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Segreti e bugie (Leigh, 1996)

Segreti e bugie

di Mike Leigh. Ratings: Kids+16, durata 141′ min. – Gran Bretagna 1996.

INDICE

TRAMA

RECENSIONE

Trama

Hortense, una giovane optometrista di colore, all’indomani della morte dei genitori adottivi decide di conoscere le proprie origini e, per questo, si rivolge ai servizi sociali che, in base alle leggi vigenti, le forniscono le informazioni utili per risalire all’identità dei genitori biologici. La sua madre naturale è Cynthia, un’operaia bianca che vive con la figlia Roxanne – anche lei nata da un rapporto occasionale – in una cadente casa nei sobborghi londinesi. Madre e figlia sono in continuo conflitto: Roxanne, insoddisfatta del suo lavoro di netturbina, sfoga la sua frustrazione su Cynthia, depressa per natura e ossessivamente preoccupata per la vita sessuale della figlia, fidanzata con l’introverso Paul.

Intanto Maurice, fratello di Cynthia, si divide tra il suo lavoro di fotografo e l’agiata ma triste vita coniugale con Monica, una donna nevrotica, depressa a causa della sterilità, un fatto, questo, che forse ha contribuito ad allontanare anche affettivamente Maurice e Cynthia. Il ventunesimo compleanno di Roxanne sembra l’occasione buona per riunire la famiglia ma, proprio pochi giorni prima della festa, Hortense rintraccia Cynthia, dapprima sospettosa (visto il differente colore della pelle della ragazza), impaurita e diffidente verso questa parte rimossa del suo passato, poi sempre più coinvolta da un rapporto che soddisfa il suo bisogno di affetto.

Gli incontri tra le due donne si susseguono frequenti, naturalmente all’insaputa di tutti e, quando giunge il giorno della festa, Cynthia invita anche Hortense, presentandola come sua amica. Tutto si svolge nella più assoluta normalità e cordialità fino a quando Cynthia non riesce più a tenere per sé la reale identità di Hortense: tra lo sconcerto generale Roxanne abbandona la festa e solo l’intervento di Maurice riesce a farla tornare in sé. La giornata si conclude all’insegna delle reciproche confessioni (Cynthia parla a Roxanne dell’uomo dal quale l’ha avuta e Monica confessa alla cognata di essersi allontanata da lei a causa dell’impossibilità di avere figli) e di una definitiva riconciliazione della famiglia cui appartiene, ormai non più soltanto biologicamente, anche Hortense. Un’ultima sequenza vede Roxanne e la sorellastra, ormai diventate amiche, chiacchierare nel giardino della vecchia casa di Cynthia sotto lo sguardo sereno di quest’ultima

recensione

Sguardi al di là delle maschere

Segreti e bugie è stato il film che ha permesso al grande pubblico di conoscere il talento di Mike Leigh, regista appartato della scena inglese (almeno fino a questo clamoroso successo di critica e pubblico) capace di esprimere le inquietudini della società contemporanea attraverso storie e personaggi comuni e al tempo stesso emblematici. Attraverso il suo stile semplice ed efficacissimo, che alterna abilmente momenti nei quali prevale uno sguardo distaccato e ironico ad altri in cui è capace di avvicinarsi ai personaggi per rivelarne con sensibilità il lato più intimo, Leigh affronta il tema della difficoltà dei rapporti umani, dell’incomunicabilità, del gioco delle apparenze e delle formalità dietro cui ciascuno si trincera per non esporsi al giudizio o all’invadenza degli altri. Ma non solo: un’idea di quanto ampio sia il ventaglio delle questioni affrontate in questo film ce la offrono le prime due sequenze, quella in cui Hortense partecipa al funerale della madre adottiva e la successiva dove Maurice è alle prese con una cerimonia nuziale, una delle tante a cui assiste, dato il suo mestiere di fotografo.

Due immagini che evocano parentele, formalità, celebrazioni, ma anche – guardando solo un po’ più in là della superficie – legami di sangue, sentimenti, figli, ricordi rimossi, la vita intera con il suo portato di aspettative spesso deluse e il rapporto inevitabile con la morte. Dal punto di vista della struttura narrativa il film è costruito in maniera esemplare: la prima parte è occupata dalla presentazione dei cinque personaggi principali (Hortense, Maurice, Roxanne, Cynthia e Monica) ognuno alle prese con la sua occupazione, con il suo lavoro; la parte centrale sull’intrecciarsi delle loro storie attraverso incontri a due a due che chiariscono via via la natura dei rapporti che li uniscono (ma, soprattutto, delle distanze che li separano); quella finale, interamente dedicata alla festa di compleanno (“corale” anche grazie all’uso di inquadrature totali che creano un senso di attesa nello spettatore per la rivelazione della verità) è una resa dei conti in forma di dramma collettivo durante il quale cadono tutte le maschere e le finzioni.

Se la relazione tra Cynthia e Hortense è sicuramente centrale e risolutiva ai fini drammatici, le altre sono tutt’altro che accessorie: ad esempio, Monica con la sua sterilità, i suoi imbarazzi, la sua casetta leziosa, è l’esatto opposto della cognata Cynthia che vive in un’abitazione cadente, è goffa ma spontanea e fin troppo prolifica; allo stesso modo la rabbia repressa, il rancore, l’inquietudine proletaria di Roxanne sono all’opposto della pacatezza, della dignità e dell’equilibrio borghese di Hortense. Del resto Leigh dissemina il suo film di una serie di indizi, di piccole notazioni curiose e apparentemente prive di senso che nel corso del racconto assumono un valore emblematico. Un esempio per tutti le professioni di Maurice e Hortense: il primo, con le sue fotografie, fissa l’immagine pubblica delle persone, ufficializza “visivamente” unioni e relazioni nella loro veste più convenzionale ma, allo stesso tempo, tenta in ogni occasione di tirare fuori da ognuno la parte migliore, più positiva; la seconda aiuta gli altri a vedere meglio, a guardare meglio la realtà al di là dei veli che le si frappongono. Non è forse ciò che faranno rispettivamente Maurice che con pazienza ritesserà la rete dei rapporti tra i vari membri della sua famiglia (proprio come un buon padre, come affermerà al termine della festa la sua segretaria, coinvolta suo malgrado nel trambusto creato dalle rivelazioni di Cynthia) e Hortense, che con la sua comparsa fa cadere le ipocrisie che gravano sui rapporti tra i vari componenti del nucleo familiare? (minori.it)

I temi del Film

Il ritorno del rimosso
Il segreto di Segreti e bugie (che, paradossalmente, aveva avuto come titolo di lavorazione The Truth, ovvero “La verità”) è anche quello di saper rovesciare gli stereotipi (come, ad esempio, quello del confronto tra i relativi livelli di benessere – nell’accezione più ampia del termine – di bianchi e neri risolto nettamente a favore dei secondi) e di saper parlare con chiarezza, senza scadere nel didascalico, delle molteplici cause di crisi dell’istituto della famiglia nella nostra società. Il nucleo dolente è, evidentemente, il rapporto tra genitori e figli: figli che arrivano troppo presto nella vita dei protagonisti (come nel caso di Cynthia), che non arrivano mai (Monica e Maurice), che tornano nei momenti meno opportuni (Hortense) o che, al contrario, vorrebbero andare via per sempre (Roxanne). Il ventaglio delle possibilità, pur essendo ampio, contempla solo gli estremi: come nel caso di Cynthia che, nella sequenza in cui “riconosce” Hortense dopo aver escluso categoricamente la possibilità di un legame di sangue, addirittura mostra di aver dimenticato (rimosso) la persona e l’occasione (una violenza sessuale) del concepimento, o, al contrario, come in quello di Monica, sterile eppure condannata dal proprio corpo, ad ogni mestruazione, a ricordarsi dolorosamente di essere capace di concepire, ma soltanto in teoria.

Dall’altro lato si scontrano due immagini filiali altrettanto opposte: da un lato Roxanne che, come la maggior parte dei figli, sa solo guardare ai lati negativi dei genitori e che, nel rapporto con Cynthia, riversa le proprie frustrazioni, dall’altro Hortense, figlia adottiva che, dopo la morte dei genitori putativi (paradossalmente “più adatti” ad accoglierla di quanto non fosse Cynthia perché di colore come lei), sente la necessità di conoscere le proprie origini biologiche, andando incontro al rischio di scontrarsi – come poi avviene in effetti – con una realtà molto lontana da quanto avrebbe potuto immaginare. Con la sua pelle nera, il suo garbo e la sua gentilezza, la sua normalità (anche e soprattutto dal punto di vista fisico, in confronto agli altri personaggi, tutti connotati da tic, ossessioni, fisionomie strambe o eccessive), Hortense rappresenta il cosiddetto “ritorno del rimosso”. Concretamente e coerentemente con il suo status di figlia illegittima non riconosciuta e successivamente adottata, ovvero in quanto frutto di un “errore” di gioventù che è stato nascosto e si è voluto occultare, dimenticare, ma anche come ritorno, come venire nuovamente a galla di sentimenti, relazioni, affetti messi a tacere o, più banalmente, ignorati più per abitudine che non per malvagità. Paradossale, dunque, che proprio lei, disconosciuta e adottata, “figlia del peccato”, sia la più “normale” e, in fondo, la più forte rispetto a tutti gli altri personaggi e che proprio a lei tocchi il compito di riportare alla luce una serie di emozioni accantonate, di far scoppiare il dramma che poi, fortunatamente, si risolverà positivamente. (minori.it)


 

Il ragazzo con la bicicletta ( Dardenne 2011)

di J.Dardenne, L. Dardenne.  Titolo originale Le Gamin Au Vélo., Ratings: Kids+13 , 87 min. – Belgio, Francia, Italia 2011.

 

 

INDICE

1)RECENSIONE: un film sull’affidamento

2)RECENSIONE: RACCONTARE L’INFANZIA INCOMPRESA

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

4)TRAILER – SCENE FILM



1)RECENSIONE: un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore

Cyril, dodici anni, vive in comunità. È alla disperata ricerca del padre che ha cambiato casa e numero di telefono e non si fa vivo da diverso tempo. Non si capacita del fatto che sia sparito nel nulla e non gli abbia nemmeno lasciato la bicicletta cui teneva molto. Gli educatori cercano in tutti i modi di convincerlo a desistere dalla sua ricerca, ma Cyril è testardo, non ascolta nessuno e un giorno scappa dalla comunità per raggiungere in autobus la vecchia casa del genitore e scoprirla ormai disabitata. Quando arrivano anche gli educatori, il ragazzo cerca ancora di fuggire, rifugiandosi in un vicino studio medico. Qui, come ultimo e disperato gesto di resistenza, si aggrappa al corpo di una giovane signora e la abbraccia con tutta la forza che ha.

È in questo primo e provvisorio abbraccio che prende senso e valore l’ultimo film dei fratelli Dardenne. Il Cyril de Il ragazzo con la bicicletta è fratello minore dei tanti adolescenti o giovani che hanno attraversato nel corso degli ultimi quindici anni il cinema dei due registi belgi dall’Igor de La promesse (1996) alla giovane Rosetta (1999), dal Francis de Il figlio(2002) ai poco più grandi Bruno de L’enfant – una storia d’amore (2005) e Lorna de Il matrimonio di Lorna (2008). Con loro condivide l’ostinazione nel perseguire un sogno o un progetto, un’autonomia obbligata da un mondo adulto assente o infantile che lo circonda, il desiderio represso e soffocato di costruire relazioni e affetti, la fatica di sopravvivere a eventi o tragedie inattese, l’accesso quasi inevitabile al mondo della criminalità. A distanziarlo da loro (e a rendere meno cupo il film), giunge però già nelle prime battute della storia questo gesto di improvvisa e gratuita vicinanza con un altro essere umano. Una vicinanza che Cyril non sa ancora elaborare, ma che di fatto diventerà la sua vera ancora di salvezza, la direttrice di senso che lo sosterrà anche nei momenti più difficili. La donna che abbraccia si chiama Samantha, è una parrucchiera senza figli che si dimostra subito attenta alle sorti del ragazzo: riesce a recuperargli la bicicletta, accetta di ospitarlo a casa sua durante i weekend, lo aiuta nella ricerca disperata del padre. Quando finalmente i due trovano il giovane uomo e scoprono che non ha nessuna intenzione di prendersi cura di Cyril è Samantha la persona che sta accanto al dodicenne e assiste all’unico vero sfogo rabbioso del ragazzo, trattenendolo da gesti autolesionisti con un secondo e ancor più significativo abbraccio. La condizione di Cyril non migliora immediatamente, anzi i “quattrocento colpi” che egli, come quasi ogni ragazzo della sua età, è disposto a sperimentare, lo condurranno nelle braccia di un piccolo delinquente e da qui al coinvolgimento in un’arruffata e tragica rapina. E tuttavia, grazie all’intermediazione della donna e al suo modo di porsi non autoritario ma deciso e presente, Cyril troverà qualcuno disposto ad accompagnarlo nei suoi giri in bicicletta e, fuor di metafora, di offrirgli quell’affetto di cui ha bisogno.
Il ragazzo con la bicicletta è insomma un film sull’affidamento e sulla presa in carico di un minore da parte di un adulto, un film su una vocazione all’accoglienza e sulla difficoltà di riconoscerla questa accoglienza da parte di chi ha bisogno. Ma è anche un film che riflette su una genitorialità che sembra sempre più allontanarsi dai vincoli di sangue, specie in situazioni di disagio e degrado, di povertà e assenza di prospettive. I Dardenne, da questo punto di vista, proseguono con coerenza e testardaggine – la stessa dei loro personaggi – un discorso sull’essere umano, sulle condizioni di povertà che la società contemporanea gli costruisce attorno e sulle possibilità di riscatto a cui può accedere attraverso un gesto, uno sguardo, un sentimento gratuito. E se in quest’ultimo film si possono riscontrare alcune debolezze sul piano della sceneggiatura e un minor rigore sul piano della rappresentazione visiva (viene meno per esempio l’uso frenetico della camera a spalla, la grana della pellicola è più pastosa segno di un abbandono forse definitivo al 16mm) è altrettanto vero che pochi altri cineasti avrebbero saputo trattare una materia pluricodificata – a partire dal titolo che allude a Ladri di biciclette di De Sica e ad una prima parte del film che ricorda molto il capolavoro di Truffaut I quattrocento colpi – con una certa originalità di tocco e di scrittura. “Affidarsi” ai Dardenne, anche in questo caso, significa mettersi nelle mani di cineasti che intendono indagare il reale e i suoi anfratti più oscuri e drammatici per elevarli a possibili territori di riscatto. Come avveniva nel cinema di Robert Bresson a cui i fratelli belgi sembrano guardare con sempre più sentita adesione.

Marco Dalla Gassa MINORI.IT
2)RECENSIONE:

Raccontare l’infanzia incompresa    

Di Marzia Gandolfi   –    mymovie.it

 

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’Enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore.

3)RECENSIONE: DOV’E’ IL PADRE

Autore: Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Dov’era il padre? Dove sono i padri nelle storie di cronaca e nella vita quotidiana, nei pensieri dei figli e nelle riunioni scolastiche? Assenti, lontani, incapaci di offrire né regole né protezione. Nella carrellata di trame dei film di Cannes, dove la famiglia torna nucleo del mondo, le figure dei padri sono in genere avvilenti. Falliti e acidi come nell’israeliano Footnote di Joseph Cedar, o distratti al limite della demenza come il padre di Kevin, che regala armi al figlioletto visibilmente già assai disturbato. Tutti terrorizzati dalla responsabilità nei confronti dei figli, reali o metaforici, che partono alla loro disperata ricerca. Così, dopo la rinuncia del Santo Padre in Moretti, in Le gamin au vélo dei fratelli Dardenne si assiste alla rinuncia altrettanto tragica di un padre povero cristo.
Morta la nonna, Guy, un cuoco di bistrot, decide di sparire dalla vista del figlio dodicenne, Cyril, che finisce in un istituto. Qui viene a trovare ogni tanto il bambino una giovane parrucchiera, Samantha, che si offre di ospitarlo nei fine settimana. Cyril accetta soltanto per poter evadere dall’istituto e una volta fuori, montare sull’unico ricordo lasciatogli dal padre, una bici da cross, e mettersi alla sua ricerca. L’immagine di questo bambino tormentato che rincorre su una bicicletta la possibilità di una vita normale, l’amore del padre, l’amicizia, ha la semplicità e la forza del cinema di un tempo. La grandezza dei registi belgi sta nel non usare mai un trucco, una parola, un gesto che possa sfiorare il melodramma. In fondo a strade sbagliate e porte chiuse, dopo l’ultimo straziante negarsi del padre, il bambino capisce qual è la vera strada di casa e torna da Samantha, l’unica persona che ha dimostrato di sceglierlo e amarlo. Nella scena finale compare di passaggio un altro di quei padri che rivalutano la condizione di orfano. È noto come i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne non siano passeggiate nel buonumore. Ma rispetto ai precedenti, molto amati a Cannes, dove i Dardenne hanno vinto la Palma due volte con Rosetta (1999) e L’enfant (2005), questo ragazzo con la bicicletta è un film più ottimista. Un Dardenne quasi solare, rispetto ai cupi paesaggi reali e psicologici del passato, girato in una Liegi rallegrata dalla luce dell’estate e dallo splendore di Cècile de France nella parte di Samantha. Ma il momento di massima luce del film è quando, dopo un’ora abbondante, il volto nervoso del piccolo e bravissimo protagonista, Thomas Doret, s’illumina del sorriso dell’infanzia.

4)TRAILER

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Mi dici che ti prende?

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Dopo il matrimonio (Bier, 2006)

INDICE
SINOSSI
SCHEDA
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SINOSSI
Da molti anni il danese Jacob lavora in India come volontario in un orfanotrofio che rischia di chiudere per difficoltà finanziarie, quando riceve da Jörge, milionario suo compatriota, la promessa di 4 milioni di euro a condizione di incontrarlo personalmente alla vigilia del matrimonio di sua figlia. Perché? Perplesso, Jacob accetta l’invito.

SCHEDA
Quando Jakob, che in India dirige un orfanotrofio sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, riceve dalla natia Danimarca una generosa proposta di aiuto con l’unica clausola di un viaggio in patria, non può certo rifiutare. Ma una volta a Copenhagen le cose si complicano. Partecipando alle nozze della figlia del misterioso benefattore, infatti, Jakob reincontra la sua fidanzata di un tempo, che è poi la madre della sposa. E mentre Jakob viene posto di fronte ad una scelta dolorosa (accettare la donazione e rimanere in Danimarca ad amministrarla oppure rifiutarla e veder chiudere la sua opera benefica), un segreto che riguarda il passato (e uno che getta un ombra sul futuro) costringe tutti i personaggi a fare i conti con sé stessi e a riscoprire i legami che li uniscono.

Quando al matrimonio del titolo la sposa si alza per fare un brindisi e la madre si inquieta per le possibili rivelazioni, lo spettatore potrebbe temere di trovarsi di fronte all’ennesimo film danese pronto a gettare una palata di terra sulle istituzioni familiari o a mostrarne la corrotta natura tra morbosità e desiderio di vendetta. Invece, per una volta, anche se dietro al ritrovarsi di due amanti di un tempo c’è un segreto e il protagonista è costretto a mettere a nudo sé stesso prima di poter giungere alla fine del suo percorso, la regista Susanne Bier (Non desiderare la donna d’altri), coadiuvata dallo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (autore anche de Le mele di Adamo) decide di raccontare una vicenda in cui i legami familiari escono rafforzati dalla prova del dolore, della verità e della morte.

Costretto a scegliere tra un’astratta benché benintenzionata forma di carità (che non a caso ha più volte conosciuto il fallimento) e il concreto bisogno del suo prossimo, il protagonista viene messo di fronte alla necessità di esercitare una forma di amore molto più stringente e difficile.

Allo stesso tempo il suo «antagonista», il ricco uomo d’affari Jorgen, affronta un percorso altrettanto doloroso, che lo porta a spogliarsi di tutto prima di affrontare la morte. Anche lui, tuttavia, prima della fine, deve ritrovare la certezza dell’amore dei suoi cari, che forse si era appannata nella preoccupazione e nel desiderio di «mettere tutto a posto».

È un insolito gruppo di personaggi quello che popola la pellicola della Bier, per certi versi segnati da un passato di dolore che sembra destinato a ripetersi, per altri fortunatamente non determinati da esso, ma messi di fronte a una seconda possibilità che si fonda sull’amore e sul riconoscimento delle proprie responsabilità. Fa piacere per una volta che la famiglia, lungi dall’essere rappresentata come luogo di corruzione e disperazione, sia vista come possibilità di realizzazione e compimento, anche quando nella vita entrano il dolore, il tradimento e infine la morte.

Manca, è vero, un ultimo salto di qualità che permetta di andare oltre l’immanenza di una laica carità per aprirsi a una dimensione soprannaturale, ma resta apprezzabile la volontà di indicare una positività umana fondata sulla solidarietà reciproca, sull’apertura all’altro e sul perdono.

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