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Miracolo a Le Havre ( Kaurismäki, 2011)

 

 

Miracolo a Le Havre

Un film di Aki Kaurismäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo.

Titolo originale Le Havredurata 93 min

  • Il nuovo film di Aki Kaurismäki, mago finlandese delle emozioni, è una favola dai toni lievi e delicati, che tocca uno degli argomenti più attuali: l’immigrazione. Per noi Le Havre rappresenta solo una cittadina portuale, famosa per i suoi intensi scambi commerciali. Ma per i clandestini è una meta agognata, dalla quale imbarcarsi per l’Inghilterra mediante un piccolo tragitto sulla Manica. Quelle navi merci che per noi sono simbolo di ricchezza e di commercio, per gli immigrati sono un nascondiglio per raggiungere la “terra promessa”. È questa la storia di Idrissa, un ragazzino che arriva dall’Africa, perennemente inseguito dalla polizia e con il grande sogno di ricongiungersi con la famiglia che si trova a Londra. Incontra un angelo custode, l’anziano Michel, un lustrascarpe dall’animo sensibile e artistico, il quale cercherà di aiutarlo in tutti i modi. In Le Havre ci sono i tipici personaggi di Kaurismäki sospesi tra Chaplin, l’estetica degli anni cinquanta, una dimessa eleganza e un’icastica bontà, come già in quel Nuvole in viaggio che nel ’96, con le sue battute glaciali e i colori da modernariato ante litteram, sedusse la Croisette e portò finalmente fuori dalla Finlandia il nome di Kaurismäki. Una favola realistica e ironica, popolata di personaggi ritratti in tutta la loro umanità e i loro sentimenti. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes.
  • La scelta di Kaurismäki fa sì che la riflessione sulla condizione dei minori migranti da lui avanzata si allontani dalle logiche dello spettacolo o dell’intrattenimento fine a se stesso, rinunci alla fatica di confrontarsi da una parte con lo stereotipo dello straniero da abbattere e dall’altra con il dispiegarsi di un fenomeno che il cinema deve certo raccontare, ma che non ha i mezzi per rappresentare in tutta la sua ampiezza e complessità. E sappia collocarsi piuttosto in mezzo o meglio ancora fuori e oltre i discorsi comuni, scegliendo una narrazione che va dritta al cuore dei principi e dei valori, dei diritti e dei bisogni dell’uomo. Quelli che alcuni chiamerebbero “non negoziabili”. Ma la macchina da presa del regista non si prende sul serio, non fa sermoni, non ha verità precostituite. Si accontenta di mettere in scena il miracolo di un concerto rock d’altri tempi, di una guarigione inaspettata, di un ciliegio che fiorisce nel giardino di casa.Marco Dalla Gassa  minori.   Marco Dalla Gassa  minori.it

 

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Il piccolo principe

Indice
Scheda
Testo integrale
Lettura psicoanalitica del libro
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Scheda
IL PICCOLO PRINCIPE ( Antoine de Saint-Exupéry)

Un pilota di aereo, precipitato nel deserto, incontra un bambino semplice, che per prima cosa gli chiede “Mi disegni una pecora?”. Allibito, il pilota, disperato per la situazione in cui si trovano, non si capacita di questa ed altre richieste strane del bambino. Questi, poco per volta, dice di essere il principe di un lontano asteroide, sul quale abita solo lui e una piccola rosa, molto vanitosa, che lui cura e ama.

Il piccolo principe racconta che, nel suo vagare per lo spazio, ha conosciuto diversi personaggi strani, ciascuno dei quali gli ha insegnato qualche cosa. La cura per la sua rosa lo ha fatto soffrire molto, perché spesso questa si è mostrata scorbutica o molto pretenziosa. Ora però che è lontano, il Piccolo Principe scopre piano piano che le ha voluto bene, e che anche lei gliene voleva. Purtroppo però non si capivano. Il piccolo principe, proveniente dall’asteroide B612, aveva bisogno della pecora per farle divorare gli arbusti di baobab prima che crescessero e soffocassero il suo pianeta.

E da qui inizia il racconto dei pianeti che il piccolo principe ha visitato, con gli strani personaggi che li abitano. Da ciascuno di essi il piccolo principe se ne va con l’idea che i grandi siano ben strani, e con un piccolo insegnamento per sé:

un pigro, che ha trascurato i baobab del proprio pianeta da piccoli, ha scoperto che se si lasciano crescere i baobab, questi soffocano tutto quello che c’è;
il signor Cremisi, su un altro pianeta, ha passato la vita a contare le stelle, allo scopo di diventare più ricco e comprare altre stelle, senza amare nessuno, ripetendo come un fungo: “Io sono una persona seria”;
un vecchio re solitario, che si crede onnipotente, cerca di farlo suo ministro, dando ordini solo in modo da essere sempre ascoltato;
un vanitoso chiede solo di essere ammirato e applaudito, senza ragione;
un ubriacone beve per dimenticare la vergogna di bere;
un lampionaio deve accendere e spegnere il lampione del suo pianeta ogni minuto, perchè il pianeta gira a quella velocità; per quest’uomo il piccolo principe prova un po’ di ammirazione perché è l’unico che non pensa solo a se stesso;
un geografo sta seduto alla sua scrivania ma non ha idea di come sia fatto il suo pianeta, perché non dispone di esploratori da mandare ad analizzare il terreno e riportare i dati.

Questi consiglia al piccolo principe di visitare la Terra, sulla quale finalmente il nostro protagonista giunge, con grande stupore per le dimensioni e per la quantità di persone. Il suo primo incontro, nel deserto, avviene con un serpente, simbolo della morte, che però è vista in senso positivo, come l’inizio di un viaggio. Proseguendo con il suo viaggio, egli incontra un piccolo fiore, delle alte cime, ed infine un giardino pieno di rose fiorite. La sua rosa aveva raccontato al piccolo principe di essere l’unica di quella specie in tutto l’universo, e quindi egli rimane molto deluso da questa scoperta. Ma non fa in tempo a pensarci molto, che compare un piccolo volpe, che gli chiede di essere addomesticato e di essere suo amico. La volpe parla a lungo con il principe dell’amicizia, della sua rosa, che in realtà è unica al mondo per le cure e l’amore che lui le ha prodigato; poi, alla fine del loro incontro, gli rivela il suo segreto: “Non si vede bene che col cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Il principe incontra poi un indaffarato controllore, che non sa giustificare la ragione per cui la gente va avanti e indietro sempre di fretta; l’ultimo interessante incontro è con un venditore di pillole che calmano la sete, facendo risparmiare un sacco di tempo. Dopo aver ascoltato tutto il racconto del piccolo principe, il pilota non è riuscito a riparare l’aereo e ha terminato la scorta d’acqua. Ecco allora la proposta assurda e ingenua del bambino: “Anch’io ho sete… cerchiamo un pozzo… “.

Dopo una giornata di cammino, i due si fermano stanchi su una duna ad ammirare il deserto nella notte, bellissimo nella sua maestosità, ma bellissimo soprattutto perché “ciò che abbellisce il deserto”, disse il piccolo principe, ” è che nasconde un pozzo in qualche luogo…”. Di qualunque cosa si tratti, quello che fa la sua bellezza è invisibile. Con in braccio il bambino addormentato, il pilota cammina tutta la notte, e finalmente all’alba scopre il pozzo. “Un po’ d’acqua può far bene anche al cuore” commenta il piccolo principe, e bevono entrambi con gioia. Il pilota torna al lavoro al suo apparecchio, e la sera seguente ritrova il piccolo principe ad attenderlo su un muretto accanto al pozzo, mentre parla con il serpente che aveva incontrato. Il piccolo principe tornava lì, dopo un anno dall’arrivo sulla terra, per tornare al suo pianeta. Il serpente, con il suo morso, era il mezzo per potersi liberare del corpo, troppo pesante per arrivare così lontano. E così, nella notte, in una scena struggente, il piccolo principe fa il grande passo per ritornare dalla sua rosa. Il suo corpo cade a terra, esanime, ma “sarà come una vecchia scorza abbandonata”. Ancora una volta, “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

E il piccolo principe così, forse, ritorna dalla sua rosa, con la pecora, la scatola e la museruola. E lascia in regalo al pilota, e a tutti noi, il suo sorriso, il suo messaggio, e un mare di stelle da guardare, sapendo che lassù, da qualche parte, un piccolo principe sta prendendosi cura della sua rosa

Testo integrale > Il_piccolo_principe

Lettura psicoanalitica del libro

DA ALCUNE RIFLESSIONI SUL «PICCOLO PRINCIPE», «Aspetti cruciali della relazione madre-bambino» (www.consultorio famiglia giovani.it)

DOTT.SSA CARLA BUONGIOVANNI e DOTT.SSA IMMA MANCINI

PREMESSA

A un certo punto della vita la maggior parte degli esseri umani desidera avere dei bambini e desidera anche che i propri figli crescano sani, felici e fiduciosi di sé. Per quei genitori che ottengono questi risultati le soddisfazioni sono grandi; ma per coloro che pur avendo dei bambini non riescono a crescerli sani, felici e fiduciosi di sé, le pene, sotto forma di angoscia, frustrazione, attrito e forse anche vergogna o colpa, possono essere severe. Essere genitori con successo significa lavorare molto duramente. Sia che ci si occupi di neonati o bambini che muovono i primi passi, sia che si tratti di bambini un po’ più cresciuti, se si vuole che crescano bene è necessario fornire loro moltissimo tempo e moltissime attenzioni.

Ma dare tempo e attenzioni significa spesso sacrificare altri interessi e altre attività e per molte persone oggi queste sono verità sgradevoli. Inoltre, poiché fare il genitore con successo è una chiave di volta per la salute mentale delle nuove generazioni, abbiamo bisogno di sapere tutto il possibile riguardo alle molteplici condizioni sociali e psicologiche che influenzano in positivo o negativo lo sviluppo di tale processo. Perché proprio come una società in cui esiste una cronica insufficienza di cibo può assumere come sua norma un livello di nutrizione deplorevolmente inadeguato, così è possibile che una società nella quale i genitori dei bambini piccoli vengano abbandonati a se stessi, in una cronica insufficienza d’aiuto, consideri questo stato di cose come normale.

IDEA GUIDA E SCOPO DEL LAVORO

L’idea guida del presente lavoro è rappresentata dalle dinamiche psicologiche che sottendono la relazione madre-bambino e che condizionano il processo comunicativo all’interno della relazione stessa. Ogni rapporto umano infatti è un rapporto di comunicazione e noi sappiamo che ogni individuo nel momento in cui comunica, cioè nel momento in cui emette-riceve un messaggio, mette in gioco le proprie caratteristiche personali che possono favorire o distorcere la comprensione del messaggio stesso. Ogni forma di decodifica di un messaggio non è mai neutrale perché giocano sempre, nei rapporti comunicativi, sentimenti di vario genere: vulnerabilità, ansia, difesa, svalutazione o ipervalutazione delle proprie capacità.

Le «barriere» alla comunicazione possono essere, infatti, di tipo percettivo, cognitivo, culturale, di difesa del sé. Partendo perciò da una interpretazione psicoanalitica della favola del «Piccolo Principe» di Antoine de Saint-Exupery, che ci aiuti a mettere in luce tutta la difficoltà e l’ambivalenza di una relazione genitoriale, cercheremo di riflettere sia sulla storia della infanzia secondo una prospettiva psicoanalitica che ne sottolinei le diverse modalità di espressioni delle cure materne a seconda delle epoche storielle e del livello di maturità psichica del genitore, sia sulla figura emblematica della madre nel suo particolare ruolo di «contenitore» delle esperienze emozionali del figlio e come principale figura di attaccamento nello sviluppo psicofisico del bambino.

UNA INTERPRETAZIONE PSICOANALITICA DEL PICCOLO PRINCIPE

La favola del Piccolo Principe, il più bei testo di Saint-Exupery, per un gran numero di persone del nostro secolo è stato il racconto chiave della vita, forse perché ripropone l’eterno sogno di una infanzia perduta, forse perché presenta quel senso di liberazione dall’insensato coercitivo mondo delle «persone grandi», forse per le immagini incantevoli con cui esprime la fiducia nella fedeltà incondizionata dell’amore, cioè di quel legame d’amore e di amicizia che nemmeno la morte può vincere.

Tuttavia proprio il mondo della poesia si presta facilmente, in ogni momento ad assumere una funzione di droga per il lettore, cioè di possibile fuga dalla realtà e ogni lettura di vera poesia, che non comporti una analisi riflessiva fallisce nella sua autentica intenzione. Pertanto l’interpretazione di una poesia serve proprio a far emergere il contenuto psicologico e esistenziale di verità in essa racchiuso.

E questo l’intervento di Drewermann nel volere interpretare, secondo una prospettiva psicoanalitica, la favola del Piccolo Principe.

Ad uno sguardo attento, infatti, non può sfuggire come l’atmosfera del Piccolo Principe sia pregna di nostalgia e rimpianti, come cioè questa storia di Exupery racconti di un sogno mai diventato realtà, di una vita mai vissuta, i cui contenuti sono rimasti pura aspirazione. Il racconto inizia infatti con la descrizione di quanto gli adulti possano distruggere in un bambino, ancor prima che inizi realmente la sua vita, esprimendo così il lamento della speranza riposta in una vita, che, probabilmente, se non fosse stata impedita, sarebbe stata chiamata a grandi cose. Gli adulti vengono così raffigurati come «soffocatori di umanità», come persone cioè adattate alla normalità della loro freddezza, del loro cinismo, della loro perdita di speranza. Di essi viene sottolineata l’incapacità di dialogo, l’isolamento spirituale, il loro rinchiudersi in un ghetto narcisistico. Ma questa critica commiserazione dei vizi e delle deformazioni degli «adulti» resta alla fine solo rigida e sterile perché manca qualsiasi accenno nel racconto ad una possibilità di riscatto, di cambiamento, di mediazione.

Effettivamente colpisce il fatto che il Piccolo Principe non termina come dovrebbe terminare una vera fiaba, cioè con un lieto fine: una conclusione psicologicamente soddisfacente sarebbe stata quella di indicare quali possibilità avrebbe «un adulto» di modificare il suo erroneo comportamento, come cioè sia possibile trovare e vivere realmente, qui ed ora, amore e fedeltà.

Il Piccolo Principe dovrebbe cioè poter vivere sulla terra, senza essere «costretto» a morire.

Gli insegnamenti della volpe che pure in teoria avrebbero dovuto avere una valenza trasformativa, innovativa, producono nella storia come unico effetto visibile un sentimento di tristezza e nostalgia per una speranza perduta. Alla fine del suo viaggio planetario il Piccolo Principe fa ritorno al suo piccolo pianeta per fedeltà alla sua «rosa», mentre l’aviatore precipitato riprende la sua vita da «adulto» ancor più tormentato dalla nostalgia e più che mai triste, ma sempre ugualmente incapace di trasferire nella propria esistenza la figura del Piccolo Principe.

Exupery scrisse questa novella in un periodo di vuoto personale e di delusione, di aridità interiore, in un momento in cui i pensieri erano volti al passato. All’aviatore «precipitato» viene incontro «il bambino» che mai era riuscito a vivere in lui, quasi a voler recuperare quell’immagine autentica di sé che sentiva di aver perso soprattutto nella comunicazione. Ma il Piccolo Principe non regge questa aspettativa e resta il simbolo di possibilità di vita soffocate.

Per poter comprendere cosa impedisce al Piccolo Principe di realizzare il suo messaggio d’amore e di fedeltà sulla terra dobbiamo ricollegarci, allora, al mistero della «rosa» che sembra racchiudere il motivo della singolare malinconia che aleggia sulla narrazione. Adottando una prospettiva psicoanalitica troviamo che il mistero della «rosa», il cui abbandono procura al Piccolo Principe così forti sensi di colpa, si rivela come il mistero della madre. Infatti ad una analisi attenta del linguaggio e della simbologia adottata da Exupery nella fiaba viene da sospettare che i racconti del Piccolo Principe riguardo al «pianeta della rosa» siano fin nei particolari ricordi autobiografici cifrati, e precisamente il resoconto cifrato della sua infanzia poco rosea. Realmente in Exupery viveva la figura del Piccolo Principe con le sue preoccupazioni, i suoi sensi di colpa, le sue angosce e il suo senso del dovere nei confronti della misteriosa «rosa» che altro non era che sua madre.

D’altra parte quasi a conferma dell’esattezza di queste interpretazioni nelle lettere che Exupery scrisse alla madre nell’arco di 20 anni ci è dato ritrovare gli stessi sentimenti di preoccupazione, di tristezza, di ricerca di protezione, di dipendenza e pretesa fedeltà verso la madre, rimasti invariati, pur essendo intercorsi la formazione culturale, la professione, il matrimonio e la guerra. Nel Piccolo Principe si rivela, quindi, per quanto celato nella cifra dei simboli, il legame mai dissolto e indissolubile di Exupery con la madre, con tutto quello che comporta in termini di nostalgia, ambivalenza, sensi di colpa.

1.2. Il Piccolo Principe e il mistero della rosa-madre.

La relazione del Piccolo Principe con la rosa-madre appare subito segnata dal conflitto e dall’ambivalenza: le prime notizie che il piccolo Principe ci fornisce del fiore si riferiscono sia alla sua affabilità, affettazione ed egocentrismo esigenti sia al suo sentirsi inerme e indifesa.

Al mattino, appena sveglia, la rosa desidera far colazione e il Piccolo Principe deve compiere il suo servizio con annaffiatoio e acqua fresca. Il tono con cui la rosa da le sue disposizioni suona solenne: ogni insubordinazione verrebbe ad essere un atto di lesa maestà. La rosa si mostra sensibile in modo esagerato e innaturale alle «correnti d’aria», alle «escursioni termiche», costringendo così il Piccolo Principe a procurarle una «campana di vetro» perché non abbia a raffreddarsi.

Appare così come un segnale d’allarme il problema che il Piccolo Principe sottopone subito all’aviatore appena conosciuto, attraverso la domanda angosciante: Perché la rosa ha le spine?

Perché, in altre parole, la madre, in tutto così degna e ricca d’amore, possa essere così aspra, così offensiva, così inquisitiva.

Ma il Piccolo Principe non osa mettere in dubbio la bontà e l’irreprensibilità della madre, perché altrimenti la simbiosi totale madre-fìglio ne sarebbe terribilmente minacciata. Egli cerca spiegazioni che allontanino ogni sospetto dell’immagine positiva della madre, che «deve» apparire solo debole, inoffensiva, indifesa. Ma da che cosa «la rosa» dovrà essere difesa dal bambino protettore-protetto, che per ottenere e garantire l’amore della madre dovrà, in fondo, prendere il posto del marito?

Vari sono i pericoli che sul pianeta del Piccolo Principe potrebbero farsi minacciosi per la rosa, anche se nessuno ha vera consistenza. C’è il pericolo dei baobab, alberi grandi come chiese, che farebbero scoppiare il pianeta con la loro imponenza e le loro radici: ciò rappresenta, secondo Drewermann, il pericolo che il Piccolo Principe possa diventare troppo orgoglioso, impertinente e presuntuoso, perciò occorre un minuzioso lavoro quotidiano per «strappare» i baobab appena spuntano. C’è poi il pericolo della «tigre» che potrebbe arrivare sul pianeta, il pericolo cioè che il piccolo Principe possa essere troppo offensivo e brutale; infine c’è il pericolo che il Piccolo Principe – dopo un periodo lungo di separazione – faccia ritorno sul pianeta della rosa con una pecora. Anche il simbolo della pecora è piuttosto ambiguo e acquista senso se lo si riferisce al rapporto di Exupery con la madre. Il Piccolo Principe prega «l’aviatore» di disegnargli una «pecora» ma è assolutamente necessario che la «pecora» abbia la «museruola» per non mangiare la rosa. Il Piccolo Principe, per poter vivere al fianco della madre deve entrare nella parte della «pecorella»: in tutti i casi di conflitto sarà lui a doversi dichiarare colpevole in luogo della madre; quando non comprenderà la madre con le sue «spine» e i suoi capricci, dovrà sempre imputarlo alla propria stupidità; quando la madre lo ferirà, dovrà considerarlo sempre effetto del suo comportamento impertinente e sfacciato.

Notiamo qui come il bambino-Exupery abbia riprodotto in modo straordinario il processo di pensiero di un adulto per poter rimanere il bambino della madre, con sforzi notevoli di adattamento.

L’esigenza di «legare la bocca alla pecora» è qualcosa che procura al Piccolo Principe angoscia e inquietudine perché peggiore della propria morte è alla fine la possibilità terribile, minacciosa, presente in ogni momento, di uccidere con una parola errata la «fragile rosa», la povera madre. Il Piccolo Principe ricorda così la più terribile fra le armi materne: la minaccia ricattatoria di lasciarsi morire per gravare i figli di un mortale senso di colpa. Non meraviglia, perciò che il Piccolo Principe preferirà veder negato il diritto alla propria vita, piuttosto che sentirsi colpevole di aver determinato col suo comportamento, la possibile morte della madre. Tale senso di colpa avvelenerà alle radici il rapporto madre-fìglio.

Per vivere con una simile rosa-madre – dice più avanti il Piccolo Principe a se stesso – ci sarebbe un solo mezzo: non si dovrebbe prendere troppo sul serio le sue parole, si dovrebbero capire i suoi rimproveri e le sue depressioni come manifestazioni di amore, di tenerezza, si dovrebbe considerare quanto sia amabile la rosa di per se stessa.

Ma tutto ciò richiedeva uno spirito di libertà e di indipendenza che nessun bambino, finché resta tale, possiede. «Ero troppo giovane per saperla amare», dirà più tardi il Piccolo Principe quando, fuggito dalla rosa-madre come da un pericolo mortale, riscoprirà nella fuga, e proprio a motivo della fuga, di essere tormentato da ancor più forti sensi di colpa.

Non appena il Piccolo Principe da corso seriamente alla sua muta protesta e inizia i preparativi per la partenza, la rosa si mostra sorprendentemente coraggiosa, dolce e comprensiva come non mai: ammette anche una certa colpevolezza nell’esito tragico del loro rapporto. Ma il suo consenso, anzi il desiderio che il Piccolo Principe possa, indipendentemente da lei, costruire e trovare la felicità, lo legano alla povera rosa ancor più strettamente di quanto non abbiano fatto in precedenza tutti i rimproveri subiti.

D’ora innanzi non lo abbandonerà più la preoccupazione per la salute e la sofferenza della madre: la stessa felicità che dovrebbe raggiungere sarà avvelenata dal senso di colpa per averla ottenuta al prezzo delle lacrime della rosa, se non addirittura col sacrificio della sua vita.

La dinamica del complesso di Edipo vince dunque, con il ritorno del bambino al mondo della rosa-madre, decisione questa che ha, come prezzo inevitabile, la morte del Piccolo Principe sul pianeta terra e il suo viaggio definitivo nel regno dell’utopia.

2. DINAMICHE PSICOLOGICHE DELLA INTERAZIONE MADRE-BAMBINO

Abbiamo visto come Exupery sin da piccolo, sentì sulla propria pelle tutta l’incomprensione degli adulti, l’incapacità cioè degli adulti ad entrare in empatia col mondo dei bambini, e coglierne il significato più profondo e autentico dei loro gesti, dei loro comportamenti. «Bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi… […] non capiscono mai niente da soli […]» dirà Exupery a proposito dei suoi disegni immancabilmente fraintesi perché non decifrati empaticamente. La prova del disegno era diventata ormai per lui un esperimento per capire se la persona adulta che aveva di fronte era comprensiva. E quando, come succedeva nella maggior parte dei casi, il suo disegno non era «capito», era lui, bambino, ad «abbassarsi» al livello dei grandi, ed entrare cioè nel mondo degli adulti nei loro valori, nei loro riferimenti categoriali: «Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte» diceva con rassegnazione.

Nell’ambito delle relazioni con gli adulti, emblematico abbiamo visto, era il rapporto di Exupery con la madre: tutto il suo pensiero appare infatti dominato, come sottofondo, da un legame fortemente ambivalente con la madre che si esprimeva in un eterno conflitto tra attaccamento e distacco, dipendenza e libertà, sicurezza e ribellione.

Tutto questo ci induce ad affrontare la complessa questione delle dinamiche psicologiche che intervengono nella relazione adulto-bambino, e in particolare nella relazione madre-bambino che foggia, dando l’imprinting, tutti i tipi di relazione che il bambino vivrà nel suo sviluppo. Sempre adottando una prospettiva psicoanalitica, appare allora doveroso gettare anche uno sguardo ai modelli educativi e ai principi psicologici, ad essi sottesi, che sono stati seguiti nel corso della storia, volendo così evidenziare i mutamenti storici connessi alle cure materne.

2.1 Principi psicologici e modelli educativi nella storia dell’infanzia.

A) L’evoluzione dell’infanzia da una prospettiva psicoanalitica: principi psicologici.

La storia dell’infanzia è un incubo dal quale solo nell’ultimo secolo si è cominciato a destarci. Più si va addietro nella storia, più basso appare il grado di attenzione per il bambino, e più frequentemente tocca a costui la sorte di venire assassinato, abbandonato, picchiato, terrorizzato. Gli storici, in passato, erano così concentrati su qual sensazionale teatro che è la storia, con i suoi castelli e le sue battaglie grandiose, da ignorare di solito cosa stesse accadendo all’interno delle case.

È invece importante chiedersi in che modo ciascuna generazione di padri e figli ponga le premesse dei fenomeni che più tardi emergeranno nella vita pubblica.

Secondo De Mause quando un adulto si trova faccia a faccia con un bambino che ha bisogno di qualcosa, tre sono le reazioni possibili: a) può usare il bambino come veicolo per le proiezioni che soddisfano il suo stesso inconscio (reazione di proiezione); b) può usare il bambino come sostituto di una figura di adulto importante durante la sua infanzia (reazione di reversione); e) può mettersi in sintonia con i bisogni del bambino ed operare per soddisfarli (reazione di empatia). Nel primo caso il bambino è ricettacolo dei propri pensieri, desideri, sentimenti. È questa una forma drastica di scaricare sugli altri il proprio vissuto emotivo, un po’ come avviene allo psicoanalista che, per esempio, è abituato ad essere usato per le massicce proiezioni del paziente. Questa condizione di veicolo delle proiezioni altrui è – secondo De Mause – quella normale di un bambino del passato. Nella reazione di reversione, invece, i figli esistono solo per soddisfare i bisogni dei genitori, ed è sempre l’incapacità di amare del figlio-genitore a scatenare le violenze. Una di queste madri dichiara: «Non mi sono mai sentita amata per tutta la vita. Quando il piccolo nacque, pensai che mi avrebbe amato. Quando piangeva, voleva dire che non mi amava, e così lo picchiavo». La reazione empatica è la capacità dell’adulto di regredire al livello del bisogno infantile e di identificarlo correttamente senza aggiungere le proprie proiezioni: l’adulto deve essere in grado di mantenere una distanza sufficiente tra il bisogno e la capacità di soddisfarlo. Spesso nei genitori del passato (ma certamente ancora oggi) troviamo contemporaneamente reazioni di proiezione e di reversione, producendosi così un effetto definito da De Mause come «doppia immagine»: il bambino è visto come contenitore delle proprie proiezioni, e nello stesso tempo come figura materna o paterna, vale a dire è insieme affettuoso e cattivo, amato e odiato, premiato e punito. La funzione del piccolo è, in questo caso, di ridurre le pressanti ansie dell’adulto, di agire in sua difesa. Sono sempre queste due reazioni a rendere impossibile il senso di colpa nelle severe punizioni che così spesso si riscontrano nel passato. Ciò accade perché non è il bambino in sé che viene picchiato, ma la proiezione dell’adulto, le emozioni che questi non accetta. Quando i bambini vengono spaventati e terrorizzati con storie o immagini di streghe e fantasmi pronti a rapirli, mangiarli, tagliarli a pezzi solo perché piangono o hanno fame o vogliono giocare, significa che l’ammontare delle proiezioni ed il bisogno da parte dell’adulto di tenerle sotto controllo ha raggiunto proporzioni notevoli. Non solo le punizioni e i sistemi di controllo dei bambini possono scaturire da proiezioni ma anche le cure. «Le cure da proiezione» – come le definisce De Mause per distinguerle dalle cure empatiche – implicano costantemente una preliminare proiezione dell’inconscio dell’adulto sul bambino, e si differenziano da quelle empatiche per essere inappropriate o insufficienti ai bisogni effettivi del piccolo: ad esempio la madre che reagisce con l’allattamento al minimo disagio del bimbo, la madre che presta molta attenzione all’abbigliamento del neonato prima di uscire di casa.

La reazione di reversione corre parallela e quella di proiezione, rovesciando i ruoli di genitori e figli, e spesso producendo effetti bizzarri. La reversione inizia molto prima della nascita del figlio: è la causa del desiderio prepotente di avere figli (che si nota nel passato), sempre espresso nei termini di ciò che i figli possono dare ai genitori, e mai in modo contrario.

Una volta venuto al mondo, il bimbo diventa genitore del padre e della madre, in aspetto positivo o negativo, senza alcun rapporto con la sua età effettiva. In tutti questi casi non è l’amore che manca ai genitori, ma piuttosto la maturità emozionale necessaria sia per vedere il figlio come una persona a sé, che per comunicare con lui attraverso una comprensione empatica del suo mondo più intimo. Un atteggiamento empatico presuppone, infatti, la capacità di «ascoltare» con una certa sensibilità, di cogliere cioè la complessità dei significati espressi nelle parole, nei gesti, nei comportamenti e di elaborare più profondamente il significato di tali espressioni.

B) Periodizzazione delle modalità del rapporto genitori-figli.

Poiché c’è ancora chi uccide, picchia e violenta sessualmente i bambini, ogni tentativo di periodizzare la storia dell’educazione infantile deve tener conto del fatto che l’evoluzione psicogenetica procede con ritmo diverso nelle diverse linee familiari, e che molti genitori risultano «bloccati» al livello dei modelli storici precedenti. La serie dei sei modelli sottoelencati rappresenta una sequenza continua e progressiva di riavvicinamenti tra genitori e figli, poiché, generazione dopo generazione, i genitori vincono le loro ansie ed iniziano a sviluppare la capacità di identificare e di soddisfare i bisogni del figlio. L’elenco fornisce una tassologia estremamente significativa dei modelli contemporanei di educazione infantile.

1. L’infanticidio (dall’antichità al secolo IV d.c.): l’immagine di Medea incombe sull’infanzia durante l’antichità: qui il mito riflette la pura realtà. Certi fatti sono più importanti degli altri e l’abitudine, da parte dei genitori, di risolvere le proprie ansie sulle cure da dedicare al bambino uccidendolo, produceva un effetto decisivo su quelli che sopravvivevano. Per coloro cui veniva concesso di crescere la reazione proiettiva era di capitale importanza, mentre quella di reversione si concretizzava nella diffusa sodomizzazione del bambino.

2. L’abbandono (dal IV al XIII d.c.): una volta accettata, da parte dei genitori, l’idea che il bambino avesse un’anima, il solo modo a loro disposizione per sottrarsi ai pericoli delle proprie proiezioni era quello di abbandonarlo o alla balia, o in monasteri, o in adozione a qualche famiglia, o come domestico o ostaggio presso altre famiglie nobili, oppure, pur mantenendolo in famiglia di creare attorno a lui un clima di abbandono psicologico. Le proiezioni continuavano, tuttavia, ad essere imponenti, il bambino era ancora considerato ricettacolo di male e bisognava sempre picchiarlo; però come si evince dalla diminuzione della sodomia, diminuiva considerevolmente la reazione di reversione.

3. L’ambivalenza (dal XIV al XVII sec.): poiché il bambino anche quando gli veniva concesso di entrare nella vita emozionale dei genitori, restava pur sempre un contenitore di proiezioni pericolose, era loro compito plasmarlo secondo una forma stabilita. Non a caso in questo periodo c’è un incremento del numero di manuali sull’educazione infantile dove l’idea dominante è quella di modellare il bambino, considerato duttile come cera, gesso e argilla, cui imprimere una forma. Tale modello è contrassegnato da un’enorme ambivalenza.

4. L’intrusione (sec. XVIII): in questo periodo c’è un vistoso mutamento nei rapporti genitore-figli. Il piccolo non è più così pieno di proiezioni pericolose e i genitori gli si avvicinano sempre più e tentano di conquistarne la mente, per riuscire a controllarne dall’interno la collera, e i bisogni. Quanto più si rende possibile una vera empatia tanto meno il bambino appare come una minaccia; nasce la pediatria che, insieme al generale miglioramento delle cure da parte dei genitori, riduce la mortalità infantile e fornisce la base per il mutamento demografico del secolo.

5. La socializzazione (dall’inizio del sec. XIX alla metà del XX sec.): con la progressiva diminuzione delle proiezioni l’educazione infantile diventa sempre meno un processo di conquista della volontà del bambino, e sempre più un modo di avviarlo, guidarlo sulla via opportuna, di insegnargli ad adeguarsi all’ambiente e a socializzare.

Si tratta di un processo mediante il quale le aspirazioni, le abilità, gli atteggiamenti e le motivazioni di un individuo (nella specie un bambino) vengono modellati per conformarsi a quelli considerati desiderabili e appropriati per il suo ruolo presente o futuro nella società. La socializzazione è tuttora ritenuta dalla maggior parte delle persone il principale modello di educazione infantile.

6. L’aiuto (dalla seconda metà del sec. XX): questo modello presuppone che il bambino conosca meglio dei genitori ciò di cui abbisogna in ogni momento della sua vita, e coinvolge completamente entrambi i genitori nella vita del figlio, tramite il loro sforzo di enfatizzare con lui, e di rispondere alle sue richieste in continua espansione. Non troviamo qui nessun tentativo di disciplinarlo o di formarlo secondo «un costume».

Il modello d’aiuto richiede un’enorme quantità di tempo e di energia, specie durante i primi sei anni di vita: aiutare il figlio a raggiungere i suoi piccoli traguardi giornalieri, significa rispondergli in continuazione, giocare con lui, tollerarne le regressioni, interpretare i suoi conflitti emozionali, stare al passo con la crescita emotiva e intellettuale. La capacità di valutare le necessità del bambino non è garantita tanto da conoscenze di tipo astratto e generale sull’infanzia, quanto dall’attenzione e dalla disponibilità con cui i genitori captano segnali e messaggi, regolando anche in base a questo continuo feedback le loro richieste.

Essi sono così in grado di non avanzare pretese troppo grandi rispetto alle capacità attuali del bambino, e anche di non incorrere troppo nell’errore opposto, che è quello di non chiedere nulla, cullando il bambino in una eterna situazione di dipendenza che avrebbe come unico risultato quello di frenare o distorcere lo sviluppo.

Questo modo di rapportarsi al bambino incontra difficoltà negli atteggiamenti rigidi, che tendono a vedere il bambino non tanto per quello che è come individuo, ma per come si pensa che debba essere in riferimento ad un canone astratto, la normalità, che non sarebbe altro che un insieme di aspettative.

2.2 LA MADRE COME CONTENITORE DEL BAMBINO

A) Per meglio fronteggiare il difficile compito di capire e specificare che cosa di quel che accade realmente tra il genitore e il bambino abbia così grande effetto sullo sviluppo del bambino stesso, considereremo il particolare modello di Bion relativo alla relazione madre-bambino da lui definita come relazione contenitore-contenuto. Bion infatti sostiene che il modo in cui una madre è capace di entrare in contatto con lo stato mentale del suo bambino, e di permettergli con la propria attenzione e il proprio sostegno di crescere psicologicamente costituisce una forma di relazione nella quale la mente della madre agisce come un contenitore per il bambino. Nei termini di Bion, questo tipo di disponibilità ad essere emotivamente coinvolti è la base della nostra capacità di essere sensibili in tutte quelle occasioni nella vita in cui entriamo in intimo contatto con lo stato mentale di qualcun altro. E in realtà il bisogno che qualcuno svolga dall’esterno, sia pure temporaneamente, la funzione di contenitore mentale per i sentimenti più sconvolgenti è una situazione che persiste in diversa misura anche quando il bambino cresce e può ripresentarsi per tutta la vita adulta.

La capacità di contenimento della madre sembra essere legata alla capacità della madre stessa di affrontare la particolare costellazione di sentimenti in lei suscitati dal bambino: la madre dovrà cioè essere in grado di «contenere» i propri eventuali sentimenti di insicurezza, fragilità, inadeguatezza come sentimenti, senza sentirsi minacciata da essi.

La madre ha bisogno di un senso di identità adulta sufficientemente forte, ma flessibile, che le consenta di essere ricettiva e tollerante con i propri stati mentali, per riuscire ad avere col suo bambino questa forma di relazione «contenente».

Quando la madre ha un grado sufficiente di risorse interne e di sostegno esterno (partner, famiglia, amici) che svolgono per lei una funzione di contenimento simile a quella che lei svolge per il bambino, prendersi cura di lui può dare molte gioie e le esperienze disturbanti incontrate nel corso delle cure materne contribuiscono a una maggiore conoscenza sia del bambino sia di se stessa, più che essere soltanto una fonte di persecuzione. La madre sarà in grado di contenere i propri sentimenti senza proiettarli e senza tradurli in azioni punitive, solo nella misura in cui riuscirà a registrare e a digerire la propria esperienza, tenendo cioè separati il bambino reale e il bambino della mente. La disponibilità della madre ad essere usata come ricettacolo della sofferenza del bambino senza sentirsene sopraffatta e la tolleranza dei propri stati mentali rafforza il proprio senso di sé e le consente di offrire al bambino il conforto di quella forza che si manifesta nelle cure che gli presta. La solidità della madre di fronte all’esperienza di abbandono del bambino sembra essere la fonte di quella elementare fiducia in se stesso e in coloro che gli stanno intorno che mette il bambino in condizione di rinunciare alla presenza esterna della madre e di cominciare a rivolgersi ad immagini interiorizzate di lei. Le cure materne hanno, infatti, una dimensione emotiva e mentale cruciale. L’esperienza di essere emotivamente contenuto dalla madre porta il bambino ad un contatto intimo, benché primitivo, con i processi mentali ed emotivi che avvengono nella madre. Questi stati interni della madre e il loro impatto su di lei diventano per il bambino oggetto di intensa preoccupazione ed interesse sia perché di fatto e indirettamente sentimenti come la depressione, l’angoscia, l’ostilità riducono la capacità della madre di rispondere ai bisogni del bambino, sia perché spesso questi stati mentali vengono anche comunicati direttamente al bambino più grande che è poi lasciato solo ad affrontarli.

Nel corso dello sviluppo al senso di essere fisicamente tenuto insieme, di avere cioè una pelle fisica, si aggiunge l’idea di avere una «pelle mentale» che racchiuda cioè «uno spazio mentale» dentro di lui. Ciò permette al bambino di dare un significato alla sua percezione della mente della madre e alla comunicazione che ha luogo tra di loro. La qualità dell’esperienza precoce ha dunque un effetto cruciale sull’inizio della vita mentale. La dipendenza del bambino da questo tipo di contenimento da parte della madre sarà alla fine sostituita dal contenimento offerto dal senso della propria mente sviluppatesi nel bambino. Ma questo sviluppo non si realizza mediante un processo di maturazione fisica o «imparando ad autocontenersi», bensì attraverso ripetute opportunità di «prendere dentro» l’esperienza di essere tenuto insieme da qualcun altro e di essere custodito nella sua mente. Mediante questo processo che come fantasia vissuta concretamente Melanie Klein chiamava «introiezione», il bambino arriva a sentire la «madre contenente» come una chiara presenza dentro di lui. Adesso diventa capace, in assenza della madre, di fare appello a risorse che hanno avuto origine nel suo contatto con lei. In seguito questo processo all’interno del bambino va ancora oltre, quando egli si identifica con la «madre contenente» nel senso che questa esperienza diventa parte di lui stesso, parte della struttura interna nascosta della sua personalità.

A questo punto si può dire che ha acquisito la capacità di autocontenimento e la fiducia in se stesso.

B) La sofferenza e lo sviluppo della comunicazione concreta.

Purtroppo, però la sofferenza è una esperienza cruciale nella prima infanzia che non può essere evitata in nessun modo e che non necessariamente si contrappone a un contatto intimo e creativo tra madre e bambino. Esperienze «cattive» (un rumore troppo forte, il cibo che non arriva, dolori di stomaco, una espressione turbata o distaccata sul viso della madre) possono emergere anche nel mezzo di quella che sembra una situazione ambientale «buona». Un bambino sopraffatto dallo star male, secondo Bion, va incontro ad un deterioramento psicofisico che necessita dell’intervento di una personalità più matura capace di ricevere e tollerare il disagio proiettato in modo che il bambino possa reintroiettare l’esperienza in forma modificata. La capacità materna di registrare la sofferenza del bambino, di rifletterci (coscientemente o inconsciamente) e di rispondervi in modo empatico consentono alla madre di modificare le richieste fatte alla psiche del bambino dalle esperienze disturbanti e nello stesso tempo consentono al bambino un suo primo contatto con la capacità umana di tollerare la sofferenza mediante il pensiero. Questo modello implica che lo sviluppo nel bambino di una struttura capace di tollerare la sofferenza richiede un numero sufficiente di esperienze di tale struttura contenente all’interno di un’altra persona. Tutto questo avviene attraverso un processo primitivo di comunicazione che è rappresentato dall’identificazione proiettiva. La madre, cioè, comunica col bambino identificandosi colle sue proiezioni, fornendo un ricettacolo alle sue esperienze «cattive»; si presenta come contenitore, cioè come oggetto che offre uno spazio al suo star male che egli non può tollerare e nello stesso tempo gli offre l’opportunità di interiorizzare una madre che ha queste capacità. L’identificazione con queste esperienze interiorizzate (identificazione introiettiva) crea una nuova risorsa emotiva intorno a cui il bambino può sviluppare il suo senso di sé e rende possibile un certo grado di tolleranza e apertura nei confronti dell’esperienza, interna o esterna. E ciò costituisce la base di una capacità di trarre insegnamento dall’impatto emotivo della vita. Il modello della mente di Bion riguarda la natura di questa capacità di «apprendere dall’esperienza». Tale capacità può essere amaramente necessaria nel corso di tutta l’esistenza ed è sempre in una certa misura, influenzata dalla natura dei primi oggetti contenenti ed in particolare dalle qualità ricettive primarie della madre. Genitori sensibili aiutano il bambino ad avere esperienza di sé. La sua identificazione con loro lo aiuterà più tardi a gestire le emozioni e gli impulsi conflittuali che si presentano nel corso ordinario dell’esistenza. Tuttavia in genere non è solo questione di presenza o assenza globale del contenimento materno/paterno e della opportunità di essere capiti. Il processo è sempre parziale. Generalmente, genitori «sufficientemente buoni» (Winnicot) sono capaci più di altri di cogliere, tollerare e digerire alcuni aspetti dell’esperienza del loro bambino così contribuendo ad una situazione interna favorevole e allo sviluppo della mente. Gli altri aspetti dell’esperienza infantile che i genitori non sono riusciti a tollerare non scompaiono, ma neanche possono essere accettati con facilità dal bambino come parti di se stesso: queste parti non accettate possono condurre a un’esistenza scissa, rifiutata, ai margini della mente, ma conservano intatto, se non aumentato, il loro potenziale impatto sulla vita dell’individuo.

Quando c’è, per qualunque ragione, un contenimento materno insufficiente, il bambino è costretto a fare appello prematuramente alle proprie risorse. Ciò da una qualità molto diversa alla sua fiducia in se stesso e al suo autocontenimento. Bick nei suoi studi sulle conseguenze per la personalità di un inadeguato contenimento materno si rese conto che alcuni bambini ricorrevano in modo eccessivo e massiccio all’attaccamento nei confronti dell’ambiente fisico inanimato come mezzo per tenere insieme il loro senso di sé, invece di dipendere dal contatto umano. Bick riteneva che questi bambini sviluppassero le apparenze sociali di una personalità, ma senza avere il senso reale di uno spazio mentale e di risorse inferiori. E si rese conto che, in condizioni analoghe, altri bambini cercavano di sviluppare sentimenti di totalità ed integrazione impiegando prevalentemente la propria esperienza di tensione muscolare o l’esperienza di movimento. Ciò conferiva una particolare caratteristica di durezza, rigidità e a volte iperattività ai loro modi di affrontare l’impatto emotivo dell’esperienza.

Bick si riferiva a questo fenomeno come alla formazione di una «seconda pelle», diversa dalla esperienza mentale di una pelle contenente capace di tenere insieme un senso di identità e di rimanere permeabile all’esperienza emotiva. Questi meccanismi per tenere insieme il sé possono essere usati da tutti i bambini, in gradi diversi e per una varietà di ragioni che non sempre hanno a che fare con carenze ambientali.

Ma nella misura in cui un bambino, per qualunque ragione, ha la necessità di tenersi insieme da solo, allora, nella stessa misura, non farà esperienza della capacità dei genitori di tollerare il suo star male e non avrà l’opportunità di interiorizzare la loro capacità e di identificarsi con essa. I bambini nei quali questa carenza sia grave sembrano crescere privi della convinzione che la sofferenza possa essere tollerata e che sia possibile per la mente umana «digerire» e quindi tollerare la sofferenza. Tale struttura interna deputata alla «digestione» mentale comincia a prendere corpo nei primi mesi di vita mediante l’interiorizzazione e l’identificazione del bambino con le immediate figure di affidamento.

Il modello di relazione genitore-bambino che si è voluto qui descrivere è nello stesso tempo sociale e psicologico: è sociale in quanto si ritiene che tutto si sviluppi attraverso la complessa e sottile interazione tra genitore e bambino; ma è psicologico in quanto elementi essenziali di queste interazioni sono i processi interni, i fattori intrapsichici di ciascun partecipante.

2.3 IL RUOLO DELL’ATTACCAMENTO NELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITÀ.

La caratteristica più importante dell’essere genitore è fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato.

In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibile, pronti a rispondere, quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario. I genitori, infatti, devono sempre incoraggiare l’autonomia dei propri figli. Ma nessun genitore può fornire una base sicura al figlio che sta crescendo se non comprende e rispetta il comportamento di attaccamento del proprio bambino e tratti questo bisogno come una parte della natura umana intrinsecamente degna di valore.

Il comportamento di attaccamento – secondo Bowlby – è quella forma di comportamento che si manifesta in una persona, adulta o bambina, che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Per una persona, infatti, il fatto di sapere che una figura d’attaccamento è disponibile e pronta a rispondere è un fatto che fornisce un forte e pervasivo senso di sicurezza, e incoraggia a dare valore alla relazione e a continuarla.

La funzione biologica che gli si attribuisce è infatti, quella della protezione. Rimanere nelle vicinanze e avere facile accesso a un individuo familiare che si sa pronto e disponibile a venire in nostro aiuto in caso di emergenza è chiaramente una buona polizza d’assicurazione, qualunque sia la nostra età.

Non si deve ritenere infantile desiderare conforto e sostegno nelle avversità, ma la capacità di stringere legami emotivi intimi con altre persone, talvolta nel ruolo di chi richiede le cure e talvolta nel ruolo di chi le fornisce, è considerata una delle caratteristiche principali di un funzionamento efficace della personalità e della salute mentale. D’altra parte, quando un individuo (di qualsiasi età) si sente sicuro è probabile che esplori l’ambiente allontanandosi dalla propria figura d’attaccamento. Quando è, invece, allarmato, ansioso, stanco o sofferente egli sente una spinta ad avvicinarsi.

Lo schema di attaccamento che un individuo sviluppa durante gli anni di immaturità – prima infanzia, seconda infanzia e adolescenza, – è profondamente influenzato dal modo con cui i suoi genitori lo trattano. Tre sono i modelli principali di attaccamento. Il primo schema è quello dell’ attaccamento sicuro in cui l’individuo ha fiducia nella disponibilità, nella comprensione e nell’aiuto che il genitore gli darà in caso di situazioni avverse o terrorizzanti. All’interno di questa sicurezza egli si sente ardito nell’esplorare il mondo. Questo schema viene promosso da un genitore che sia facilmente disponibile, sensibile ai segnali del bambino, e amorosamente pronto a rispondere quando il bambino cerca da lui protezione e/o conforto.

Un secondo schema è quello dell’attaccamento di resistenza angosciosa in cui l’individuo non ha la certezza che il genitore sia disponibile o pronto a rispondere o a dare aiuto se chiamato in causa. A causa di questa incertezza il bambino è sempre incline all’angoscia di separazione, tende ad aggrapparsi e l’esplorazione del mondo gli crea ansietà. Questo schema, in cui il conflitto è evidente, viene promosso da un genitore che solo in alcune occasioni, ma non in altre, è disponibile e soccorrevole e può essere favorito anche dalle separazioni e dalle minacce di abbandono usate come mezzo di controllo.

Un terzo schema di attaccamento è quello dell’evitamento angoscioso, in cui l’individuo non possiede la fiducia che, quando ricercherà delle cure, gli si risponderà soccorrevolmente ma al contrario, si aspetta di essere rifiutato seccamente. Quando un individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di diventare autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicot (1960). Questo schema in cui il conflitto è più nascosto, è il risultato di una madre che respinge decisamente e costantemente il figlio quando le si avvicina per cercare conforto o protezione.

Ogni schema di attaccamento, una volta sviluppato tende poi a persistere e a essere imposto nelle nuove relazioni che il bambino sperimenta, come risultato di un processo di interiorizzazione dei modelli stessi. I modelli rappresentazionali del sé e dei genitori in interazione reciproca vengono costruiti durante i primissimi anni di vita, stabilendosi presto come influenti strutture cognitive. Questo avviene sia sulla base della reale esperienza di vita di un bambino nella interazione con i genitori, sia sulla base delle immagini che i suoi genitori hanno di lui, immagini che vengono comunicate sia a livello verbale che non verbale.

Questi modelli rappresentazionali governano i sentimenti del bambino verso se stesso e verso i propri genitori e governano anche le paure e i desideri espressi nei sogni ad occhi aperti. Una volta costruiti questi modelli tendono a persistere e vengono dati così per scontati che arrivano ad operare a livello inconscio.

Tuttavia il grado di libertà di comunicazione tra madre e figlio può consentire un graduale aggiornamento del modello stesso. Nel caso, però, del bambino con un attaccamento del tipo «evitamento angoscioso» questo graduale aggiornamento del modello è in un certo senso impedito dall’esclusione difensiva di esperienze e informazioni discrepanti. Ciò significa che lo schema di interazione cui questo modello conduce, essendo divenuto abituale, generalizzato e largamente inconscio, persiste in uno stato immutato anche quando l’individuo più avanti nella vita ha a che fare con persone che lo trattano in modo assolutamente diverso da come lo trattavano i suoi genitori quando era bambino.

E solo attraverso una libera comunicazione all’interno della coppia genitore-fìglio, una comunicazione che faccia fluire le emozioni, i sentimenti, che affronti argomenti personali, intimi, allo scopo di restituirli elaborati, che si permetterà un graduale aggiornamento delle rappresentazioni stesse.

Un bambino che non esprime più alla madre nessuna delle sue emozioni più profonde, e quindi nemmeno il desiderio di conforto e rassicurazione che vi si accompagna evidenzia così un grave fallimento della comunicazione.

E non solo questo, ma dato che il modello di sé di un bambino viene profondamente influenzato da come lo vede e lo tratta sua madre, qualunque aspetto di lui la madre non riconosca, anch’egli probabilmente non lo riconoscerà in se stesso.

Quando una madre risponde con favore solo a certe comunicazioni emotive del figlio e rimane cieca nei confronti di altre o le scoraggia, viene a formarsi uno schema in cui il bambino fonda la sua identità sulla base delle risposte favorevoli e disconosce gli altri aspetti di sé.

I genitori, infatti, sono per i loro figli «specchi» psicologici a partire dai quali questi strutturano la propria immagine di sé.

Dal momento della nascita il bambino si vede negli occhi dei propri genitori e apprende quale sia il proprio valore attraverso ciò che sente di valere per loro. I bambini tendono profondamente a credere a ciò che viene detto loro dai genitori e a comportarsi secondo le aspettative che questi hanno nei loro confronti.

Il bambino piccolo, agli occhi del quali i genitori sono «dei onniscienti» può includere facilmente nella propria immagine di sé i titoli squalificanti con cui queste «divinità» lo possono fulminare, e tende a percepirsi, sentirsi, e comportarsi secondo quella immagine deformata.

L’autostima del bambino, quindi, non sembra avere una relazione diretta con la posizione economica della famiglia o con l’educazione, con l’ubicazione socio-geografica del domicilio familiare o con il fatto che la madre stia sempre in casa… ciò che risulta significativo è la qualità della relazione tra il bambino e gli adulti importanti per la sua vita.

CONCLUSIONI

Alla fine di questa disamina mi sembra che una considerazione importante sia quella di ritenere l’autostima dei bambini in relazione diretta con il livello di autostima dei propri genitori, con la loro capacità, cioè, di rispettarsi, di ascoltare i propri pensieri, i propri sentimenti, il proprio corpo e dare a questi sensazioni un valore e una dignità che prescinde dal giudizio morale.

Ciò che un buon genitore, ma direi ogni buon adulto, deve evitare è il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come «persona» con una identità ben precisa che si riesce a «vedere» l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.

Di qui la necessità di coltivare il pensiero, di crearsi uno spazio fisico o mentale per «pensare», da soli o insieme ad altre persone, in modo che le angosce, i pensieri non sviluppati, le nuove idee possano essere meditati e si possa cogliere il loro reale significato.

D’altronde è noto come enormi difese siano state sempre erette contro il pensiero e spessissimo il pensiero è stato usato per limitare se stesso.

L’umanità da sempre lotta contro il sapere perché la conoscenza vera, quella che produce mutamenti a qualunque livello, fa paura. Le resistenze sono sempre, in fin dei conti, resistenze a «conoscere».

È importante allora che le famiglie, le scuole, la società favoriscano la capacità di «pensare», intesa come capacità quotidiana e non come capacità derivante da acculturazione; un pensare cioè che sia capace di «contenere» la scarica impulsiva dei sentimenti, di convertire in pensiero conscio le esperienze emotive e fattuali, e di giungere così all’autocoscienza, all’autoriflessione. La fuga dal pensiero produce sempre azioni disperate e affrettate, modellate da forze emotive. Il fatto di essere realmente ascoltati con attenzione e che ciò che è comunicato venga realmente pensato è una esperienza veramente utile.

È evidente allora che la distanza fisica, mentale, emozionale dei genitori verso i figli rende questi ultimi isolati e vulnerabili nei confronti dei propri sentimenti più schiaccianti.

Mi piace allora concludere con le parole tratte da un brano di Anthony De Mello, gesuita indiano, morto prematuramente, famoso in tutto il mondo per la sua capacità di operare una brillante sintesi di saggezza tra la spiritualità orientale e quella occidentale. La riflessione riguarda gli ultimi anni della sua vita, quando l’autore, spogliato di tutti i sistemi intellettuali, di tutte le ideologie, di tutte le formule acquista l’accesso all’amore e alla libertà:

«In ogni parte del mondo tutti cercano l’amore, poiché tutti sono convinti che solo l’amore può salvare il mondo, solo l’amore può dare senso alla vita, rendendola degna di essere vissuta. Ma quanto pochi sono coloro che capiscono che cosa è realmente l’amore e come nasce nel cuore umano! Molto spesso si pensa che esso consista nei buoni sentimenti e nel servizio verso gli altri, nella benevolenza e nella non violenza. Però tutte queste cose in se stesse non sono l’amore. L’amore sgorga solo dalla conoscenza: tu potrai amare realmente una persona soltanto quando e nella misura in cui la vedrai quale realmente è, uomo o donna, (bambino o adulto), qui ed ora, e non come vive nella tua memoria o nel tuo desiderio, nella tua immaginazione o nella tua proiezione! (…)».

BIBLIOGRAFIA

ANNA EMILIA BERTI, ANNA SILVIA BOMBI, «Psicologia del bambino» II Mulino, Bologna, 1985.

J. BOWLBY, «Una base sicura» Raffaello Cortina, Milano, 1989.

J. V. BONET, «L’autostima dei nostri figli» in «Aversi a cuore» Ed. CVXpag. 117.

L. DE MAUSE, «L’evoluzione dell’infanzia» in «Storia dell’infanzia», Emme Edizioni 1983 a cura di L. De Mause.

A. DEMELLO «Chiamati all’amore» riflessioni. Ed. Paoline 1994, pag. 121.

A. DE SAINT-EXUPERY, Il Piccolo Principe, XXVII ed. Bompiani 1993.

E. DREWERMANN, «L’essenziale è invisibile», una interpretazione psicoanalitica del Piccolo Principe, Ed. Queriniana 1995.

J. SHUTTLEWORTH, «Teoria psicoanalitica e sviluppo infantile» in L.. MILLER, M. RUSTIN, J. SHUTTLEWORTH, «Neonati visti da vicino» Astrolabio 1993.

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A.A.A. Achille (Albanese, 2001)

A.A.A. Achille
Indice
Sinossi
Introduzione al Film
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Sinossi

Achille, otto anni, foggiano, è rimasto da poco orfano di padre. La tremenda tragedia familiare ha accentuato un suo vecchio problema: la balbuzie. In casa, per combattere il tartagliamento del piccolo, madre e zii adottano ogni metodo, da quelli scientifici a quelli religiosi. Fallito ogni tentativo, non rimane che il ricovero in una clinica logopedica. Nonostante il suo dissenso, Achille viene portato in un centro specializzato, guidato dal prof. Aglieri, un luminare della logopedia, e sottoposto ad un particolare metodo terapeutico inventato dallo stesso professore: trattasi del “cantoparlare” che, in sintesi, richiede al paziente di comunicare cantando.

A guarire gli ospiti della clinica più dei metodi del dottore – che al contrario di quanto promette, rischia di emarginare definitivamente i balbuzienti – può la presenza di Remo, un ex balbuziente appassionato di costruzioni e di giocattoli. Nella stanza assegnatagli, l’uomo ha creato un vero e proprio laboratorio creativo nel quale i malati, Achille in primis, si rifugiano per divertirsi, giocare, sperimentare e, soprattutto, imparare a prendersi meno sul serio. Alla fine del periodo di cura, Achille non avrà soltanto attenuato significativamente il suo handicap, ma avrà terminato il necessario percorso di elaborazione del lutto per la morte del padre.

Introduzione al Film

Sporcarsi le mani per non sporcare le parole

Giovanni Albanese non è un regista cinematografico, ma un artista, un creatore, uno scenografo. Ha concepito e realizzato il mega-utero dentro al quale era ambientato uno stravagante film di Giovanni Veronesi con Sergio Castellitto e Paolo Rossi, Silenzio si nasce; è stato autore delle fantasiose installazioni di uno spettacolo teatrale di Antonio Albanese (Giù al nord); è un riconosciuto scultore che si ispira ai lavori di Duchamp e di altri artisti dell’avanguardia europea. Soprattutto, è un ex-balbuziente (“un balbuziente a riposo”, come lui stesso si definisce) che – come il giovane protagonista del film – ha conosciuto la balbuzie dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva solo otto anni. A.A.A. Achille è quindi un’opera prima imbevuta – come spesso accade negli esordi cinematografici e letterari – di autobiografismo. Ciò che più incuriosisce di questa pellicola è il connubio tra la forza esplosiva della parola e la forza creatrice delle invenzioni (artistiche e non).

Infatti, la storia di Achille e Remo serve al regista per evidenziare il tipo di handicap che ogni balbuziente deve affrontare: l’impossibilità non tanto di comunicare con gli altri, ma di attrarre e accoppiare le parole tra di loro, di farle giocare insieme generando – in questo modo – significati che superano il singolo valore di un vocabolo. A chi esperisce la condizione di Achille non resta che sostituire alle parole le azioni: se non si possono fare “giochi di parole”, sfruttare fino in fondo le figure retoriche, affabulare gli altri come un “azzeccagarbugli”, allora bisogna costruire figure con gli oggetti, mischiare, accozzare, unire pezzi, sfruttare la propria manualità per trasmettere la complessità dell’animo umano. In estrema sintesi: sporcarsi le mani poiché non si possono sporcare le parole.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Prendersi gioco degli altri, prendersi poco sul serio

Remo e Achille sono accomunati dalla stessa passione per il gioco, per l’invenzione, per la costruzione, tanto da poter essere considerati la fase infantile e matura della stessa persona. Lo chiarisce immediatamente il bambino quando, rivolgendosi per la prima volta a Remo, gli ricorda che non è suo padre. L’ex balbuziente, intelligentemente, non cerca di sostituire il genitore deceduto, ma di affiancare il piccolo amico scegliendosi un ruolo che si avvicina a quello dell’angelo custode: lo cerca quando scappa dalla clinica e lo accompagna a casa (un padre l’avrebbe costretto a restare in clinica), non lo rimprovera mai, lo lascia alle grinfie del dottor Alieri anche se sa benissimo che è un cialtrone, perché quello è l’unico modo per stargli vicino. La figura di Remo acquista ulteriore significato se accostata con l’altra figura maschile adulta che interagisce con Achille: il professore (imbroglione) Alieri. Il suo metodo del “cantoparlare” è il doppio, contrario e speculare, del metodo adottato da Remo.

Da una parte assistiamo alla canzonatura dei pazienti, alla trasformazione dei balbuzienti in oggetti da deridere (è questa l’inevitabile reazione di chi si sente interpellato con frasi “cantoparlate”, come conferma la scena del supermarket), dall’altra abbiamo invece un sistema educativo ludico, che concepisce il gioco come momento di formazione, ma anche come festa condivisa (la giornata al mare); da una parte quindi c’è una presa in giro che sancisce l’inevitabilità dell’esclusione del diverso dal convivio sociale, dall’altra c’è un prendersi poco sul serio che produce normalizzazione e integrazione nella comunità. La differenza appare sottile, ma è palesemente spropositata. Achille, almeno inizialmente, è in balia di entrambe le metodologie appena descritte. Con la testa segue le indicazioni del professore, con le mani (e il cuore) si fa affascinare dal laboratorio di creatività, continuando a frequentarlo appena terminate le sedute terapeutiche.

È, quindi, la voglia di costruire e di infondere una forza anarchica agli oggetti (si veda la meravigliosa trottola con cui gioca il bambino) a spostare il piatto della bilancia dalla parte di Remo. L’intuizione (autobiografica) di Albanese nobilita il film: forse meglio di altre pellicole, A.A.A. Achille mostra quanto possa essere decisivo, nelle società della comunicazione visiva e verbale, la manualità soprattutto per i bambini. È uno strumento unico di espressione del sé, consente di trasmettere le proprie paure, i propri desideri e i propri sentimenti agli altri, è la realizzazione pratica del lato fantastico della mente umana, è una risorsa che – come Albanese ha testimoniato costantemente nella sua vita- non dovrebbe mai essere lasciata in disparte o sfruttata solo per un breve periodo della vita.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

AAA Achille è un film fruibile da ogni tipo di pubblico. Può rappresentare un ottimo spunto di riflessione sia sulla relazione tra handicap e società, sia per sottolineare l’importanza delle parole e dei suoni per il nostro stile di vita. Tra tutti i film che trattano tematiche legate all’handicap, segnaliamo la pellicola di Ken Russell, Tommy (1975), storia di un ragazzo che diventa cieco, muto e sordo per lo shock subito alla morte del padre, riuscendo a superare completamente il trauma solo dopo la morte della madre e del patrigno. Un’altra pellicola che sottolinea il bisogno e la forza di comunicare con il mondo è Gaby, una storia vera (1987) di Luis Mandoki, rievocazione della vicenda umana di Gaby Brimmer, una ragazza affetta da paralisi cerebrale capace di comunicare soltanto battendo con il piede su una tastiera.

Achille e Anna – da A.A.A. Achille

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Marco Dalla Gassa (www.minori.it)