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Mommy

MOMMYMommy

Un film di Xavier Dolan.

 Ratings: Kids+16,

durata 140 min. – Francia, Canada 2014.

 

 

 

  1. SINOSSI
  2. RECENSIONE
  3. SCENE DEL FILM

 

1) SINOSSI

Una madre vedova, allevando da sola il figlio, un turbolento quindicenne , trova nuova speranza quando una vicina misteriosa si inserisce nella sua famiglia.

 

2) RECENSIONE
Mommy è la storia di un rapporto madre-figlio, un amore fusionale, totale e ovviamente melodrammatico, tra un ragazzo con un bel po’ di problemi caratteriali e una donna vedova, single e nevrotica. I due vanno a vivere insieme in una nuova casa in un quartiere povero, un suburbio di un’anonima città del Quebec, litigano furiosamente e altrettanto furiosamente fanno pace, conoscono la vicina di casa – un’insegnante in anno sabbatico, ipersensibile al limite dell’implosione ma affettuosa – che diventa una sorta di presenza organica di questa famiglia di strambi allegri infelici.

Qualche giorno fa sono andato a vedere Mommy; era il secondo o il terzo giorno di programmazione, sono entrato allo spettacolo delle 22.20 in un cinema medio grande romano. Ero con due miei amici, e in tutto il cinema c’erano altri cinque spettatori. L’odore dei popcorn lasciati sul pavimento da quelli dello spettacolo delle 20 faceva sembrare ancora più triste un cinema così vuoto, come mi rendevo conto che era abbastanza deprimente – oltre che insensato – vedere Mommy doppiato (nonostante la bravura dei doppiatori) e non nel francese québécois; ma nelle otto sale dove era proiettato a Roma, non ce n’era nessuna che lo dava in versione originale.

Nonostante tutto ciò, è difficile non considerare – lo fanno tutte le top ten – Mommyuno dei migliori film dell’anno, un quasi capolavoro, un’opera incredibile se si considera che il regista Xavier Dolan è uno che ormai è perfino stucchevole reputare un enfant prodige (a 25 anni ha realizzato cinque film non così piccoli, uno più bello dell’altro, il primo a 19 anni su una sceneggiatura scritta a 17) ed è difficile non ammettere la bellezza di Mommy fin dal primo minuto.

Ossia fin da quando Dolan decide di restringere lo schermo a un quadrato. Una dimensione 1:1 invece di un 4:3 o di un 16:9, due barre di nero al lato dunque che producono subito due effetti. Primo, farci sentire attraverso questo piccolo stratagemma il senso di artificio rispetto a quello che stiamo vedendo; secondo, stringere il fuoco intorno agli attori come a volerli placcare – una camera piazzata addosso.

Da questo quadrato e da una scritta in sovraimpressione parte Mommy. Nella scritta in sovrimpressione si dice che siamo nel futuro prossimo (giusto il 2015) di un Canada appena appena distopico, dove è possibile per genitori con figli problematici affidarli a (leggi: internarli in) ospedali psichiatrici appositi. Questo duplice artificio – visivo e narrativo – compie una magia: riesce a rendere per contrasto immediatamente vitale, iperrealistico, quello che accade nel quadrato.

E dentro la cornice del quadrato c’è tutto. Subito: ci sono luci che entrano in campo in modo invadente, riverberando come una pioggia solare (siamo dalle parti di Terrence Malick, per capirci). E c’è appunto il corpo di DDD, Diane “Die” Després – una donna senza lavoro, sfortunata, spiccia, arrogante, cafona – che si va a riprendere suo figlio Steve da una specie di riformatorio: suo figlio iperattivo, ingestibile, che ha appena massacrato di botte un compagno. Che farne di questo figlio impossibile? Quando lo vediamo comparire in scena, un clamoroso Antoine-Olivier Pilon, capiamo che la risposta di Diane può essere solo una: rimanere soggiogati dalla sua invadenza. Lei lo ama alla follia, lui ricambia. Più edipici di qualunque Edipo, si insultano e si abbracciano, si stuzzicano e si giurano amore eterno, si picchiano e si perdonano. (“Ma noi ci amiamo ancora, vero?” “Certo, è la cosa che ci riesce meglio”).

Basterebbero i loro bisticci continui, le risate spanciate, le voci urlate, a ingombrare tutto il film, come accade a Diane e Steve con il loro appartamento messo a soqquadro una scena sì e una no, e come accade a noi spettatori distratti dalla recitazione esplosiva di Anne Dorval e Antoine-Olivier Pilon. Ma poi dentro il quadrato, Dolan sa che può osare, e inserire tutto ciò che ha a portata di mano. Quindi, come a saturare lo spazio disponibile, getta dentro da subito un sonoro sporco e onnipresente (rumori di chiavi, chiacchiericcio, traffico…) e una presenza musicale schiacciante, autoradio in sordina e volumi che si alzano e si abbassano e stereo a palla che si sovrappongono a altre fonti musicali e alle volte si sovrappongono anche a una colonna sonora già di suo invadente, cafonissima, iper-pop: i brani più sputtanati di Craig Armstrong, Dido, Counting Crows, Lana Del Rey, Oasis. (qui un’intervista sul rapporto con la musica di Dolan).

Ma tutto questo eccesso – la recitazione iperemotiva, la camera attaccata ai corpi (più di Gus Van Sant, più dei Dardenne, più della televisione-verità), i grandangolari, i primissimi piani, sequenze di volti come una serie continua di fototessere, campi e controcampi quasi da soap, la musica a cascata… – ancora non basta a Dolan per creare una sua estetica compiuta e ammaliante. Occorre la fotografia di André Turpin, che satura anche lui: gli esterni allagandoli di luce solare che alle volte ci mostrano una sorta di apocalisse tropicale in Canada, e le scene d’interni virandole al verde, al giallo ocra, al rosso, al dorato, al blu elettrico… Oppure, come una specie di scommessa da genio, reinventandosi completamente i toni del film in una scena in cui si dice che è appena avvenuto un black-out e i personaggi si muovono in una penombra bluastra.

E ancora: una sapienza di montaggio (sempre Dolan, che firma regia, sceneggiatura, produzione, costumi, e montaggio appunto) per cui i non detti, le elisioni, le omissioni sono lasciati alla sceneggiatura, mentre se c’è qualcosa che ci viene mostrato, noi lo ipervediamo. Clinicamente, senza pudore. Ed ecco per esempio l’uso, l’abuso del ralenti, che è una cifra stilistica di Dolan (qui e qui un paio di meravigliosi esempi presi anche dai suoi precedenti film)

Perché accade tutto questo in Mommy e non ci sembra di avere a che fare con un prodotto kitsch o addirittura con il bluff di un bravo videoclipparo?

Nelle interviste dopo Cannes, dove ha vinto il premio speciale della giuria ex aequo con Jean-Luc Godard, Dolan recitava onestamente la parte di quello che non ha mai visto i film di Fassbinder o Cassavetes (a cui viene facile, è vero, di accostarlo) e che con grande naturalezza dichiara che Godard non ha praticamente nessun posto nella sua ispirazione, occupata da gente come Jane Campion o Wong kar wai ma anche e soprattutto da Peter Jackson e da James Cameron, le scene iniziali delSignore degli anelli o quelle sul ponte del Titanic i suoi feticci.

E allora, come è possibile che da queste naïveté, da questo consumista radicale di immagini, possa venire fuori un lavoro così raffinato? Dolan è seduttivo e geniale perché arriva a ridefinire che cos’è il pop, e lo fa come se la storia del cinema non esistesse e fosse stata sostituita da una specie di continua rappresentazione diffusa: lì il suo inconscio si è formato, tra i riferimenti commerciali degli anni novanta.

E da regista cresciuto nel mondo di YouTube e film in streaming, non ha soggezione nei confronti di nessuno, né desiderio di emulazione. Dolan è più libero di quella generazione di registi iconoclasti come Tarantino e Almodóvar, perché non rielabora, non usa il grottesco, o l’ironia, e non rovescia nemmeno il melò per rifarlo in salsa gay. Dolan letteralmente dilaga, è bulimico, incontenibile, fa tutto, e vuole tutto. Questa è la sua forza.

Ci sono tre scene – e qui spoilero un bel po’ – in cui questa potenza dilagante, questo debordamento estetico arriva a inondare lo spettatore, che a quel punto o si ritrae oppure si lascia sommergere. La prima arriva quando Steve in skate e le due donne, Die e Kyla, la vicina (Suzanne Clément, strepitosa anche lei), in bici escono per il quartiere; la camera li segue incalzata dalla musica (Wonderwall, Oasis) che batte sullo schermo e lo deforma letteralmente: Steve allarga le braccia e per un istante il formato quadrato si apre e ingloba tutto. Vi sarà capitato in vita vostra di volervi mangiare il mondo?

Il coraggio formale di Dolan, il suo sostanziale fregarsene di regole che non rispondano a un’emotività dello sguardo, opera un meraviglioso errore di grammatica cinematografica: la musica diegetica diventa extradiegetica. Ciò che potrebbero sentire solo loro tre a un certo punto diventa ciò che potremmo sentire solo noi spettatori.

La terza è quando Steve accompagna la madre a un appuntamento con un uomo in un locale dove fanno il karaoke e Steve decide di cantare Bocelli, Vivo per lei, mentre una gelosia bruta, terminale, distruttiva se lo divora nota dopo nota. (Qui capite bene, il non-senso del doppiaggio raggiunge delle vette quasi comiche).

In questi tre momenti la richiesta che Dolan fa allo spettatore non è più il suo coinvolgimento, ossia l’adesione a un’estetica febbrile. Ad un certo punto, io ho sentito che Dolan voleva essere amato, che noi quattro gatti in sala gli restuissimo l’amore che lui stava dando senza risparmio ai suoi personaggi, complicati e spesso detestabili, ma di una fragilità tale da non poterci permettere nessun distacco nei loro confronti. Si sono affidati completamente a noi.

E perché questo? A che serve quest’amore? Per poterlo avere alla nostra portata in una scena verso il finale, quando Die è rimasta sola, in casa, senza Steve e senza Kyla, quando questa saturazione che abbiamo visto per due ore si rovescia nel suo ovvio opposto: un senso di solitudine infinita e agghiacciante. Una casa deserta senza un suono, con una luce troppo neutra.

Mommy che fino a un secondo prima ci poteva sembrare uno struggente melodramma con un juke-box sotto, ci rivela il suo carattere invece di cinema sociale: più Ken Loach che Baz Luhrmann. E capiamo che Dolan non voleva fare un film solo su un devastante rapporto madre-figlio, ma provare a pensare come la crisi economica delle famiglie dal reddito basso monoparentali porti una sorta di distopia di massa, in cui i disagi sociali vengono oggi farmacologizzati e in futuro prossimo magari ospedalizzati. Tutte le famiglie infelici finiscono per assomigliarsi, con le stesse prescrizioni terapeutiche.

Per questo ci viene da amare Die. Anne Dorval è un mostro di bravura e le dipinge sul volto di una smorfia terribile, un raggrumarsi dei nervi che si tiene senza esplodere in una tensione spaventosa. Per un attimo ogni artificio scompare, e vediamo solo il vuoto.

Una performance attoriale così intensa della disperazione recentemente l’ho vista forse incarnata da Juliane Moore in Maps to the stars o da Naomi Watts inMulholland Drive o, per andare più indietro, da Gena Rowlands in Una moglie. Ma qui stiamo già citando John Cassavetes, e Dolan giustamente mi farebbe una pernacchia. Christian Raimo internazionale.it

 

 

3) TRAILER

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Father and Son

Father and Son

di Hirokazu Koreeda. Drammatico, durata 120 min. – Giappone 2013. -italia aprile 2014

father

INDICE:

  1. Trama
  2. recensione : Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
  3. recensione: il senso della paternità
  4. Trailer

Trama

Un giorno, Nonomiya Ryota, uomo ricco ed egoista, riceve una telefonata dall’ospedale in cui gli viene rivelato di non essere il padre biologico di suo figlio, un bambino di sei anni. Infatti, al momento della nascita il piccolo è stato scambiato nella culla con il figlio di un’altra coppia. Ryota e sua moglie, sconvolti dalla notizia, si troveranno di fronte a una difficile scelta: riprendersi il figlio biologico o continuare ad allevare il bambino che hanno cresciuto finora.
Una toccante e misurata riflessione sulla paternità, che interroga il sangue, il tempo e il sentimento
Marianna Cappi mymovie.it

Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni?
Il giapponese Kore-Eda conferma le qualità artistiche di cui ha sempre dato prova con questa esplorazione splendidamente misurata di un dilemma che mira dritto al cuore dell’uomo. Con la leggerezza della grande scrittura, l’abilità di costruire un’architettura perfetta nel bilanciare il peso di azioni e reazioni tra i due nuclei familiari coinvolti (il regista ha affermato di essere partito con questo film per un viaggio dentro se stesso, riconoscendosi nelle questioni personali di Ryota, che nella finzione è appunto un architetto) e con un cast in grado di conferire all’opera un valore aggiunto altissimo, Kore-Eda non si lascia mai tentare dal richiamo del melodramma, che è nelle corde del soggetto ma non nelle sue, e mantiene un registro contenuto ma attento ai particolari e ai piccoli incidenti del vivere, nel quale le belle idee sono silenziosamente numerose e nulla è mai di troppo. In particolare, nonostante il film racconti la maturazione di Ryota rispetto al suo essere padre, che passa forzatamente dal suo essere stato figlio a sua volta di un certo padre, sorprende la verità con la quale il regista coglie le reazioni dei due bambini, bloccati tra la fiducia che ripongono nei genitori, la volontà di ottenere la loro ammirazione e il disagio dell’incomprensione.
Non sono poche le barriere culturali che ci impediscono di non trovare mostruoso il comportamento del protagonista o colpevolmente remissivo quello della moglie, ma è il film stesso, probabilmente, ad accrescerli leggermente nella prima parte (come fa d’altronde con la presentazione, quasi in chiave di commedia, delle differenze di comportamento tra le due famiglie) per poi superare le premesse e farsi toccante, nella scoperta del sentimento. E non poteva che essere attraverso uno strumento eminentemente visivo come una macchina fotografica, che Ryota impara che è suo figlio, il suo sguardo e il suo amore, che fanno di lui un padre, non un esercizio di volontà né il gruppo sanguigno.
Father and Son, infine, è anche e soprattutto una riflessione sul tempo, su ciò che crea, che divora, che può e non può mutare.

 

 

 

 il senso della paternità 
Scritto da Yahoo! Notizie

Del cineasta pressoché sconosciuto in Occidente Kore-eda Hirozaku giunge nelle sale italiane dal 3 aprile un ottimo film intitolato “Father And Son”, già vincitore del Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Seppur partendo da un presupposto narrativo che non è certo inedito per il pubblico di casa nostra (tre film molto diversi tra loro ricordano lo scambio tra figli in culla in ospedale al momento della nascita: il comico “Il 7 e e l’8” con Ficarra & Picone, il certo più valido il franco-israeliano “Il figlio dell’altra” e il deludente “I figli della mezzanotte” ), “Father And Son” si merita tutte le attenzioni per la straordinaria sensibilità narrativa attraverso dialoghi e immagini, per l’eccellente costruzione dei personaggi e infine per l’ottima interpretazione del cast. Difficile vedere difetti in quest’opera che, nei suoi 120 minuti di durata, non sembra indugiare mai su una ripetizione inutile o, considerato il tema, su facili sentimentalismi. La storia è quella di un padre, Ryota (Fukuyama Masaharu), architetto di successo e carrierista determinato, ossessionato dall’autoaffermazione e da una certa rigidità educativa nei confronti del piccolo figlio di sei anni Keita. La casa in cui Ryota vive col piccolo e con la moglie Midorino (Ono Machiko) è una sorta di perfetta operazione matematica, le cui cifre sono l’ordine, la disciplina, il benessere. Anaffettivo e razionale, Ryota è convinto che conti la qualità del tempo passato col piccolo, più che la quantità. L’equilibrio della famiglia viene sconvolto dalla notizia che Keita non è il vero figlio di sangue della coppia: per un criminale scambio di pargoli nella culla in ospedale, il vero figlio è finito nella casa di Yudai (Lily Franky), disordinato bottegaio certo non benestante che, con la moglie Yukari (Maki Yoko), alleva tre figli in un modo totalmente opposto a quello di Ryota: tanto affetto, molta istintività. Il progetto dell’ospedale e delle famiglie prevede (per quanto sia difficile da comprendere per noi occidentali…) lo scambio graduale dei figli, frequentandosi nei week end. Ma il problema è che il piccolo Keita si ambienta facilmente nella giocosa casa di Yudai, mentre il figlio naturale di Ryota non ne vuole sapere di adattarsi al regime asettico e militaresco del nuovo papà manager. Conta più il sangue o il tempo passato insieme?
Kore-eda Hirokazu sposa concetti e immagini con grande maestria, contrapponendo spazi differenti (il quartiere popolare della famiglia disordinata, col suo negozio ad altezza strada, opposta al claustrofobico appartamento dei “ricchi”, relegato ad un’altezza da cui si può osservare, ma senza toccare, la brulicante metropoli) e gesti differenti (la postura controllata e la ricerca di comunicazione di Ryota col figlio “attraverso” gli oggetti da una parte, il contatto fisico senza pudore alcuno di Yudai con la propria prole). Il regista e sceneggiatore giapponese riesce anche, in modo mirabile, a raccontarci di un complesso e articolato gruppo di persone, consegnando ad ognuna di esse la giusta attenzione drammaturgica e un profilo umano vero, multidimensionale, nobile e mediocre a un tempo. E contemporaneamente, rende chiaro che il centro della storia, il reale protagonista, è l’anaffettivo padre Ryota: è in lui che deve avvenire la trasformazione interiore, è lui che combatte da solo contro sé stesso e le proprie ferite autobiografiche. Lo sguardo di Kore-eda è di una purezza, di una misura e di un rispetto per i personaggi che poche volte è dato vedere al cinema.
Ferruccio Gattuso

 

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Nebraska

NEBRASKA-Official-Film-Clip-Remember-Me-YouTubeNebraska

Un film di Alexander Payne.

Drammatico, durata 115 min. – USA 2013. – Lucky Red

uscita giovedì 16 gennaio 2014.

– Trama

– Recensione

– Trailer

TRAMA

Woody Grant è un vecchio padre di famiglia alcolizzato che crede di aver vinto un milione di dollari grazie ad un concorso della Mega Sweepstakes Marketing. Decide così di mettersi in viaggio, dal Montana al Nebraska, a piedi. Suo figlio David, dopo vari tentativi di dissuaderlo, decide di accompagnarlo in macchina, lasciandogli credere che il fruttuoso premio sia reale. Sua moglie Kate è contraria al viaggio, ma accetterà di venire nella cittadina in cui viveva prima dove il marito e il figlio hanno fatto sosta prima di raggiungere la città di Lincoln. Per l’occasione ci sarà una rimpatriata di famiglia. Dopo che la falsa notizia della vincita si è diffusa, i vecchi amici e alcuni parenti inizieranno a pretendere dei soldi da Woody, ma quando scopriranno che la vincita è fasulla lasceranno perdere. Arrivato a Lincoln, Woody chiede di riscattare il premio ma verrà confermato che non è lui il vincitore, e quindi tornerà a casa con David, che gli compra un furgone nuovo (come il padre desiderava). Dopo il viaggio il rapporto tra il padre e il figlio è notevolmente rafforzato Recensione 1: Woody Grant ha tanti  anni, qualche debito e la certezza di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Ostinato a ritirare la vincita in un ufficio del Nebraska, Woody si avvia a piedi dalle strade del Montana. Fermato dalla polizia, viene ‘recuperato’ da David, figlio minore occupato in un negozio di elettrodomestici. Sensibile al desiderio paterno e dopo aver cercato senza successo di dissuaderlo, decide di accompagnarlo a Lincoln. Contro il parere della madre e del fratello Ross, David intraprende il viaggio col padre, assecondando i suoi capricci e tuffandosi nel suo passato. Nel percorso, interrotto da soste e intermezzi nella cittadina natale di Woody, David scoprirà i piccoli sogni del padre, le speranze svanite, gli amori mai dimenticati, i nemici mai battuti, che adesso chiedono il conto. Molte birre dopo arriveranno a destinazione più ‘ricchi’ di quando sono partiti. Autore indipendente e scrittore dotato, Alexander Payne realizza una nuova commedia ‘laterale’ come le strade battute dai suoi personaggi, che si lasciano indietro lo Stato del Montana per raggiungere il Nebraska in bianco e nero di Bruce Springsteen. E dell’artista americano il film di Payne mette in schermo la scrittura ‘visiva’, conducendo un padre e un figlio lungo un viaggio e attraverso un territorio che intrattiene un rapporto simbolico col loro mondo interiore. Oscillando tra dramma e commedia, Nebraska, versione acustica di Sideways, coinvolge lo spettatore in un flusso empatico coi protagonisti, persone vere dentro storie comuni e particolari da cui si ricava una situazione universale. Ambientato nella provincia e lungo le strade che la raccordano al mondo, Nebraska frequenta una dimensione umana marginale e fuori mano rispetto all’immaginario hollywoodiano, prendendosi alla maniera del protagonista tutto il tempo del mondo per arrivare a destinazione. Una destinazione dove si realizza un passaggio che non può mai avvenire come effetto di una retorica pedagogica ma si fonda sull’impossibile, l’impossibilità di governare il mistero assoluto della vita e della morte. Non è per sé che il protagonista di Bruce Dern sogna quel milione di dollari, a lui basta un pick-up per percorrere gli ultimi chilometri di una vita spesa a bere e a rimpiangere quello che non è stato. La vincita della sedicente lotteria a Woody Grant occorre per i suoi ragazzi, per lasciare loro ‘qualcosa’ con cui vivere e per cui ricordarlo. Ma David, sensibile e affettuoso, è figlio profondamente umanizzato, testimonianza incarnata di un’eredità più preziosa del denaro. È il figlio ‘bello’ di chi è stato e di cui perpetua adesso il valore. Nebraska è una ballata folk che accomoda allora la bellezza e l’amore, quella di un figlio per il proprio genitore, che prima di lasciare andare torna a guardare dal basso, in una prospettiva infantile e accoccolata ai suoi grandi piedi e al suo piccolo sogno. Intorno a loro scorre l’America lost and found insieme a una storia sincera che battendo vecchie strade, la struttura da road movie che diventa pretesto di ‘formazione’ (Sideways), ne infila una nuova. Nebraska è una spoglia poesia di chiaroscuri, un’indicazione lirica verso le radici, verso i padri, davanti ai dilemmi di tempi paradossali e senza guida. Diversamente dagli antieroi springsteeniani, il protagonista di Payne non cerca terre promesse e non corre sulle strade di “un effimero sogno americano”, decidendo per la lentezza, l’impegno, il rispetto e il senso di responsabilità. L’amabile David di Will Forte è il “giusto erede” di un genitore vulnerabile che Payne non presenta come esemplare ma come testimonianza eccentrica e irripetibile della possibilità di stare al mondo con qualche passione. E quella di Woody è l’amore, lingua franca di un viaggio che contempla le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino. Su quel padre incerto David ritrova il proprio senso e riprende la strada.Marzia Gandolfi mymovie.it

 

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Il passato

il passato

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Il passato

Un film di Asghar Farhadi.

Con Bérénice Bejo, Tahar Rahim,

 Titolo originale Le passé.
Drammatico, durata 130 min. –
Francia, Italia 2013. –
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RECENSIONE
mymovies, Giancarlo Zappoli

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma.
Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti.
Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa.
Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.

(clicca sopra)
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L’impossibile innocenza del lavoro sociale e la contaminazione con la vita

 

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Le professioni di aiuto, per superare il rischio di diventare professioni disabilitanti, sono chiamate a lavorare affinché i destinatari degli interventi – cittadini, famiglie, ragazzi, bambini – non rimangano semplici fruitori delle scelte di operatori ed esperti, ma diventino protagonisti attivi, soggetti che, affrancandosi dalla dipendenza dai servizi, diano vita al proprio racconto personale e sociale.

Una riflessione sul lavoro sociale e su etica e giustizia ad esso connesse per trarre indicazioni operative utili nella definizione dei processi di aiuto.

L’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia ha riconosciuto 10 CREDITI, di cui 5 per la formazione continua e 5 deontologici.
Sono riconosciuti 8 CREDITI ECM per Psicologi, Educatori, Operatori Sanitari.

All’indirizzo http://sulletraccedelsociale.wordpress.com è aperto il blog di discussione dove vengono proposti articoli tratti dalle riviste “Lavoro Sociale ” e “Animazione sociale” e dove i relatori propongono spunti e pensieri per aprire la riflessione e il dibattito sui temi del convegno. Tutti i partecipanti potranno scrivere e confrontarsi.

Per valorizzare l’iniziativa di formazione come occasione di riflessione e di incontro tra gli operatori, per ogni due iscritti di uno stesso Ente, pubblico o del privato sociale, è prevista la partecipazione gratuita di un terzo collaboratore.

Clicca qui per il programma completo

Per informazioni e iscrizioni inviare mail a: formazionecoopcasa@virgilio.it .

Cooperativa Sociale La casa davanti al sole soc. coop. arl
via Cavour, 24 – 21040 Venegono Inferiore (VA)
tel. 0331 864041
www.lacasadavantialsole.org

A Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

hbofamilyA Family Is a Family Is a Family – Cos’è una famiglia? (2010)

Documentario, durata 41′

Regia diAmy Schatz
Con Rosie O’Donnell, Ziggy Marley, Elizabeth Mitchell

 

 

 

 

 

LA TRAMA

Le testimonianze di diversi bambini offrono riflessioni toccanti, profonde e spesso divertenti, su cosa significa per loro la famiglia. Tra i bambini, ve ne sono alcuni con situazioni familiari particolari, come chi ha due padri o due madri, una ragazza adottata dai genitori in Cina o tre fratelli che vivono con la madre e la nonna. Alle loro riflessioni si affiancano gli interventi di Rosie O’Donnell (che parla della propria famiglia con la figlia Vivienne Rose) e diversi intermezzi musicali, alcuni dei quali di Ziggy Marley (che canta con la madre e la sorella) e della musicista folk Elizabeth Mitchell (che canta con il marito e la figlia di sette anni).

IL PROGRAMMAZIONE SU LAEFFE

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    LUNEDÌ 1 LUGLIO ALLE 21:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    MERCOLEDÌ 3 LUGLIO ALLE 22:45

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    SABATO 6 LUGLIO ALLE 20:05

     

  • A FAMILY IS A FAMILY – COS’E’ UNA FAMIGLIA?
    DOMENICA 7 LUGLIO ALLE 23:10

Oh-oh! di Chris Haughton, ed. Lapis (età dai 2 anni)

aaaoh-ohOh-oh! di Chris Haughton, ed. Lapis
età: dai 2 anni
argomento: mamma, incontro, emozioni, animali, nanna, crescere, umorismo, ecologia e ambiente
pagine: 40
formato: 25×26
PREZZO:   € 13,50

Indice

-presentazione libro
-immagini
-recensioni
– premi

 

 

Presentazione  libro
Oh-oh! Il Gufetto è caduto dal nido. Dov’è la sua mamma? Niente paura: lo Scoiattolo più tonto del bosco lo aiuterà a ritrovarla, peccato però che non abbia la più pallida idea di come sia fatta una Mamma Gufo! Per fortuna, dopo una strampalata quanto fallimentare caccia alla mamma perduta, i due incontreranno un ranocchio che riuscirà a riportare il piccolo dalla vera Mamma Gufo. Finalmente anche i bambini italiani potranno leggere questa spassosissima storia scritta e illustrata dal giovane designer irlandese Chris Haughton. Premio DUTCH PICTURE BOOK OF THE YEAR 2012 “MIGLIOR LIBRO DA LEGGERE AD ALTA VOCE”.
…E il finale è tutto da ridere!

IMMAGINI

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gufo2

aaaa-oh-oh-cade

 

 

RECENSIONI
la Repubblica
Andersen
Libri e marmellata
Heykiddo
Liberweb
La Stampa
Atlantidekids
cittadeibimbi
Vivere (La Sicilia)
Mangialibri
Luuk Magazine
Liberweb
Donna Moderna Bambino – Mammechefatica
la Repubblica

 

PREMI

PREMIO ANDERSEN 2013 – MIGLIOR LIBRO 0/6 ANNI
SUPER PREMIO GUALTIERO SCHIAFFINO 2013 – LIBRO DELL’ANNO

Le motivaizoni della giuria:
“Per aver saputo riproporre in forme nuove e accattivanti un tema già presente in altri libri per piccoli lettori.
Per aver declinato il motivo della ricerca (a lieto fine) con sapida,
impensata e al tempo stesso disarmante felicità progettuale.
Per il colto e variegato lindore delle illustrazioni”

A bit Lost (tr. it. Oh-oh!), ha conseguito un grande successo di critica e di pubblico, testimoniato dalla vittoria di numerosi premi e riconoscimenti internazionali:

UK
AOI Best of British Illustration Gold Prize 2010 (Childrens Book Category) UK
The Booktrust Best New Illustrators Award UK
Winner of the Cambridgeshire Picturebook of the year 2011 UK
Long list for the UK Literary Association award
Shortlisted for the British Book Design awards
Longlisted for the CILIP Kate Greenaway award 2012
Waterstones Childrens Book Prize Nomination

IRE
Winner of the Bisto Childrens Book of the Year 2011 Ireland
Winner of the Eilis Dillion Best Debut Book of the Year 2011 Ireland

US
Winner of the Marrion Vannette Ridgway award for best debut picturebook USA

Olanda
Winner of the Dutch Picture Book of the Year 2012

Canada
Winner Early Years Niagara Award

Francia
Nomination Prix des bébés lecteurs de Nanterre Baby Readers’ Prize 2012
Winner Prix Sorcières 2012

Svizzera
Winner of Prix P’tits Mômes Ginevra

Internazionale
IBBY Honour List

NUOVE FAMIGLIE (Leggi gli articoli della rivista Pedagogika.it)

” Nel clima in cui viviamo, definito dai sociologi individualismo di massa, molti genitori non soltanto  organizzano, di fatto, la vita familiare in chiave difensiva, ma trovano difficile negare qualcosa ai loro figli, sia perchè si identificano in loro, sia perchè li vogliono proteggere dal mondo ostile, sia perchè pensano che cedendo alle loro richieste li fanno sentire, se non superiori, almeno uguali ai loro coetanei, sia, ancora perchè hanno difficoltà a tollerare il minimo segno di malumore nei figli.”  (Anna Oliviero Ferraris)

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NOVITA’ PEDAGOGIKA.IT

GENNAIO/FEBBRAIO/MARZO 2013

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Pedagogika.it

Anno 2013 – XVII – 1

Legami in cambiamento e nuove famiglie

Sommario e anticipazioni di lettura

SITO RIVISTA

Editoriale – Maria Piacente

../ Dossier/Legami in cambiamento e nuove famiglie

9 Introduzione

10 Oltre la famiglia naturale, Chiara Saraceno

14 Una pluralità di modi di vivere insieme, Gian Carlo Blangiardo, Stefania Rimoldi

23 La famiglia e le vicissitudini del suo genoma, Pierpaolo Donati

28 Nuove famiglie, nuovi compiti di sviluppo, nuovi costrutti di analisi, Laura Fruggeri

34 Le famiglie oggi in Italia: cambiamenti psicosociali e intergenerazionali, Eugenia Scabini

40 Famiglia, valori e percorsi di coppia in Italia, Giovanna Rossi

47 Nella buona e nella cattiva sorte… Silvia Vegetti Finzi

54 Labilità dei matrimoni e nuove famiglie, Giulia Paola Di Nicola, Attilio Danese

60 Una famiglia sempre meno socializzante? Anna Oliverio Ferraris

64 Nuove famiglie o nuovi sguardi? Prendersi cura dei legami in un’ottica pedagogica, Laura Formenti

70 Andare oltre la crisi educativa delle famiglie: quali i compiti della pedagogia? Alessandra Gigli

75 Dal familiare al sociale. Il doppio attraversamento dell’adolescente migrante, Maria Laura Bergamaschi

80 Due mamme, due papà, tanti nonni e un sacco di fratelli, Cristina Bernacchi, Silvia Pinciroli, Davide Scheriani

../Temi ed esperienze

87 Tra fiaba e vita. Quando le donne sono potenti, Maria Cristina Mecenero

92 Maratona di lettura. I libri parlano a Rovigo, Silvia Rizzi

95 La mediazione culturale nei servizi socio-sanitari, Lucia Ientile

../Cultura

101 Scelti per voi,

  • Libri – Ambrogio Cozzi (a cura di)
  • Musica – di Angelo Villa
  • Cinema – di Cristiana La Capria

113 Arrivati in redazione

115 Questioni di genere a cura del Progetto Alice

118 Sillabario pedagogiko di Francesco cappa

 

 

Corpo celeste

Corpo celestecorpo-celeste-4-140110_0x410

Anno:2011

Durata:100 min

Regia:Alice Rohrwacher

 

 

 

 

INDICE

Trama

Recensioni

Video

 

Trama

Marta è una tredicenne che, dopo dieci anni vissuti in Svizzera, fa ritorno, insieme alla madre, al Sud Italia della sua prima infanzia.

Reggio Calabria, oltre che città di sua madre, è anche il suo luogo di nascita: della città non conserva però alcun ricordo, ma a essa la lega un vago senso di appartenenza.

Marta cerca di adattarsi a questa sua nuova esistenza, sullo sfondo di un sud devastato dalla bruttezza edilizia, dallaspeculazione e dall’abbandono del territorio, culturalmente degradato dalla subalternità dei suoi abitanti agli invasivi modelli televisivi.

Il degrado umano e sociale non risparmia nemmeno la parrocchia, ambiente che dovrebbe orientare la sua crescita spirituale e accompagnare il percorso della bambina fino al sacramento della Cresima: questo itinerario è affidato, infatti, a don Mario, uno spregiudicato prete carrierista, galoppino elettorale per candidati politici, e alla figura di una patetica catechista (Santa), in compagnia di coetanee che sognano il mondo delle «veline». In questo mondo dominato dalla cultura televisiva di massa, non si salva neanche il catechismo, trasformato e degradato in una sorta di gioco a quiz, né, tanto meno, si salva la musica sacra, svilita dallo squallore musicale e letterario dei moderni canti di chiesa di ispirazione pop (significativo, a questo riguardo, è il refrain ripetuto dai bambini: «Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta»).

Marta si ritrova spaesata ed estranea a quell’ambiente, di cui è attenta spettatrice, ma che tuttavia non arriva a comprendere. La ragazza trova una risposta alle sue inquietudini esistenziali proprio nel mondo della Chiesa cattolica, grazie al breve e casuale incontro persona di Don Lorenzo (Renato Carpentieri), un anziano e marginale prete, insediato in un paese di montagna in totale abbandono, dal quale riceverà l’iniziazione alla conoscenza del Cristo e ai misteri della fede. Da lui imparerà che, pur nel suo squallore, anche il pianeta Terra (parafrasando la Ortese) è “corpo celeste o oggetto delsovramondo”.

 

Recensioni

minori.it

Un salto non da poco, quello della tredicenne Marta che, dopo aver vissuto per dieci anni in Svizzera, si trasferisce a Reggio Calabria per seguire la madre che ha deciso di fare ritorno alla sua città natale. Bionda, sguardo ingenuo ma curioso, un volto non comune e a tratti enigmatico, Marta è una specie di piccola extraterrestre, arrivata in Calabria da un “corpo celeste” sconosciuto, che si confronta con una realtà profondamente diversa da quella in cui è vissuta, con tutte le incertezze dettate dall’età di passaggio, nonché da un carattere introverso, schiacciato tra una madre affettuosa ma debole e una sorella maggiore che la prevarica in ogni occasione. È grazie a questo personaggio-guida, eccentrico rispetto al contesto che lo accoglie, che la giovane regista esordiente Alice Rohrvacher ci introduce con Corpo celeste nell’ambiente piccolo borghese che gravita attorno alla famiglia della protagonista e, soprattutto, alla locale parrocchia dove Marta incomincia a frequentare il catechismo in vista della cresima. È su questo microcosmo particolare che il film si concentra, registrando il disagio e la perplessità di Marta di fronte a personaggi, luoghi e situazioni troppo distanti dalla sua esperienza del mondo ma, soprattutto, incapaci di rispondere a quelle domande che ogni adolescente dotato di un minimo di sensibilità si pone di fronte all’enigma della fede. Attraverso il pedinamento della giovane cresimanda, allineando l’obiettivo di una macchina da presa sensibilissima al suo sguardo innocente, capace di comunicare il senso di circospetta estraneità verso un contesto ambientale autosufficiente, che si muove secondo logiche proprie imperscrutabili ai profani, il film mostra e svela una realtà oggettivamente deprecabile senza esprimere giudizi definitivi sui singoli personaggi, concedendosi, tutt’al più, qualche digressione nel grottesco. Forte di una breve ma intensa attività di documentarista, la Rohrvacher spoglia il film da qualsiasi tentativo di analisi sociale condotta attraverso gli usuali strumenti del cinema di fiction (se non per mezzo dell’eccessiva caratterizzazione di alcuni personaggi) per affidarsi interamente alla registrazione delle emozioni della protagonista, tanto più trattenute e soffocate quanto più evidente diviene nel corso del film il divario tra la sua ricerca di risposte al profondo disagio vissuto e l’offerta di un misticismo a buon mercato, ridotto ad oggetto di consumo, ad argomento da quiz televisivo, a rappresentazione da baraccone. Corpo celeste ha il grande merito di registrare il solco sempre più profondo tra una Chiesa rimasta ancorata a un substrato di valori e precetti difficili da aggiornare e modelli di vita giovanili nella pratica distanti anni luce dalla religione ma attraversati in profondità da un bisogno di spiritualità probabilmente più forte che nel recente passato. I tentativi di adeguare la liturgia, il catechismo e tutti i momenti di espressione della fede alle mode giovanili sono goffi e ricalcano un appiattimento della cultura cattolica, ormai spogliata da ogni “mistero”, su quella televisiva nazionalpopolare. In questo la regista compie un’operazione speculare rispetto a quella di Roberta Torre che, con I baci mai dati, mette in scena abilmente l’immaginario pop degli abitanti di un quartiere della periferia di Catania per orchestrare una farsa surreale sugli aspetti più prosaici della religiosità, quelli legati a un misticismo popolare fondato su un’idea della Provvidenza che rimanda più ai concetti di raccomandazione politica o addirittura di vera e propria “protezione” di stampo mafioso che ad altre e più alate fonti di ispirazione. Se nel film della Torre era una moderna statua della Vergine a impartire precetti e a compiere prodigi, in Corpo celesteci si affida all’arrivo in parrocchia di un vecchio crocifisso in legno che rappresenta il Cristo in maniera tradizionale, realistica, per rinnovare la fede dei devoti: la statua, che dovrebbe sostituire il crocifisso in acciaio e plexiglass che fino a quel momento ha adornato la chiesa, è una sorta di enigma per i giovani cresimandi che si chiedono come sia possibile rappresentare la crocifissione, un evento evocato nozionisticamente al solo fine di indottrinarli in vista della cresima ma mai realmente compreso in tutta la sua dirompente drammaticità. Il crocifisso, recuperato dall’intraprendente parroco-imprenditore della parrocchia dall’abside della chiesetta di un paesino abbandonato, è significativamente custodito da un vecchio prete pazzo, una sorta di eremita fuori dal mondo, incapace di arrendersi alle logiche della convenienza e del profitto che sembrano aver inquinato anche la Chiesa, uno dei pochi personaggi con cui Marta sembra riuscire a comunicare per tutto il corso del film. Così come il crocifisso non giungerà mai a destinazione, lasciando al centro della modernissima chiesa alla quale era destinato uno spazio vuoto, allo stesso modo Marta non parteciperà alla cerimonia della cresima: quelli del Cristo e di Marta diventano due “corpi estranei” rispetto a una realtà nella quale tutto sembra sottostare alle ferree logiche del vantaggio, dell’opportunità, della convenienza personale e che ha dimenticato le ragioni della fede e della tolleranza. E se la comunità di fedeli resterà priva di quel corpo di Cristo, attorno al quale si struttura la fede attraverso il sacramento dell’eucarestia, Marta dovrà fare i conti con il proprio corpo in crescita (le prime mestruazioni sopraggiungono proprio nel giorno della cresima), con l’urgenza di altre domande che nascono dal profondo di una natura umana che è fatta di carne, certo, ma anche di uno spirito che andrebbe nutrito attraverso la fede non tanto e non solo in Dio ma soprattutto nell’uomo.

Fabrizio Colamartino

Ritratto sincero di un’adolescente alle prese con i sacramenti, dentro e fuori la Chiesa. Giancarlo Zappoli mymovies.it

Marta ha 13 anni ed è tornata a vivere alla periferia di Reggio Calabria (dove è nata) dopo aver trascorso 10 anni in Svizzera. Con lei ci sono la madre e la sorella maggiore che la sopporta a fatica. La ragazzina ha l’età giusta per accedere al sacramento della Cresima e inizia a frequentare il catechismo. Si ritrova così in una realtà ecclesiale contaminata dai modelli consumistici, attraversata da un’ignoranza pervasiva e guidata da un parroco più interessato alla politica e a fare carriera che alla fede.
Alice Rohrwacher debutta alla regia di un lungometraggio con una prova che testimonia della sua abilità nel dirigere attori e non attori, garantendo quella naturalezza che per un film come Corpo celeste è una qualità indispensabile. Deve infatti sostenere la veridicità di una condizione di degrado culturale e ambientale locale con il massimo possibile di verosimiglianza. Perché il film della Rohrwacher si colloca come un Gomorra della spiritualità in cui (forse casualmente forse inconsciamente) proprio uno degli attori di quell’opera interpreta il ruolo di un parroco desolatamente impermeabile a una fede vissuta a capo di una comunità culturalmente fatiscente. In essa si aggira la piccola Marta, adolescente in formazione che solo nella madre sembra trovare un’amorevole comprensione. Tra balletti di bambine ispirati alla peggiore tv, frasi del catechismo deprivate di qualsiasi senso grazie a una catechista incolta ma volonterosa e vescovi e loro segretari dal volto grifagno o dallo sguardo raggelante, Marta va verso la Cresima attraversando dei gironi spiritualmente infernali in cui non manca neppure un sacrestano lombrosianamente così pericoloso da annegare gattini appena nati. Un appiglio affinché una sua possibile fede possa non essere totalmente dissolta nell’acido muriatico di un’insipienza eretta a sistema potrebbe venirle da un anziano e isolato sacerdote che le fa conoscere la ‘follia’ di Cristo.
Ciò che non convince nella sceneggiatura (a differenza di film come Cosmonauta e I baci mai dati sicuramente non teneri con la Chiesa) è la compressione dell’ottica. Noi conosciamo Marta solo per quanto attiene la sua vita in casa (in misura minore) e la sua attività in parrocchia. Come se il Catechismo per una ragazzina di 13 anni fosse oggi pervasivo come per un’educanda in un collegio di inizio Novecento. Marta non sembra avere altre occasioni di vita o di relazione sociale (la scuola ad esempio?). Non avendo esperienza diretta della realtà calabra che Rohrwacher ha voluto portare sullo schermo non ci si può permettere di negarne la verosimiglianza. Si può solo constatare che, per fortuna, il mondo ecclesiale italiano è molto più complesso e articolato.

 

Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Se una regista nemmeno trentenne è capace di creare con pochi mezzi e tante idee un film come Corpo Celeste, si può essere ottimisti sul futuro del cinema italiano. A Cannes il film di Alice Rohrwacher è parso a molti il film più interessante della Quinzaine, laboratorio del futuro dove hanno esordito fra i molti Fassbinder e Herzog, Carmelo Bene e George Lucas, Oshima e Jarmusch e i fratelli Dardenne. È presto per dire se Rohrwacher si aggiungerà alla lista, ma certo il suo è un esordio folgorante. Corpo celeste, molto liberamente tratto dal romanzo della Ortese, è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta, 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. La circostanza narrativa che la scoperta della ragazzina avvenga attraverso un corso di catechismo improntato ai più sconci luoghi comuni televisivi non deve ingannare. Corpo celeste è già diventato un piccolo culto per le associazioni anti clericali, per quanto la regista si affanni a ripetere a ragione che non si tratta di un film contro la Chiesa e tanto meno contro la religione. Semmai è un film contro la vera religione dell’Italia contemporanea, il conformismo televisivo e l’opportunismo politico, che sono la negazione stessa di ogni spiritualità. Non per caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio, il bravissimo Renato Carpentieri, che rivela a Marta la follia di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell’umanità. La questione è che ormai si scambiano, si possono scambiare i fatti per satira e il racconto nudo per intenzione caricaturale. In questo la Rohrwacher è favorita dall’esperienza di documentarista. Le scene e i personaggi più surreali del film sono in realtà i più vicini alla realtà. Il prete di parrocchia che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che s’ispira ai quiz televisivi (Chi vuol esser cresimato?) per “vendere” ai ragazzi il cattolicesimo, sono figure che s’incontrano a ogni angolo di periferia italiana. Come s’incontrano i ponti che collegano il nulla al nulla, le tangenziali inutili, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche. Questa è l’Italia che appare allo sguardo di un’adolescente cresciuta in Svizzera e questa sarebbe agli occhi di noi italiani adulti, se non volessimo dimenticarla. Un paese che ha perso il suo dio, la propria identità e va a cercarsi una ragione di stare insieme davanti a uno schermo televisivo, intonando canzoncine e slogan dementi ma alla moda («Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta»). Tanti anni fa, nel dopoguerra, un grande antropologo, Ernesto De Martino, descrisse la «crisi della presenza» delle società rurali del Mezzogiorno come profezia di un mondo che avrebbe smarrito ogni senso d’identità e appartenenza. Corpo celeste è in parte il racconto di questa profezia avverata, qui e ora. Un bellissimo film civile, quindi, e forse il primo effetto della rivoluzione cinematografica scatenata dal più importante film del decennio passato, Gomorra di Matteo Garrone. Con il quale non condivide i temi, visto che la criminalità organizzata è volutamente tenuta fuori dal ritratto, per quanto sia più dominante a Reggio Calabria rispetto a qualsiasi altra città d’Italia, Napoli e Palermo comprese. Ma ne ricorda i climi, la corruzione dei costumi quotidiani, i paesaggi e ne condivide l’attore protagonista, il sempre straordinario Salvatore Cantalupo. Un’altra prova del talento della regista è la capacità, come per Garrone, di far recitare allo stesso livello professionisti eccelsi come Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli, con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Per esempio la piccola protagonista, Yile Vianello, una delle migliori attrici adolescenti fra le molte vista a Cannes. Per non parlare della catechista Santa, Pasqualina Scuncia, un talento naturale di attrice che misteriosamente fin qui ha sempre fatto nella vita la tabaccaia. Un’Italia che non vedremo altrove, un piccolo film da non perdere, una giovanissima regista già avviata verso una splendida avventura nel cinema italiano e mondiale.

TRAILER

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