfitta, per l’allenatore dei ragazzi essa può costituire una straordinaria possibilità di crescita e un fattore positivo. Insegnare a fare qualcosa significa soprattutto insegnare a sbagliare e a imparare dai propri errori. Se si demonizza la sconfitta, non è letteralmente possibile insegnare a vincere.

WB Cosa significa per un giocatore poter affermare “…..è il MIO allenatore!” ?

 

 RM: Significa attribuirgli quello status unico che i ragazzi assegnano solamente ai (purtroppo) pochi adulti che scelgono come punti di riferimento,  insegnanti, capi scout, animatori, zii e soprattutto allenatori. Per poter essere il “mio” allenatore  però il mister o coach deve essere in sintonia con me, riconoscermi come persona (il mio precedente libro pubblicato per allenatore.net si intitolava “La persona giocatore”), deve mettere in campo quella speciale relazione uno-a-uno che troppo spesso viene soffocata dietro una concezione di gruppo e di squadra troppo rigida e poco attenta alle dimensioni individuali.

WB: Genitori in campo o fuori dal campo: quale rapporto assumo i genitori nella pratica sportiva dei figli?

 

RM: Assolutamente fuori dal campo, ad accompagnare i figli alla partita e a recuperarli fuori dallo spogliatoio. Un genitore deve vigilare sul fatto che l’allenatore sia una persona seria, che non bestemmi, che non insulti i ragazzi (spesso sono proprio questi cafoni ad essere stimati dai genitori, che pensano che così  i ragazzi cresceranno forti e duri!); per il resto, deve lasciare lavorare l’allenatore e aiutare il ragazzo a ritagliarsi con esso quella specifica  relazione che fa di lui, appunto, “il mio allenatore”.

 

 PRESENTAZIONE LIBRO

Sono molti gli allenatori con importanti competenze in ambito tecnico-tattico ed in grado di preparare fisicamente i propri giocatori. Non sempre la stessa attenzione viene invece viene dedicata ai fattori pedagogici, comunicativi, relazionali.

Avere una linea di condotta chiara, saper gestire le proprie emozioni ed essere un modello per i propri ragazzi sono tutti elementi che un allenatore deve curare ed approfondire, così come è fondamentale saper mostrare ed insegnare, anche con fantasia e creatività, gli specifici aspetti sportivi.

Altrettanto importante è conoscere alcune regole di comunicazione, da applicare sia nel rapporto con il singolo che nella gestione della squadra, utili a formare lo spirito di gruppo ed a creare un clima adatto all’interno dello spogliatoio.

L’autore focalizza quindi l’attenzione sul prevenire i conflitti che possono sorgere in relazione alle diverse personalità dei ragazzi e le modalità con le quali è opportuno soddisfare i tipici problemi che frequentemente si presentano con i genitori.

L’ultimo capitolo è invece dedicato all’analisi degli allenamenti e delle partite, cercando di mostrare come, in ogni momento di questi eventi, l’allenatore può prestare attenzione agli elemnti psicologici e pedagogici del suo ruolo.

 

 

INDICE LIBRO

– chi è il “mio” allenatore?

– l’allenatore come insegnante

– l’allenatore come comunicatore

– l’allenatore e il ragazzo

– l’allenatore e i genitori

– l’allenatore in azione: allenamenti e partite

 

 VIDEO

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 L’AUTORE

Docente di pedagogia interculturale e della cooperazione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca, per 15 anni allenatore di squadre giovanili di basket, formatore e consulente per allenatori, genitori e atleti

 

il paese di Chicistà

paeseIl paese di Chicistà

Roberto Piumini,  illustrazioni di Emanuela Bussolati,

Milano, Ledha, 1996, pp 62 Età dai sei anni

SINOSSI

Questa favola narra l’incontro di tanti bambini e aiuta a capire meglio l’handicap.
La storia, all’inizio, presenta l’handicap come qualcosa di separato, “il muro che circonda”; mentre, più avanti, si parla di questo tema come un filo che permette un incontro tra le diversità che noi tutti abbiamo.
E’ una storia da ascoltare con un adulto al fianco che abbia voglia di fermarsi a riflettere sui dubbi e le domande che l’incontro della diversità stimola in noi.
L’handicap non ha bisogno di separazione, ma al contrario, di condivisione. In questo senso, anche le parole di una favola possono aiutare.

 

Recensione

E’ una storia di bambini. Bambini diversi e bambini uguali, bambini tutti interi e bambini così e cosà. E’ la storia dell’incontro fra questi bambini, della loro conoscenza reciproca che ci aiuta a capire meglio qualcosa intorno all’handicap. Il racconto, infatti, ci presenta dapprima l’handicap come qualcosa di separato, “il muro che circonda ed isola” e, nell’evoluzione della storia, come un filo che permette un riconoscimento, un incontro tra le diversità che noi tutti abbiamo.
Nonostante le fattezze di fiaba non è una storia semplice, non è una storia immediata. E’ una storia da ascoltare con un adulto al fianco che abbia voglia di fermarsi ad ascoltare i perché, i dubbi e le domande, anche le proprie, che sempre suscita l’incontro della diversità.
L’handicap non ha bisogno di separazione, esige sincerità e condivisione. In questo senso anche le parole di una favola possono aiutare.accaparlante.it

Recensione2

Quando la penna è quella di Roberto Piumini raramente si resta delusi così la levità, il ritmo e la trasparenza poetica che l’autore sa infondere al racconto rapiscono con pacata gentilezza anche il lettore di questa storia. Questi segue infatti, come attratto da un pifferaio magico, il viaggio di Chiara e Tommaso nel paese di Chicistà e nella sottile metafora dell’inclusione che esso svela.

Qui si incontrano personaggi bislacchi, ciascuno fatto a suo modo e come tale ben accetto dai concittadini. I Dammideltu, i Pastabianca, i Senzaperché e i Cantabruno, per esempio, sfoggiano ciascuno i suoi tratti peculiari come pezzetti di una filastrocca incantevole e irresistibile. Qui trovano dunque posto i due visitatori e i loro amici Claudio, Simone e Arianna anche se battono ostinatamente con un pestello o sferruzzano senza posa una sciarpa.

Liberati dal controllo degli astrusi Biscabalurda il cui solo interesse sono sterili classificazioni, questi bambini particolari possono infatti trovare il loro posto a Chicistà, non più segregati al di là di un muro che divide ma al contrario uniti da un interminabile filo che abbraccia. dito.areato.org/

 

 

COME FUNZIONA LA MAESTRA

come-funziona-la-maestraCOME FUNZIONA LA MAESTRA

Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer

Ed. IL CASTORO

PUBBLICAZIONE febbraio 2013
DIMENSIONI 23 x 30 cm
PAGINE 28

Per bambini e adulti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un divertente e raffinato albo illustrato che parla ai bambini di oggi e… ai bambini di ieri.
“Dentro la maestra ci sono i numeri, le tabelline, i fiumi, i monti, l’orologio, i cinque sensi, l’uomo primitivo e tante altre cose che a poco a poco finiscono anche dentro ai bambini.”

Ci sono maestre lunghe o maestre corte. Maestre larghe oppure sottili. Maestre scure, chiare, ricce, lisce, a pallini, a fiori, a spirali, a scacchi e in varie fantasie. Anche a righe e a quadretti, naturalmente. E dentro le maestre, invece, cosa c’è? Un ritratto gioioso e scanzonato di tutte le maestre. Guarda bene, e troverai anche la tua o quella che hai conosciuto da piccolo!
Un intero universo da scoprire, per giocare con la curiosità dei bambini e sorridere insieme a loro sul mondo della scuola. Dedicato a una delle persone più importanti nella vita di ogni bambino.
Illustrazioni di Chiara Carrer.

RECENSIONI

di Micol De Pas

«Ci sono maestre lunghe o maestre corte. Maestre larghe oppure sottili. Una maestra piccola non è mezza maestra, così come una molto grande non vale doppio». Possono avere colori diversi, possono essere chiare, scure, ricce, lisce, a pallini, a scacchi… su quelle a righe si scrive e su quelle a quadretti si fanno le operazioni. Così le descrivono Susanna Mattiangeli e Chiara Carrer in Come funziona la maestra, un manuale per bambini, appena uscito per Il Castoro.

La maestra («che a volte è un maschio») è un essere a sé, diverso da tutti gli altri, perché «Dentro la maestra ci sono i numeri, le tabelline, i fiumi, i monti, l’orologio, i cinque sensi, l’uomo primitivo e tante altre cose che a poco a poco finiscono anche dentro ai bambini». Ma come tutti gli altri, si veste, è alta o bassa, ha i capelli in un certo modo e un carattere particolare. «Alcune sono sempre contente, altre sempre arrabbiate. Quando la maestra è arrabbiata si ferma tutto. Non si aggiunge più, non si riesce a dividere niente, i fiumi non scorrono e l’uomo primitivo resta bloccato con la lancia alzata. Solo se torna la calma, allora tutto ricomincia a funzionare».

Poi, un giorno, la maestra diventa quella di qualcun altro. Allora si potrà incontrarla per caso, al cinema, al supermercato e per la strada e sembrerà un grande come tutti gli altri. «Però quando se ne incontra una, si capisce. Si sa che quella era la maestra. Solo, è diventata un po’ più piccola. E insieme alla maestra, anche la classe, se ci si ritorna dopo qualche tempo, si è trasformata, è sempre la stessa classe, ma si è rimpicciolita».

Ma il gioco non finisce mai, perché «quando bisogna ritrovare una poesia, un lago o una vecchia storia sentita in classe, basta cercare bene e alla fine usciranno fuori tutti insieme, come li aveva messi la maestra, i più piccoli seduti davanti e i più alti dietro in piedi».

 

 RECENSIONE 2 

di Margherita D’Alessandro

 

È appena ricominciata la scuola, ne parlano i giornali, i tg, la gente per strada, i genitori che non vedevano l’ora di poter riorganizzare al meglio il tempo.

Io ricordo bene il mio primo giorno nella scuola elementare: ci radunarono tutti in palestra –  genitori e bambini – e aspettammo con pazienza che ci chiamassero. Ero curiosa di sapere che viso avesse la mia “prima” maestra, se fosse dolce o severa, simpatica o seria. Arrivò con un po’ di ritardo e … sorpresa! Si chiamava proprio come me. Poi ci mise in fila ed io diedi la mano a Loretta con cui avrei diviso 5 anni di studi e di giochi. Quest’anno ho visto mia nipote fare le stesse cose e mi chiedevo, guardando i volti di tanti bimbi, cosa possa passare nella loro mente quando lasciano la mano del genitore per seguire una persona, che li guiderà nei passi fondamentali dell’apprendimento.Così ho ripreso in mano “Come funziona la maestra” diSusanna Mattiangeli con le illustrazioni della grande Chiara Carrer (Il Castoro), un libro di qualche mese fa, e ho pensato di proporvelo perché quando l’ho letto la prima volta ho avuto un groppo in gola per l’emozione, sia come ex alunna che come insegnante.

Guardate un po’ se le sue parole non sembrano espresse da quei frugoletti con i grembiulini e gli zaini:

 

«Ci sono maestre lunghe o maestre corte. Maestre larghe oppure sottili. Una maestra piccola non è mezza maestra, così come una molto grande non vale doppio … Le maestre a un certo punto diventano maestre di qualcun altro. Si possono rivedere dopo un po’ di tempo, per la strada, al cinema, al mercato, e sembrano dei grandi come tutti gli altri. Però quando se ne incontra una, si capisce. Si sa che quella era la maestra. Solo, è diventata un po’ più piccola. E insieme alla maestra, anche la classe, se ci si ritorna dopo un po’ di tempo, si è trasformata. È sempre la stessa classe, ma si è rimpicciolita».

 

Quando ho avuto il libro tra le mani è stato amore a prima vista e il giorno dopo l’avevo già letto ai miei alunni.

Quelle parole toccavano in profondità i miei ricordi perciò ho pensato che la scrittrice doveva essere un po’ speciale e le ho rivolto qualche domanda:

        Susanna, parlaci un po’ di te.

Io sono nata a Roma. Non sono lunga né larga, sono ocra anche se a volte divento marrone perché se voglio posso cambiare colore. Milioni di anni fa ho studiato disegno e storia dell’arte, ho costruito pupazzi per spettacoli e per video di animazione, attrezzeria e mobili perché mi piace il lavoro manuale anche se da solo non mi basta. Adesso abito ancora a Roma con Lorenzo, Elisa e Pietro. Invento laboratori per i bambini in spazi privati e nelle scuole. Imparo tante cose e, in qualche modo, ne insegno anche. In effetti ho molte cose che mi rendono simile ad una maestra: ho una parte davanti e se mi giro a scrivere o a disegnare ho anche io una parte di dietro. A volte i bambini e le bambine mi chiamano maestra, solo che io non mi siedo quasi mai alla cattedra e, anche se parlo con molte maestre, non conosco la lingua segreta che le maestre parlano tra loro. L’ambiente della scuola mi riempie di idee e di parole che devo mettere da qualche parte. Così oltre a “Come funziona la maestra” Editrice il Castoro è appena uscito “La mia scuola ha un nome da maschio” Edizioni Lapis. Così per un po’ sono a posto e dopo scriverò di altri argomenti.

      Come è nato “Come funziona la maestra”?

Come dicevo, incontro molte maestre durante l’anno. Spesso maestre donne, perché nel nostro paese vicino ai bambini e alle bambine ci sono soprattutto le donne. Se invece aggiungi un pallone da calcio, arrivano subito gli uomini, mentre le donne e le bambine si allontanano.  Se si rimescolassero più le cose tra uomini, donne, bambini, bambine e palloni questo sarebbe un paese diverso, ma per adesso il maestro è una rarità e nel linguaggio comune si parla di “maestre”: esseri con borsetta e poteri speciali, supereroi con la messa in piega.

Quando ho pensato di scrivere un testo per un albo ci ho messo poco a decidere di parlare della maestra e non mi pareva una scelta tanto originale. Solo dopo aver finito ho realizzato che non era ancora stato fatto uno studio scientifico sull’argomento, ovvero sulle varie forme di maestra presenti in natura, su come si muove, come parla, dove vive eccetera.

 

          Hai un ricordo particolare dei tuoi insegnanti?

La mia prima maestra della scuola materna si chiamava Armida e nella sua classe c’era una casetta di legno dove entravamo in tantissimi a ricreazione. Quando ho votato per la prima volta sono tornata a trovare la casetta e ho visto che si era rimpicciolita. A fatica ci sarei entrata io da sola. A dire il vero, tutta la classe si era ristretta e mi sono sentita come Alice quando diventa enorme. La mia maestra preferita però è stata Patrizia, che mi ha insegnato a leggere e a scrivere cantando e suonando la chitarra. In seconda elementare è stata sostituita da un’altra che aveva una bacchetta di legno da sbattere sui banchi per fare silenzio, ci buttava spesso fuori dalla classe e ogni tanto ci tirava i capelli. Così ho imparato che ci sono vari modelli di maestra al mondo, e che non tutte funzionano allo stesso modo.

          Ricordi il primo giorno di scuola?

No, non ho un ricordo preciso. Se ci penso vedo l’immagine della mia mano al lavoro sui primi quaderni e mi torna in mente quanto mi sembrava facile leggere e scrivere. Credo che in questo Patrizia c’entrasse e mi chiedo se lei se ne sia resa conto. Era giovane e chissà se ha continuato ad insegnare, magari in quegli anni se n’è andata in giro di classe in classe lasciando cose preziose senza pensarci troppo su.

         Qual era la tua merenda preferita?

Mi piaceva il pane con la nutella ma mia mamma mi faceva certe fette deprimenti, piccole e con un velo marrone inesistente e allora nemmeno lo chiedevo più. Andavo a scuola tutti i giorni con un tegolino e un mandarino. Poi però a ricreazione mi dimenticavo di mangiare e lasciavo tutto nella tasca dello zaino. Alla fine della settimana la tasca era piena e bisognava scavare gli strati di mandarini e tegolini tutti schiacciati e mummificati.

         E il libro a cui eri più legata, quello che leggevi e rileggevi?

Io leggevo fumetti. Sempre, ovunque. Soprattutto Topolino, quello che usciva in edicola ma anche le vecchie storie degli anni cinquanta di cui mio padre aveva una grande raccolta. Adesso, a parte qualche storia classica veramente bella, non mi piace più per niente ma alle elementari era la mia fissazione. Oltre a quello leggevo molto Asterix e qualunque fumetto girasse per casa, compreso Linus che era per grandi, pieno di cose strane e incomprensibili. Non saprei dire quale sia stato il mio primo libro vero: a scuola ci facevano prendere dei libri in biblioteca di cui non ricordo niente se non una riduzione di Fabiola, una storia sui primi cristiani perseguitati che ha segnato il mio breve momento di misticismo. Di sicuro ho letto e riletto le Filastrocche in cielo e in terra di Rodari, che resta una specie di maestro invisibile dei miei anni piccoli e anche di quelli un pochino più grandi.