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Le stazioni della fede

In adolescenza 

cambia la percezione del mondo intorno e dentro di sé, cambia il corpo e cambiano le relazioni.

Maria, la protagonista del film, è un’adolescente e il suo percorso di crescita è una via crucis. LE STAZIONI DELLA FEDE è un film che, suddiviso, come il rito cattolico, in quattordici stazioni, commuove ed emoziona.

 

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Kreuzweg – Le stazioni della fede
Un film di Dietrich Brüggemann.

Titolo originale Kreuzweg (VIA CRUCIS)

genere Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 107 min. – Germania 2014.

in questa pagina trovi:  tramavideorecensioni 

 

 

Trama
Maria ha 14 anni e la sua famiglia fa parte di una comunità cattolica fondamentalista. Maria vive la sua vita di tutti i giorni nel mondo moderno, ma il suo cuore appartiene a Gesù. Lei vuole seguirlo, per diventare una santa e andare in paradiso, così passa attraverso 14 stazioni, proprio come fece Gesù nel suo cammino verso Golgota

 

VIDEO

Trailer

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Recensioni

 

 

Da sentieridelcinema.it di Laura Cotta Ramosino

Acclamato da molta critica al Festival di Berlino e vincitore, oltre che dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ma anche del premio della Giuria Ecumenica, Kreuzweg è una pellicola insieme stimolante e frustrante, sia sul piano dei contenuti che della forma e richiede, anzi, quasi pretende, una visione concentrata e critica che molta parte del pubblico potrebbe non essere disposta a concedere.
La vicenda della piccola Maria, vittima di una concezione del Cristianesimo punitiva, rigida e ostile al mondo (la Fraternità di San Paolo come viene qui chiamata è una palese trasposizione di quella di san Pio X fondata dall’arcivescovo Lefevre), che le impedisce di aprirsi al mondo e la convince della necessità di un sacrificio estremo, ma anche di una madre incapace di mostrare il proprio affetto, è di quelle fatte apposta per scatenare dibattiti e polemiche. E questo sia che lo si voglia concepire come un coraggioso e sincero atto di denuncia contro il fondamentalismo religioso (il regista e la sorella, sceneggiatrice, vengono essi stessi da una famiglia appartenente a una comunità cattolica di questo genere) o come un esercizio formalmente impeccabile, che nella sua pro grammaticità ideologica pecca della stessa rigidità del mondo che mette sotto accusa.
Il film, infatti, è diviso in 14 quadri corrispondenti alle stazioni della Via Crucis (il cui nome introduce a mo’ di titolo ogni capitolo), la maggior parte dei quasi è costituito da un’unica inquadratura fissa entro cui i personaggi dialogano e si muovono (poco) per l’appunto come personaggi di quadretti votivi animati. Ogni situazione è escogitata per riflettere in modo più o metaforico (e spesso ironico) una delle tappe della Passione di Gesù. La piccola Maria Göttler (un nome un programma) è infatti una esplicita figura Christi che affronta consapevole e solitaria un martirio autoimposto, vivendo nel senso di colpa le più normali esperienze adolescenziali (anche la nascente e innocente simpatia per un coetaneo che la invita a cantare nel coro di una chiesa cattolica, sì, ma non abbastanza ortodossa per la madre di Maria) e privandosi del cibo e della gioia fino all’esito prevedibile e inevitabile.
Benché parte di una famiglia numerosa, la ragazzina sembra immersa in una sostanziale solitudine; e nessuno degli adulti della comunità – il giovane parroco, premuroso e gentile quanto rigido; la madre, una figura spaventosa di genitrice forte di una fede spietata quanto inattaccabile che solo nel finale sembra giungere ad un punto di rottura; il padre, una figura debole e insignificante – sembra cogliere fino in fondo la testarda determinazione e la follia del piano di Maria, aspirante santa con scarso senso della realtà. Anzi, di fronte al quasi miracolo del finale la madre è velocissima a trasfigurare il rapporto perennemente critico con la figlia in una beatificazione cieca e quasi surreale.
Kreuzweg, pur abbracciando senza se e senza ma la sua vocazione di cautionary tale verso il fondamentalismo, ha l’onestà di mettere in chiaro le carte fin da subito: quello che vediamo in azione non è né il Cristianesimo né il Cattolicesimo tout court, e anzi Brüggemann dissemina la storia di figure di credenti dalle più varie sfumature: dall’insegnante di ginnastica protestante, al gentile spasimante cattolico di Maria, dall’affettuosa ragazza alla pari francese che è forse l’unica vera amica della ragazzina, all’infermiera dell’ospedale che crede in qualcosa che non vuole definire (ed è interpretata dalla stessa sceneggiatrice). Le difficoltà scolastiche di Maria (che si rifiuta di correre in palestra perché l’insegnante accompagna gli esercizi con musica moderna “diabolica”, un tema su cui i genitori di Maria sono particolarmente rumorosi) sono l’occasione per suggerire un’apertura ulteriore a temi quali la tolleranza (i coetanei di Maria ne hanno davvero ben poca) e la libertà religiosa (si allude al fatto che alcune compagne di classe musulmane saltano direttamente l’ora di ginnastica).
Non si ha mai davvero, però, l’impressione che Brüggemann sia alla ricerca di una vera e propria discussione o si apra al mistero doloroso di quello che sta raccontando (il “miracolo” che avviene alla morte di Maria, prontamente assunto ad autogiustificazione dalla madre). Come al responsabile delle pompe funebri del finale, poco gli importa la “verità” della fede professata da Maria fino alle estreme conseguenze: è la psiche ferita di una ragazzina quella che vuole mettere in scena. Ma nel descriverla con un piglio troppo sociologico la rende una vittima fin troppo consenziente e la priva del dramma sostanziale della libertà cui pure avrebbe avuto diritto e che avrebbe dato al film il respiro che gli manca.

Laura Cotta Ramosino

 

Da cineforum.net di Simone Soranna

Probabilmente mai come in questi anni i tempi stanno correndo freneticamente e sembra che niente e nessuno sia in grado di fermarli. L’unica soluzione per reggere il passo pare essere quella di assecondarli, a costo di rischiare la propria identità, per non sparire completamente.

Anche la religione non è esente da tale pressione, così come il cinema. Due sfere decisamente lontane e tuttavia accostate in maniera sorprendentemente naturale da Dietrich Brüggemann, il quale decide di realizzare una pellicola che racconti l’importanza del cambiamento attraverso una storia che nasce dalla tradizione (religiosa e cinematografica) e che di essa si nutre.

Kreuzweg – Le stazioni della fede racconta il Calvario (nel vero senso della parola) di un’adolescente cresciuta secondo un’educazione cattolica fondamentalista ancorata agli insegnamenti biblici basilari, priva dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II. Il regista decide di incastonare il racconto in uno stile (apparentemente) primordiale, attraverso quattordici lunghi piani sequenza realizzati a camera fissa (a parte un paio di eccezioni). Il cinema e la spiritualità sembrano essersi fermati ai loro albori: l’uno alle vedute statiche delle origini, l’altra ai dogmi della Chiesa fondata da Pietro. La frenesia, il cambiamento, la velocità dei giorni a noi contemporanei sono del tutto azzerati in nome di un ritorno alla tradizione che tuttavia, mai come ora, è carica di una portata innovatrice senza paragoni.

Lo scopo principale dell’autore è quello di mettere il pubblico nei panni di Dio. Il suo film è una metafora precisa e spietata di quello che è stato il percorso di Gesù verso la crocifissione. E non ci si riferisce solo alle quattordici tappe che costituiscono la via crucis (puntualmente chiamate in causa a scandire i capitoli della pellicola), quanto all’impossibilità di fare qualcosa per intervenire nella vicenda. Tutto è immobile e non c’è via di fuga, non c’è nessuna possibilità di azione. Attraverso una suspense perfettamente calibrata, Brüggemann costruisce un climax impossibile da sostenere: una giovanissima e innocente ragazza si avvicina frettolosamente verso un sacrificio che non le compete e lo spettatore non può far altro che assistere passivamente al macabro spettacolo messo in scena con una crudeltà tanto cinica quanto elementare.

Siamo costretti a subire il fascino di un cinema rigido, freddo e formale che rischia di non essere accettato perché non coerente con i tempi. Un ossimoro straziante e deprimente, per un’opera che rischia di non riceve l’accoglienza sperata. E ogni riferimento a qualsiasi creatore divino fattosi uomo non è puramente casuale.

 

Little Sister ( film di Hirokazu Kore-Eda)

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Little Sister (Umimachi Diary)

Regia: Hirokazu Kore-Eda

Ratings: Kids+13

durata 128 min.

Giappone 2015 Italia 1 gennaio 2016

 

 

INDICE

  • Trama
  • Recensioni
  • Trailer

TRAMA

Nella città balneare di Kamakura le tre sorelle Sachi, Yoshino e Chika perdono il loro padre. L’uomo aveva abbandonato la famiglia anni prima e si era rifatto una vita. Nel tragitto verso il funerale, infatti, le tre ragazze fanno la conoscenza della loro sorellastra, Suzu, una timida ragazza di 14 anni. Sachi, Yoshino e Chika invitano Suzu a vivere con loro, iniziando così una nuova e gioiosa avventura.

RECENSIONE CINEFORUM

Tre sorelle – Sachi,Yoshino e Chika – vivono nella casa di famiglia, ereditata dalla nonna e lasciata dalla madre dopo la separazione con il padre, avvenuta anni prima. Le ragazze vivono la loro vita adulta in una condivisione quasi adolescenziale, dividendosi tra gli obblighi lavorativi e le serate passate tra cibo, risate e qualche rivendicazione. Sachi è la più matura, fa l’in­fermiera e ha una relazione con un medico sposato che lavora nel suo ospedale; Yoshino lavora in banca, è infelicemente single e beve troppo; Chika è infantile, fa la commessa in un negozio di articoli sportivi e prende la vita con immatura semplicità. Il legame che le lega è fortissimo ma le giovani donne sembrano bloccate in un limbo, spaziale e temporale, tra l’infanzia negata dalle disavventure familiari e un’emancipazione indi­viduale che sembrano voler sempre rimandare. Le cose cambiano quando, al funerale del padre che non vedevano da tempo, incontrano la loro sorellastra ado­lescente Suzu. Senza pensarci, intuendola infelice davanti alla prospettiva di una vita con la matrigna anaffettiva, le donne la invitano a trasferirsi da loro, dando alla loro sorellanza, scricchiolante per l’abitudi­ne, una nuova dimensione di protezione e accoglienza. Umimachi Diary di Kore-Eda Hirozaku segue con partecipe discrezione l’interazione tra le quattro gio­vani donne, le pedina nel loro quotidiano, ne scruta gli impercettibili cambiamenti di umore, le crisi più o meno manifeste, le gioie minimali e improvvise. La presenza della piccola Suzu risveglia infatti i senti­menti delle sorelle, ma le mette anche di fronte a un malinconico bilancio di un’infanzia abbandonata troppo presto, di un rimpianto lancinante per i genito­ri assenti. Kore-Eda cesella le psicologie dei suoi per­sonaggi, dona loro vita e realtà con poche ma ben deli­neate caratterizzazioni, predilige i momenti conviviali – il cibo è una fonte di gioia inesauribile, soprattutto se gustato assieme – senza trascurare l’ondivaga soli­tudine emotiva delle ragazze. Umimachi Diary è un film di una disarmante e purissima semplicità, che stu­dia nel quotidiano le ragioni del cuore e riesce a farci affezionare alle protagoniste grazie all’amore, naturale e sincero, che il regista prova per loro. Quello di Kore-Eda è un cinema che non ha imbarazzo per il suo affiato sentimentale, che vuole (e sa) portare alla luce gli affetti profondi e primordiali, che si con­cede qualche pudica enfasi retorica per poi tornare a una cristallina modestia che discende dalla migliore tradizione giapponese, Ozu su tutti. Come già nel pre­cedente Father and Son, Kore-Eda indaga la famiglia come epicentro delle emozioni e segue amorevolmente le protagoniste nel loro percorso di crescita, predili­gendo le sospensioni alle scene madri, gli entusiasmi accennati alle esplosioni di gioia, i pianti silenziosi agli eccessi di dolore adottando una cadenza narrativa fluida, quasi musicale. Nonostante il tono placido e soffuso, Umimachi Diary costruisce una miracolosa empatia con le quattro giovani, ci lega a loro grazie a uno sguardo che, pur mantenendo una distanza di sicurezza, riesce a svelarci desideri e debolezze, aspira­zioni e delusioni, senza cedere al facile paternalismo. Un cinema intimo che narra con maestria l’apparente normalità e riesce a regalare universalità alla consue­tudine. Un vero e proprio colloquio sentimentale che lascia un rasserenante senso di solidale dolcezza e rin­frescante commozione.
Federico Pedroni, Cineforum n. 546, 7/2015

RECENSIONE di FORNARA

Un film bello: «Sono contento di riconoscere la bellezza quando è qui». Sincero: «La sincerità è quello che conta». Intenso: «Devo proteggere questo luogo». Minimalista e rincuorante: «Le unghie dei piedi ben colorate tirano su il morale». E due gridi, quello della sorella maggiore: «Papà è un imbecille!» e quello della sorella minore: «Mamma è un’imbecille!», con l’aggiunta: «Avrei voluto passare più tempo con lei…». Ci sono tre sorelle grandi che vivono in una cittadina ai bordi del mare. Il titolo originale è “Diario da una città sulla riva del mare”. Il padre muore, lontano: le ha lasciate da tanto tempo per farsi un’altra famiglia. Le tre sorelle decidono di andare alla cerimonia funebre e trovano la mai conosciuta sorella piccola, figlia della seconda moglie del padre. Quando le sorelle grandi tornano a casa, la sorella adolescente va a vivere con loro. Comincia per tutte una nuova vita, bella sincera intensa, nella quale si riconoscono tutte e quattro figlie di uno stesso padre e tre di loro di una stessa madre, che le ha lasciate da tanto e che rientra in scena, svirgolona, frizzantina, dolce. Il film è un adattamento da un manga intitolato “Our Little Sister” e sembra un film di Ozu, trasportato nell’oggi. Qui le sorelle, di cognome fanno Koda. Ozu ha girato, nel 1941, uno dei suoi tanti film intitolato “Fratelli e sorelle della famiglia Toda”, anche quello un film familiare con genitori e 5 figli, con la morte del padre, con le frizioni tra tutti, comprese nuore e parenti. Koda e Toda. Kore-eda e Ozu: una parentela stretta. Ci sono tanti fiori di ciliegio, tanti pasti da preparare, tanto cibo da gustare, un ristorantino con una padrona gentilissima, belle fritture di bianchetti piccolissimi. C’è soprattutto quella atmosfera di Ozu che i giappponesi chiamano “mono no aware” (…) e che indica l’essere coscienti della precarietà e della impermanenza delle cose, il leggero ma ben presente senso di dispiacere per il loro svanire, il godere di un momento e sapere che se ne andrà. Come se Ozu e Kore-eda dicessero insieme: «Si può, ancora, vivere così, con leggerezza, nell’impermanenza». Ozu, vivesse oggi, potrebbe anche girare, lui così discreto, l’immagine di una delle sorelle che esce dal bagno con l’asciugamano addosso, va verso il giardino, si ferma sul rialzo, accende il ventilatore, apre l’asciugamano bello largo e sta lì a prendersi l’arietta. Kore-eda rinfresca Ozu.
Bruno Fornara

RECENSIONE MYMOVIE

 

Nella cittadina di Kamakura vivono tre sorelle (Sachi, Yoshino e Chika) il cui padre le ha lasciate da 15 anni per iniziare una nuova convivenza. In occasione del suo funerale le ragazze fanno la conoscenza della sorellastra adolescente Suzu che accetta volentieri l’invito ad andare a vivere con loro.
Hirokazu Kore-eda in questa occasione ha avuto come punto di riferimento la graphic novel “Umimachi’s Diary” di cui ha conservato l’impianto di fondo riservandosi però, con il consenso dell’autore Yoshida Akimi, la più ampia libertà di rilettura. Ha così focalizzato il racconto non solo sulla giovanissima Suzu ma anche sulla più adulta delle sorelle, Sachi. Con la sensibilità che lo contraddistingue entra in questo universo femminile in punta di piedi ma la sua attenzione nei confronti delle protagoniste sa leggere dentro i tormenti che il tempo talvolta lenisce e talaltra rende più acuti e dolorosi.
Il sorriso di Suzu nasconde risentimenti che solo un’occasionale ubriacatura rende espliciti mentre l’apparente rigidità di Sachi trae origine non solo dall’abbandono paterno vissuto ad un’età in cui era presente la consapevolezza di quanto stava accadendo ma anche dal conflitto con l’irrisolta figura materna nei confronti della quale prova un sentimento di rifiuto. Da infermiera, tenuta al contempo a non farsi troppo coinvolgere dalle morti dei pazienti ma anche incapace di accettarle come routine professionale, Saichi cerca di proteggere le sorelle e se stessa dai sentimenti che vede come un pericolo a causa della loro instabilità e del dolore che possono procurare agli altri. In un liquore di prugne fatto in casa finisce con il condensarsi quasi simbolicamente il senso del film. Il passare del tempo ne modifica il sapore e la trasparenza. È quanto accade a molti di noi con sentimenti che ritenevamo a torto immutabili e che invece si trasformano sia in senso positivo che negativo. L’indumento offerto alla sorella più liberata così come il kimono d’estate regalato alla sorella acquisita diventano allora per Sachi segni di una possibile riapertura al sentire sempre meno vincolata a un passato di profonda sofferenza. Grazie anche a Suzu, ancora capace di farsi travolgere dalla bellezza dei ciliegi in fiore.

Zappoli mymovie

 

 

 

TRAILER

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I sospiri del mio cuore

I sospiri del mio cuore

I_sospiri_del_mio_cuore

di Yoshifumi Kondo, Hayao Miyazaki. genere: Animazione Ratings: Kids  durata 111 min. – Giappone 1995.

INDICE:

1) Trama

2) Recensioni

3) video

Trama
La storia inizia durante le vacanze estive del 1994 a Tokyo e narra di Shizuku, comune studentessa delle medie con una normale famiglia: padre, madre e sorella universitaria. Shizuku è appassionata di romanzi e spesso si reca alla biblioteca di quartiere per prendere in prestito numerosi volumi. Un giorno, nel prenderne in prestito alcuni, si accorge che nella tessera dei prestiti stranamente ricorre sempre un cognome prima del suo: Amasawa, ed incomincia quindi a fantasticare su chi sia questo ragazzo che sembra avere i suoi stessi gusti letterari.

Qualche giorno dopo, durante la sua consueta visita alla biblioteca, incontra sulla metropolitana uno strano gatto e decide di seguirlo; il felino la conduce in un quartiere ordinato e silenzioso sulla collina ed entra in un negozio di antiquariato. L’anziano proprietario mostra alla ragazza alcuni dei tesori del suo negozio, tra cui uno strano orologio e la statuetta di un gatto antropomorfo che chiama Baron. Shizuku fa anche la conoscenza di Seiji Amasawa, il nipote dell’antiquario, che altri non è che la misteriosa persona che leggeva i suoi stessi libri. Seiji ama tantissimo la musica e il vero obiettivo della sua vita è quello di diventare un bravo liutaio. Col passare dei giorni l’amicizia tra Shizuku e Seji si rafforza e approfondisce sempre più finché lui parte per un tirocinio di due mesi a Cremona presso un mastro liutaio per mettersi alla prova ed imparare a costruire violini. Nell’attesa del suo ritorno, anche Shizuku promette a sé stessa di testare le sue abilità scrivendo il suo primo romanzo.

Dopo un colloquio con i suoi genitori decide di non affrontare le superiori, per “mettere alla prova sé stessa”, senza rivelare a nessuno il lavoro che sta svolgendo. Appena finito il romanzo, che ha Baron come protagonista, Shizuku porta il manoscritto all’antiquario, che lo legge e ne rimane soddisfatto. Dopo aver finito il suo racconto, Shizuku decide infine di frequentare le scuole superiori, contenta di ciò che è stata in grado di realizzare e carica per scrivere nuovi romanzi e continuare gli studi. Alla fine del film Shizuku si sveglia nella notte e vede Seiji, che la aspettava in bicicletta. Dopo un viaggio in bici, Seiji porta Shizuku nel suo “posto segreto”, dove i due ammirano la città e il sole nascente. Mentre si svolge lo spettacolo dell’alba, Seiji rivela a Shizuku il suo amore e le chiede se un giorno l’avrebbe sposato, richiesta accettata con commozione da Shizuku.

 

Recensione

 Emanuele Sacchi mymovie
La piccola Shizuku si diletta in poesie e traduzioni dall’inglese, frequentando assiduamente la biblioteca in cui lavora il padre. Incuriosita dal fatto che un tale Amasawa prende in prestito gli stessi libri scelti da lei, Shizuku arriva a conoscere il ragazzo, grazie all’aiuto di uno strano gatto incontrato in metropolitana.
I sospiri del mio cuore è destinato a vestire perennemente i panni di unico lascito del talento di Yoshifumi Kondo, allievo prediletto di Miyazaki Hayao scomparso a soli 47 anni per un malore dovuto a stress da superlavoro. Una tragedia che portò Miyazaki ad allontanarsi per qualche anno dal cinema, afflitto dal dolore della perdita e dal senso di colpa. E che incrementa l’aura di malinconia che pervade il film, acuendo il lato “agro” rispetto a quello “dolce” di un racconto di formazione che mescola con maestria turbamenti dell’adolescenza, etica del lavoro, fede nei propri sogni e quel pizzico di magia che svolge un ruolo cruciale e maieutico nella consapevolezza di Shizuku sul proprio talento. Per Yoshifumi la suggestione di un negozio di cianfrusaglie, capace di attirare l’attenzione di un gatto sornione e di una ragazzina curiosa, è il motore di una svolta nel percorso di vita della protagonista, che si trova a mescolare la scoperta dell’amore e la ricerca della propria identità in un ottundente caos di emozioni. La delicata perizia di Yoshifumi Kondo si traduce in una messa in scena “verista” (più vicina in questo a Takahata Isao, l’altro mentore dello studio Ghibli, che a Miyazaki) della sceneggiatura di Miyazaki, in cui anche il minimo particolare è parte integrante della narrazione, contributo fondamentale alla veridicità del racconto e al potenziale di transfert tra spettatore e protagonista, in un racconto che si rivolge alle gioie e alle paure che accomunano gli adolescenti di ogni latitudine e generazione. La difficoltà di raggiungere un interruttore della luce, la necessità di un kleenex in più per un raffreddore che non se ne vuole andare sono piccoli gesti che contribuiscono al contrasto ossimorico con la sequenza “magica” (ma calata in un contesto onirico) in cui i due gatti magici Baron e Muta guidano Shizuku verso un percorso di crescita a cui manca solo un sentiero di mattoni dorati.
Lo script miyazakiano è immediatamente riconoscibile per alcuni topoi inconfondibili, a partire dalla scelta anagrafica della protagonista fino alla contrapposizione tra il Giappone come terra del Lavoro e l’Europa (specie l’Italia) come terra di Arte e Mistero: contrasto che si amalgama in uno Yin e Yang di sacrificio e talento, esemplarmente incarnati dalle contraddizioni del personaggio di Shizuku. Solo un finale sbrigativo e con ansia da happy end finisce per ridimensionare in parte gli spunti più stimolanti de I sospiri del mio cuore, quelli che si concentrano in un sinistro pre-finale che pare preludere a un futuro di disillusione, se non un presagio di morte, che resta uno spunto suggerito, ma parzialmente incompiuto. Come il talento di Yoshifumi Kondo, purtroppo, prematuramente strappato al cinema di animazione mondiale.
Il film è tratto da un manga (omonimo) di Aoi Hiiragi e i maniaci della Ghibli non mancheranno di apprezzare diversi omaggi celati qua e là al corpus miyazakiano, dalla scritta “Porco Rosso” su un orologio al pupazzo di streghetta che riecheggia la Kiki di Kiki Consegne a domicilio. I due gatti Baron e Muta ritornano come protagonisti in The Cat Returns di Hiroyuki Morita, del 2002.

Recensione

La pellicola, diretta dall’ormai scomparso Yoshifumi Kondô, maestro dell’animazione giapponese, che ha animato serie di successo come “Conan il ragazzo del futuro” e “Anna dai capelli rossi”, racconta la storia di Shizuku, una ragazza di 14 anni impegnatissima con lo studio per gli esami di ammissione al liceo. Shizuku non è come le altre studentesse però: la sua passione sono le storie ed infatti si reca ogni giorno alla biblioteca del suo quartiere per leggere.Macinando un volume dopo l’altro, Shizuku scopre, sbirciando i nomi sulla tessera dei noleggi, che c’è un ragazzo che prende in prestito i suoi stessi libri: Seiji Amasawa. La ragazza comincia quindi a fantasticare su questo Seiji e a domandarsi chi sia.

Un giorno, andando alla biblioteca, Shizuku segue un gatto che la porta ad un negozio di antiquariato: qui fa la conoscenza di un anziano signore che le mostra i suoi tesori, tra cui la statuetta di un uomo con il viso da gatto chiamato Il Barone (lo stesso personaggio che compare nel film “La ricompensa del gatto”, sempre dello studio Ghibli, così come la scritta “Porco Rosso” che si legge su un orologio del negozio che richiama l’omonimo film di Miyazaki, a dimostrazione che non solo la Pixar sa autocitarsi). Per uno scherzo del destino la ragazza viene a sapere che il nipote dell’antiquario è proprio Seiji: tra i due comincia così una timida ed avvincente storia d’amore, fatta di sogni, aspirazioni che sembrano impossibili e musica.

“I sospiri de mio cuore” ha la qualità magica di tutti i film scritti da Myazaki: attraverso i delicati disegni e la narrazione pacata, che si prende tutto il tempo per dare ampio respiro ai suoi personaggi, la storia induce nello spettatore la voglia di tornare giovane, di innamorarsi di nuovo di qualcuno, della vita, delle storie. I film dello studio Ghibli hanno davvero qualcosa di speciale: sanno toccare corde intime attraverso storie apparentemente semplici che in realtà hanno una potentissima carica emotiva. Shizuku, che vuole diventare una scrittrice, e Seiji, che vuole diventare un fabbricante di violini, rappresentano la speranza, l’amore, i sogni acerbi di persone giovani che hanno tutta la vita davanti per realizzare le proprie aspirazioni e prendersi il proprio pezzetto di felicità.

Di storie così abbiamo sempre bisogno. Valentina Ariete

 

KIKI – Consegne a domicilio (animazione a partire dai 7 anni)

 

KIKI – Consegne a domicilio

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Anno 1989

Durata 102 min

Genere animazione

Regia Hayao Miyazaki

INDICE

– Trama

– recensioni

– Video
 

TRAMA

« Il sangue della strega, il sangue del pittore, il sangue del panettiere… Come dei poteri donatici da Dio o chi per lui, ma per questi doni possiamo anche soffrire… »
(Ursula)

Kiki è una giovane strega che come da tradizione, compiuti i 13 anni parte da casa sulla sua scopa in compagnia soltanto di Jiji, il suo gatto nero, per l’anno di noviziato da svolgere in un’altra città. Dopo aver superato una tempesta ed aver incontrato un’altra giovane strega ormai al termine del suo tirocinio, Kiki raggiunge una caratteristica cittadina di mare, meta prefissata nell’immaginario della ragazzina fin dalla sua partenza.

Le prime esperienze in città, per lei che dopotutto è una ragazza di campagna, non sono però positive e Kiki, scossa dall’accoglienza piuttosto fredda e deludente del luogo, si rende conto che forse aveva fin troppo idealizzato quell’avventura tanto attesa da piccola e che probabilmente quella città non era il posto giusto in cui fermarsi. Fortunatamente si imbatte nella gentile Osomo, una giovane fornaia che in cambio di un aiuto nel suo negozio le offre un alloggio in cui abitare. Kiki può finalmente mettere a frutto l’unica arte magica che possiede, quella di saper volare sulla scopa, e apre una piccola attività di consegne volanti di pacchi.

Kiki comincia quindi ad inserirsi nel tessuto della cittadina e impara lentamente a distinguere il lato buono che in fondo c’è in tutte le persone. Durante questa sua lenta maturazione, Kiki è talvolta euforica e talvolta depressa con repentini sbalzi di umore, e ne fa le spese il povero Tombo, un ragazzo di città affascinato dal volo, suo coetaneo e suo primo vero amico, che non sempre riesce a capire il carattere difficile della ragazza.

Un giorno però accade un evento apparentemente inspiegabile: la capacità di volare che Kiki possedeva fin da bambina, sembra svanita. Kiki è disperata e solo allora comincia a rendersi conto di cosa veramente rappresenti l’anno di noviziato: riuscire a trasformare le proprie attitudini e il proprio talento di bambina nell’attività da svolgere da adulti. Qualora avesse fallito, lei non avrebbe avuto più alcun valore. Con l’aiuto di Ursula, una sua amica pittrice, capisce però che la perdita dell’ispirazione o la paura di non essere in grado di svolgere il proprio compito, è una cosa naturale e che solo riuscendo a superare questi momenti di sconforto si può crescere e maturare.

Improvvisamente per televisione viene trasmesso un servizio in diretta: un dirigibile ancorato presso la cittadina ha rotto gli ormeggi a causa del forte vento ed è in balia della tempesta. Kiki si rende conto che il suo amico Tombo era salito proprio su quel dirigibile ed ora era rimasto aggrappato ad una fune fuoribordo. Mentre il dirigibile viaggia senza controllo sui tetti della città, Kiki riesce a superare il blocco psicologico che non le permetteva più di volare e a cavallo di uno spazzolone finalmente si libra nell’aria per salvare il suo amico.

RECENSIONI

Pur non nascondendo mai la sua natura di opera minore nell’ambito del corpus miyazakiano, Kiki – Consegne a domicilio è quantomai indicativo per comprendere le tematiche fondanti della poetica dell’autore nipponico. È spesso dalle opere minori, inclini alle semplificazioni e talvolta allo stereotipo, che si coglie con maggiore esattezza l’essenza di un grande artista e dei suoi topoi: Kiki non fa eccezione in questo senso.
Nella parabola della streghetta dagli umili abiti rivive il consueto viaggio iniziatico di Miyazaki, spesso condotto tra i cieli (in precedenza ne Il castello nel cielo, mentre Porco rosso innalzerà ai massimi livelli il feeling eroico con l’aria) e spesso con una ragazzina come protagonista. Kiki raggiunge la fatidica età di passaggio, quella dei quattordici anni, per abbandonare la dimora natia e scoprire la vecchia Europa, ancora una volta coacervo ideale di stilemi miyazakiani. Modellata su Stoccolma e Lisbona, la città in cui Kiki approda a cavallo della sua scopa volante è il luogo dello smarrimento e dell’emancipazione, in cui l’eroina è da un lato costretta ben presto a una necessaria e dura introspezione, ma può anche sentirsi accettata nonostante la sua diversità; il luogo in cui, attraverso il duro lavoro, conquistare la propria matura autonomia.
Terzo film dello Studio Ghibli e primo successo commerciale – sarà ugualmente il primo ad essere doppiato e distribuito dalla Disney – diretto da Hayao Miyazaki, Kiki mostra il lato più verista del Miyazaki-pensiero, limitando la sfera del magico a un ruolo di contrappunto nel percorso di crescita, totalmente umano, della protagonista. La perdita dei poteri magici, che comporta passaggi anche narrativamente traumatici – Jiji, gatto nero parlante e inseparabile compagno di Kiki, ritorna a essere un gatto qualsiasi, privando il film di un elemento caratterizzante – è del tutto assimilabile, in tutt’altra epoca e contesto, a quella che colpisce in Spider-man 2 il supereroe della Marvel. Pubertà come chiusura di una breve epoca felice di magia e ingresso nel mondo, meno accattivante ma capace di gratificare concretamente, delle responsabilità e dell’autonomia.
Forse è proprio l’eccesso di chiarezza nei segni disseminati da Miyazaki il principale punctum dolens di Kiki – Consegne a domicilio, quello sfiorare l’apologo che ha reso il film un prodotto più esportabile di altre opere del sensei, ma lontano dai vertici – non a caso oscuri ed ermetici, quasi esoterici, nelle loro allegorie – de Il castello errante di Howl o La città incantata. Emanuele Sacchi MyMovie.it

 

Recensione
Piccole streghe crescono
Come ogni strega che si rispetti, compiuti i 13 anni Kiki è chiamata a lasciare la casa dei propri genitori per andarsi a cercare un paese a cui offrire i propri servizi magici. Impacciata e un po’ arruffona, Kiki, oltre che sulla sua forza di volontà e sul supporto del simpatico gatto nero Jiji, potrà contare solo sulla sua capacità di volare sulla scopa, arte magica basilare per tutte le altre streghe. Atterrerà in una città caotica in cui la tradizione stregonesca è molto meno conosciuta e rispettata, ma grazie al buon cuore di una panettiera riuscirà a trovare una stanza e ad aprire una piccola attività di svolazzanti consegne a domicilio. Si nasconde però dietro l’angolo lo spettro della solitudine, delle insicurezze nelle relazioni coi coetanei e, come loro conseguenza, l’indebolirsi dei suoi poteri di stregoneria.Un classico per tutti, ventiquattro anni dopo
Nei cinque anni che oramai ci separano dall’uscita di Ponyo sulla scogliera, a tutt’oggi ultimo film firmato da Hayao Miyazaki, la distribuzione italiana ha fatto ammenda e ha trovato modo di concedere una ritardataria fiducia ai capolavori dello Studio Ghibli, colpevolmente ignorati per decenni (per intendersi, il primo film di Miyazaki distribuito dalle sale italiane è stato, con “soli” tre anni di ritardo, La Principessa Mononoke nel 2000, a 16 anni di distanza da Nausicaa nella Valle del Vento, primo lungometraggio a se stante del grande animatore, che tuttora conta solo alcuni passaggi televisivi). Dopo i recuperi de Il mio vicino Totoro e Porco Rosso, Lucky Red tributa il meritato esordio in sala anche a questo film del 1989, tratto da una serie di racconti giapponesi per ragazze ma rivoluzionato in fase di sceneggiatura, guadagnando la consueta innervatura tematica dello Studio Ghibli, fatta di sognanti malinconie nei confronti del mondo rurale e degli elementi naturali, sofferti passaggi all’età adulta e una concezione sfumata e matura del fantastico, utilizzato per indagare gli aspetti intimi dell’esperienza umana e dell’adolescenza in particolare. Kiki, perfetto archetipo di protagonista Miyaziakiana, non dovrà combattere con nemesi o incarnazioni del male, ma più semplicemente con le complessità dell’autodeterminazione e dei rapporti tra esseri umani. I suoi poteri da strega rappresentano la sublimazione fantastica dell’eredità famigliare e delle capacità di cui ognuno dispone, strumenti che bisogna imparare a padroneggiare affacciandosi all’indipendenza, al lavoro e agli approcci con l’altro sesso. Il concetto di volo, unico talento magico e mezzo di sussistenza di Kiki, pervade tematicamente tutto il film e viene investito con naturalezza del valore di metafora dell’appropriarsi della fiducia in se stessi: anche il buffo ammiratore di Kiki ne conquisterà la fiducia per i suoi tentativi cocciuti e appassionati di librarsi in aria, in lotta coi propri sogni e la propria autodeterminazione proprio come la streghetta. Dopo quasi un quarto di secolo, Kiki – Consegne a Domicilio rivela una freschezza inattacabile sotto tutti i suoi aspetti: una trama che conserva la sua portata universale e la capacità di parlare a pubblici di ogni età; tempi comici e drammatici ancora perfettamente funzionanti e coinvolgenti; soprattuto, un tratto limpido ed essenziale che tiene testa anche in spettacolarità ai suoi attuali concorrenti 100% digitali, capace di generare magoni e incanti anche solo con il distendersi di panorami nostalgici, cittadine colorate, coste luccicanti, foreste brulicanti, cieli da attraversare in dirigibile. Li attraverserà nella scena finale anche Kiki, a bordo di uno scopettone, in una prova di amicizia e fiducia in se stessa che decreterà una volta per tutte la sua appartenenza alla città che ha scelto e al suo avvenire da strega. Insomma, Benedetto sia l’Oscar a La città incantata e tutto quello che ne è scaturito negli anni seguenti in termini di valorizzazione dei lavori dello Studio Ghibli. La scoperta tardiva da parte della distribuzione di un’opera semplice e magistrale è l’occasione di regalarci e di regalare ai più piccoli un’esperienza visiva ed emotiva che il passare del tempo sembravano averci negato. Alfonso Mastrantonio – del 24/04/2013
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KIKI Consegne a domicilio – Jiji, aiutante gatto

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KIKI Consegne a domicilio – Una nuova casa

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La tenerezza e la paura. Ascoltare i sentimenti dei bambini.(Bernardi-Tromellini 2004)

la-tenerezza-e-la-paura_31288La tenerezza e la paura. Ascoltare i sentimenti dei bambini

Bernardi Marcello – Tromellini Pina

Prezzo € 9,00

EditoreTEA

Anno pubblicazione2004

Numero pagine150

«Questo libro è nato dalla condivisione di un’unica concezione del bambino, del suo mondo e del suo futuro. Un bambino libero, potente, costruttore che ha tante cose da dire e da insegnare anche ai grandi. Un bambino affascinante che, a sua volta, può essere affascinato o spento dal contesto in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di nascere.»

Due guide d’eccezione – Marcello Bernardi, il grande pediatra italiano recentemente scomparso, e Pina Tromellini, pedagogista nelle scuole materne di Reggio Emilia – hanno raccolto, interpretato e commentato i pensieri e i sentimenti dei bambini sulla base delle proprie differenti esperienze professionali. Senza essere un vero e proprio manuale, ma piuttosto una lunga conversazione, questo libro ci suggerisce cosa e come fare per entrare nel meraviglioso mondo dell’infanzia: fermarsi un istante, partire dalle esperienze di tutti i giorni e ascoltare le voci dei bambini.

Marcello Bernardi, scomparso nel 2000, fu professore di Puericultura all’Università di Pavia e di Auxologia all’Università di Brescia, e inoltre, presidente del Centro Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale Italiano.

Pina Tromellini, pedagogista e specialista in terapia familiare e infantile, ha lavorato a lungo nell’équipe del professor Loris Malaguzzi. Da oltre vent’anni inoltre opera presso le strutture pubbliche per l’infanzia di Reggio Emilia. È consulente di case editrici e riviste specializzate.

“Caro Babbo Natale”, nelle letterine i sogni e le paure dei bambini

“Caro Babbo Natale”, nelle letterine al Corriere i sogni e le paure dei bambini

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Caro Babbo, fai ricrescere la betulla che si è spezzata nel mio giardino?». «Caro Babbo, vorrei che la mia mamma e il mio papà smettessero di litigare e tornassero insieme». «Ehi, Babbo, porti un regalo anche al mio amico Redi, che è musulmano?». «Ma le tue renne puzzano davvero? E tu, quando giochi con me?» Disegnate. Via mail. Su cartoncini colorati o figli di quaderno. Sognanti, confidenziali o piene di richieste…..

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Ernest & Celestine (Aubier 2012, )

Ernest & Celestine (2012)

 E’ un film di genere animazione della durata di .

diretto da: Aubier,  Patar, Renner .

Sacher Distribuzione – .

 

 

 

Sinossi

Intervista a Daniel Pennac

Video

 

Sinossi
Questa è la storia di Ernest e Celestine, un orso grande e grosso che sogna di fare l’artista e di una topolina che non vuole fare la dentista.

Nel convenzionale mondo degli orsi, fare amicizia con un topo non è certo cosa ben vista. Nonostante questo, Ernest, un orso che vive ai margini della società facendo il clown e il musicista, accoglie in casa sua la piccola topolina Celestine, orfanella fuggita dal mondo sotterraneo dei roditori. Questi due esseri solitari cercando sostegno e conforto uno nell’altra sfidano le regole dei loro rispettivi mondi e scompigliano così l’ordine stabilito…

Intervista a Daniel Pennac

Il film d’animazione Ernest e Celestine di Stéphane Aubier, Vincent Patar, Benjamin Renner (presentato a Cannes 65 nella sezione  Quinzaine des Réalisateurs, ottenendo una mezione speciale) e sceneggiato dal grande scrittore francese Daniel Pennac che era qui a Roma a presentare il film insieme al doppiatore italiano di Ernest, ossia Claudio Bisio.


L’animazione di questo film ha richiesto più di 4 anni di lavoro, come e quando è stato coinvolto? Lo considera una vacanza dal suo lavoro di scrittore?

 

La storia è lunga, ma ve la faccio breve. Nel 1983 una scrittrice belga, Monique Martan (in arte Gabrielle Vincent), scrisse un libro che mi piacque moltissimo. Così è nata una corrispondenza epistolare durata 10 anni, parlavamo di molte cose, ma non ci siamo mai nè incontrati nè sentiti per telefono.  Poi purtroppo Monique morì e 10 anni dopo i produttori di questo film mi hanno chiamato per scrivere una sceneggiatura tratta dalla serie di Ernest e Celestine scritta ovviamente da lei. Loro pensavano che nemmeno conoscessi queste opere che in fondo in Francia non erano così famose. Io ovviamente ho accettato e ho scritto sia la sceneggiatura che un romanzo che spazia un po’ con questi personaggi.
L’universo tipico di Pennac sembra gettare qualche ombra sui personaggi originali di Gabrielle Vincent, è vero?

Gli originali Ernest e Celestine disegnavano un mondo ideale, attraverso piccoli momenti di quotidianità nella relazione adulto/bambino. Racconti che tra l’altro mi hanno ricordato il mio stesso rapporto con mia figlia. Ma sarebbe stato impossibile trarre un film solo da quei brevi momenti paradisiaci. Io volevo raccontare una storia che raggiungesse quel Paradiso partendo però dall’Inferno per quei personaggi.
Tu Claudio hai già portato a teatro qui in Italia due spettacoli tratti da Pennac, è una felice collaborazione?

 

Bisio: Non solo ho fatto quei due spettacoli, ma conosco interamente e approfonditamente tutta l’opera di Daniel. E concordo che in questo caso la firma di Pennac si sente molto nella differenza culturale tra orsi e topi nel film: la multietnicità è una chiave fondamentale delle sue opere. Ho tentato per tanto tempo di portare al cinema uno dei suoi romanzi, ma non voglio fare il passo più lungo della gamba, sono romanzi molto difficili da immaginare e non si è mai trovata la chiave giusta per una trasposizione soddisfacente. In più so bene quanto lui sia esigente.

 

Pennac: Io ho visto solo 15 minuti di film doppiato in italiano. Ma mi sarebbe piaciuto vederne di più, per apprezzare il lavoro di Claudio. Una volta l’ho ascoltato a teatro su uno dei miei testi, è stato grandissimo! In Francia i doppiatori sono Lambert Wilson e Pauline Brunnier che ha confessato di essere molto affezionata aErnest e Celestine perchè suo padre le leggeva i racconti da piccola prima di andare a dormire.
Il tema della paura entra qui sin dalla primissima sequenza, mi sembra fonadamentale, come l’hai affrontato?

Pennac: La paura è una delle passioni della mia vita. Perchè da scrittore è interessante pensare che le cose peggiori che succedono derivano unicamente da quella. Mi interessa sempre la paura come la passione. Io poi non voglio mai dare dei messaggi, voglio essere me stesso, detesterei un film o un romanzo che si proponesse di demandare un semplice messaggio. Al di là della sceneggiatura che ho scritto che può essere interpretata in vari modi, la bellezza del film sta nella pittura ad acquerello che è magnifica.

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La collina dei papaveri (animazione, a partire da 8-9 anni)

GENERE: Animazione
REGIA: Goro Miyazaki
SCENEGGIATURA: Hayao Miyazaki, Keiko Niwa
FOTOGRAFIA: Atsushi Okui
PRODUZIONE: Studio Ghibli, Nippon Television Network Corporation (NTV), Dentsu
DISTRIBUZIONE: Lucky Red
PAESE: Giappone 2011
DURATA: 91 Min
FORMATO: Colore

INDICE

Trama

Trailer

 

Dal leggendario e osannato Studio Ghibli (Il Castello errante di Howl, Ponyo, Totoro e Arietty) arriva nelle sale, in un imperdibile evento unico che si terrà il 6 novembre, La Collina Dei Papaveri, l’ispiratissima e attesissima storia firmata Goro e Hayao Miyazaki. Impreziosito da magnifici disegni, il film descrive le vicende dei due protagonisti Umi e Shun e del forte legame di amicizia che si sviluppa tra loro quando decidono di unire le forze per salvare il loro vecchio liceo dalla demolizione.

TRAMA
Umi è una ragazza di 16 anni, suo padre è morto in mare durante la guerra di Corea, quando la sua nave ha urtato una mina. Sua madre invece è docente universitaria negli Stati Uniti[7] ed è spesso assente per lavoro. La ragazza vive quindi con la nonna e i fratelli minori in una grande casa ricavata da un ex ospedale, costruito sulla “collina dei papaveri” che domina il porto. Nella casa, oltre a loro, abitano anche due signore che hanno preso in affitto una stanza. Umi ogni mattina issa due bandiere di segnalazione marittima che significano “prego per una navigazione sicura”, così come le aveva insegnato il padre da piccola.La storia è ambientata a Yokohama nel 1963, un anno prima dei giochi della XVIII Olimpiade di Tokyo, che furono il segnale della avvenuta ricostruzione del Giappone dopo la guerra e sancirono il definitivo riconoscimento internazionale della nazione.

Shun è un ragazzo di 17 anni ed ogni mattina arriva al porto sul rimorchiatore del padre adottivo per poi andare a scuola. Vede sempre quello strano rituale con le due bandiere che si ripete giorno dopo giorno e ne è talmente incuriosito da scriverci una poesia (una sorta di “messaggio in bottiglia” verso la misteriosa ragazza delle bandiere) che pubblica sul giornale della scuola.

Umi e Shun si incontrano per la prima volta a scuola, nel corso di un’azione di protesta che vede protagonista il ragazzo e che lascia ad Umi un’impressione piuttosto negativa. I due si incontrano di nuovo quando Umi accompagna la sorella minore a chiedere un autografo a Shun, e scopre che il ragazzo fa parte del club di letteratura ed è il responsabile della pubblicazione del giornalino scolastico. Umi finisce per entrare nel club come copista, per aiutare Shun, il quale è dolorante a una mano a causa del graffio di un gatto.

Intanto la scuola è in fermento per le accese discussioni che si scatenano circa la necessità di salvare o meno dalla demolizione il “Quartier Latin”[8], un edificio adibito a sede dei club scolastici, carico di storia e di ricordi ma ormai vecchio e fatiscente. Il Giappone si sta velocemente modernizzando e per il vecchio edificio non c’è più posto: ormai la dirigenza della scuola ha deliberato per la sua demolizione, ma una parte degli studenti preme per salvaguardare la struttura e la storia che rappresenta.

Su iniziativa di Umi molti studenti si rendono disponibili a ristrutturare l’edificio e restituirlo alla sua vecchia gloria. Durante i lavori la ragazza ha modo di approfondire la conoscienza di Shun e i due cominciano a sviluppare dei sentimenti di affetto reciproci. Umi racconta a Shun di suo padre e della sua morte, mostrandogli una fotografia dell’uomo. Il ragazzo però rimane stupito nel vedere in mano all’amica la stessa foto che possiede anche lui e, dopo una serie di ricerche, arriva a scoprire la verità sul suo conto: il suo vero padre è proprio il padre di Umi, che lo ha affidato ai suoi attuali genitori adottivi quando era ancora in fasce. La nuova rivelazione rende i due ragazzi di fatto fratello e sorella e Shun si allontana da Umi per evitare coinvolgimenti ulteriori. Da principio la ragazza è disorientata dal repentino cambiamento dell’amico, ma quando il ragazzo le rivela i suoi dubbi, ella non può fare altro che accettare la situazione.

Dopo un grande impegno collettivo gli studenti completano la ristrutturazione del “Quartier Latin”, ma sono delusi e amareggiati quando ricevono la notizia che Tokumaru, un influente sponsor della scuola, ha già preso la decisione di demolire il vecchio edificio per far posto ad una nuova struttura. Nel disperato tentativo di prevenire la demolizione, gli studenti nominano Shun, Umi e Shirō come loro rappresentanti per andare a Tokyo a persuadere Tokumaru a cambiare idea. I tre convincono il magnate a venire ad ispezionare il “Quartier Latin” di persona. Nel mentre Umi e Shun aspettano il tram per tornare a casa, la ragazza confessa che nonostante siano fratelli lei non potrà mai ignorare i sentimenti che prova per lui. Anche il ragazzo dichiara la stessa cosa.

Intanto la madre di Umi torna dall’America, e la ragazza si confronta con lei per scoprire la verità circa il passato di Shun. La donna le rivela che il ragazzo non è il figlio biologico del padre di Umi, ma che era stato registrato come tale per prevenire che potesse essere messo in orfanotrofio in seguito alla morte del suo vero padre durante la guerra di Corea. I genitori di Umi, poi, non avevano potuto tenere il bambino, dal momento che la madre era incinta e non si poteva occupare di un altro figlio, così lo avevano dato in affidamento ad una coppia di amici che avevano appena perso il loro bambino. Questi sono gli attuali genitori adottivi di Shun.

Il giorno seguente Tokumaru visita il “Quartier Latin” e rimane positivamente sorpreso dall’attaccamento degli studenti all’edificio, dal loro impegno nella ristrutturazione e dalla loro preparazione scolastica. Decide perciò di abbandonare i suoi progetti di demolizione e di costruire il nuovo edificio in un’altra zona. Nel frattempo Umi e Shun hanno dovuto lasciare in fetta e furia la scuola per incontrarsi con Onodera, il capitano di una nave in partenza dal porto di Yokohama, che è in possesso di informazioni dettagliate sui genitori dei ragazzi. Egli racconta che conosceva bene i due uomini, e che ai tempi della guerra erano un trio inseparabile, inoltre conferma che i due giovani non sono imparentati. Chiarito il loro passato i due tornano alla loro vita quotidiana, mentre Umi continua nell’abitudine di issare le bandiere tutte le mattine. (da Wikipedia)

 

TRAILER 

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Monsieur Lazhar (Falardeau 2011)

Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau.

Titolo originale

Bachir LazharDrammatico, 

durata 94 min. –

Canada 2011. –

Officine Ubu uscita venerdì 31 agosto 2012. 

 

 

INDICE

trama

Recensioni

– Vivere con un fardello

– L’elaborazione del lutto

Trailer

 

 

Trama
Bachir Lazhar, immigrato a Montréal dall’Algeria, si presenta un giorno per il posto di sostituto insegnante in una classe sconvolta dalla sparizione macabra e improvvisa della maestra. E non è un caso se Bachir ha fatto letteralmente carte false per avere quel posto: anche nel suo passato c’è un lutto terribile, con il quale, da solo, non riesce a fare i conti. Malgrado il divario culturale che lo separa dai suoi alunni, Bachir impara ad amarli e a farsi amare e l’anno scolastico si trasforma in un’elaborazione comune del dolore e della perdita e in una riscoperta del valore dei legami e dell’incontro.
Il film è un racconto semplice, sia dal punto di vista della struttura che dell’estetica, assolutamente naturalistica, ma suscita emozioni forti perché sembra uscito da un passato più autentico, incarnato dal personaggio del titolo, che delle nuove locuzioni per l’analisi logica non sa nulla ma conosce la sostanza, quella che non muta. Un passato, soprattutto, in cui l’insegnamento era anche iniziazione e cioè trasmissione di una passione prima che di un sapere e in cui l’abbraccio tra maestro e bambino, così come lo scappellotto, non era proibito ma faceva parte di un relazione profonda, che non poteva non contemplare anche le manifestazioni fisiche. Monsieur Lazhar è dunque un film commovente, non pietistico né moraleggiante, che riflette sulla perdita ma fa riflettere anche noi su cosa ci siamo persi per strada.
Le istanze sociali, quali il rischio di espulsione del maestro dal paese o la solitudine famigliare di molti bambini, contribuiscono al clima del film ma non sgomitano per emergere là dove non servono. Il cuore del film resta la relazione tra i bambini –Alice (Sophie Nelisse) in particolare- e il maestro, ovvero l’incontro con l’altro, la scoperta reciproca delle storie personali che stanno dietro un nome e un cognome sul registro, da una parte e dall’altra della cattedra. È questa simmetria, infatti, che, se inizialmente può suonare un po’ meccanica, diviene poi responsabile della forza e della bellezza del film, specie perché il regista e sceneggiatore Philippe Falardeau non pone tanto l’adulto al livello dei bambini quanto il contrario. Posti di fronte alla necessità di superare un trauma che alla loro età non era previsto che si trovassero sulla strada, gli alunni di Bachir sperimentano il senso di colpa, la depressione e la paura esattamente come accade all’uomo, nel suo intimo.
Insegnando ai bambini e a se stesso a non scappare dalla morte, Lazhar (si) restituisce la vita. (Cappi mymovies.it)

 

Recensioni

Vivere con un fardello
In una Montreal di incolore luminosità, una giovane insegnante si suicida nella sua classe. Panico fra colleghi, dirigenti, genitori. Mentre si cerca di tornare alla normalità e di fronteggiare i possibili danni riportati dai bambini, alla Preside in crisi si presenta Monsieur Lazhar, un garbato signore sulla cinquantina, di origine algerina e dal francese impeccabile, proponendosi come sostituto per la classe colpita dal lutto. Ha i suoi metodi, un po’ particolari, e se trova sintonia con alcuni alunni e colleghi, con altri il rapporto genera frizioni, mettendolo in rotta di collisione con l’autorità scolastica. Lazhar del resto sotto la scorza affabile anche se riservata, nasconde la sua tragedia personale: è infatti un sans papier ancora in attesa che la sua posizione di rifugiato politico sia accettata, dopo essere fuggito dall’Algeria dove sono morte la moglie e le due figlie, in seguito a un attentato durante la lunga guerra civile che è costata al paese migliaia di morti.

Inoltre non è nemmeno un insegnante, solo un uomo colto e sensibile, che sta cercando di sopravvivere con i pochi strumenti a sua disposizione. Monsieur Lazhar è un bellissimo esempio di film che, senza comporre manifesti, senza enunciare tesi, riesce a comunicare svariate sensazioni e riflessioni (e a commuovere), sorprendendo quasi lo spettatore per l’intensità della sua reazione. Il tema dominante è quello del dolore, dell’elaborazione del lutto, da parte degli adulti, ma soprattutto da parte dei bambini, dei quali il film traccia alcuni ritratti di grande delicatezza. Amore è protezione. Ma quando non funziona? Non sarà con ipocrite menzogne né con rigide regole formali (come se l’elaborazione del lutto passasse attraverso una serie di istruzioni per l’uso) che gli adulti calmeranno il tumulto nei cuori dei loro figli. Monsieur Lazhar ci prova con metodi dettati dalla sua umanità, forgiata dai fatti tragici della sua esistenza, che naturalmente finiscono per cozzare contro il formalismo con il quale autorità e famiglie si affannano a “proteggere” i bambini, ma soprattutto se stessi, dalla responsabilità di spiegare, di far accettare. Quando si può parlare a un bambino come a un adulto, qual è quel momento che si tende sempre a rimandare, lasciandoli nel frattempo soli nel guado tragico di certi eventi? Così che gli adulti genitori sono ben contenti di scaricare sugli adulti “stipendiati” quello che dovrebbe essere un loro compito. Ma guai a uscire dalle regole. E così con un sottile parallelo, altrettanto difficile sarà la comunicazione della tragedia più intima di un emigrato con l’algida e impersonale burocrazia che dovrebbe accettarlo, proteggerlo. La sceneggiatura infatti descrive con pochi tocchi efficaci anche i rapporti fra gli adulti, fra Lazhar e il resto del mondo, un mondo dove il “politicamente corretto” sta diventando un ostacolo alla reciproca conoscenza e comprensione, dove la discrezione è scusa per evitare coinvolgimenti. In un mondo fondamentalmente chiuso e cattivo, c’è ancora la possibilità che la semplice bontà, la generosità d’animo, facciano la differenza? Presentato a Locarno con gran successo l’anno scorso, il film, diretto daPhilippe Falardeu, è pronto per raccogliere soddisfazioni ai Golden Globe e anche agli Oscar. Grandi interpreti, fra gli adulti e i ragazzini. Si impone la bravura del protagonista Mohamed Fellag, attore e scrittore algerino, già interprete del lavoro teatrale di Evelyne de la Chenelière da cui è tratto il film. Ma vanno segnalati anche i due giovanissimi protagonisti Sophie Nélisse e Émilien Néron. Monsieur Lazhar racchiude fra un inizio e una fine di rara, toccante efficacia una vicenda che resterà nel ricordo dello spettatore più sensibile. (Molteni moviesushi.it)
l’elaborazione del lutto

Fu Elizabeth Kübler Ross a trattare, nel 1970, il sistema di elaborazione del lutto attraverso le cinque fasi del dolore. Philippe Falardeau eredita il modello per portare al cinema il romanzoBachir Lazhar di Evelyne De La Chenelière che tenta di descrivere la parabola di crescita emotiva di un gruppo di studenti sulla soglia dell’esistenza, testimoni di un gesto estremo, egoistico e plateale, che rimane sospeso nel regno dell’incomprensibile. Candidato ai premi Oscar come miglior film straniero, Monsieur Lazhar è la vicenda dell’evoluzione di esseri umani per troppo tempo intrappolati nel proprio corpo e nel proprio status, in una sorta di dimensione di mezzo: una situazione pericolosamente simile a quella della crisalide raccontata da Balzac prima, e poi dallo stesso Lazhar.In una scuola del Canada francese, il piccolo Simon (Émilien Néron) si reca in aula con un cesto di latte. Trovando la porta chiusa, il ragazzino spia dal vetro: lo scenario che si apre davanti ai suoi occhi è sconcertante. Il corpo di Martine, l’insegnante tanto amata dalla classe, pende con un cappio stretto al collo. Il suicidio della docente spinge l’intero consiglio scolastico a fronteggiare il lutto del gruppo di bambini traumatizzati. Seguendo le direttive del ministero, la preside (Danielle Proulx) decide di affiancare una psicologa alla classe e, nel frattempo, assume Bachir Lazhar (Mohamed Fellag), che si offre volontario per prendere il posto di Martine. Cittadino clandestino scappato dall’Algeria, Bachir si improvvisa maestro e, nel tentativo di salvare il proprio posto di lavoro, finirà con l’affezionarsi alla classe, in particolar modo ad Alice (Sophie Nélisse), bambina molto matura che, a differenza dei compagni, è l’unica a parlare apertamente del suicidio di Martine e delle ferite che il tragico evento ha lasciato nella sua giovane anima.È la negazione la prima reazione dell’essere umano di fronte alla perdita di una persona cara; proprio il rifiuto della tragedia avvenuta nell’aula scolastica spinge la politicamente corretta signora Vaillancourt a stendere un velo di silenzi sull’improvvisa scomparsa dell’insegnante. Una morte che il regista Falardelau mostra solo per brevi istanti, quasi carezzando e rifuggendo l’immagine statica di una vita che si spegne e che, nel frattempo, rimane impressa negli occhi di un bambino. Su questa sequenza fuggevole e al tempo stesso impossibile da dimenticare si basa tutta la drammaturgia di Monsieur Lazhar, pellicola che si fa forte di una sceneggiatura saldamente ancorata a un’idea coraggiosa e ben sviluppata, che fa emergere i personaggi senza bisogno di rincorrere facili artifizi. Descritta in pochi, eccelsi minuti di cinema, la morte di Martine è una presenza che emerge grazie ad un forte senso di assenza: di spiegazioni razionali, di capacità di elaborare il lutto, di comunicazione volta a superare il trauma. E che grava sulla mente dei bambini, costretti giorno dopo giorno a rientrare nel teatro della tragedia, a vivere nel luogo della non-vita. In questo senso Falardelau dimostra una magistrale capacità di raccontare una storia non solo attraverso la trama, ma tramite un uso consapevole del mezzo cinematografico snudato da artifizi inconsistenti, che mostra la crudeltà di un mondo pieno di indifferenza, dove i bambini spesso vengono lasciati in balìa di se stessi.Grazie ad una messa in scena asettica come l’aula in cui si svolge gran parte della diegesi,Monsieur Lazhar commuove e affascina per la sua disarmante semplicità nel descrivere la quotidianità della società contemporanea. Attraverso la dialettica maestro-alunni, il regista racconta la disperata ricerca dei piccoli protagonisti di una valvola di sfogo. Trattati con condiscendenza, come se non capissero quello che accade intorno a loro, i bambini rincorrono al contrario un modo per esprimere il proprio lutto e, insieme, il proprio trauma. Bachir Lazhar è l’unico disposto ad offrir loro quello di cui hanno veramente bisogno: maestro improvvisato per scacciare i propri fantasmi personali, l’insegnante algerino non rimane veicolato ad alcuna circolare ministeriale e si rapporta con i propri alunni attraverso un atteggiamento quasi paritario, pur non rinunciando alla propria posizione di autorevolezza. Eppure anche questa autorità alla fine decade, nella struggente scena finale, dove alunno e insegnante si fondono, in un continuo e reciproco arricchimento. Forte di un ottimo cast capitanato dall’eccelso Mohamed Fellag, Monsieur Lazhar è un film che parla alle corde più intime di un’umanità da sempre spaventata dall’idea della morte e del suo superamento. Senza retorica o clichè, il film di Falardeau è il ritratto sentito di un’infanzia violata, che trova nella cultura e nella comunicazione l’unico modo per sperare in un domani in cui la crisalide della favola possa dispiegare le ali di una splendida farfalla. ( Pomella silenzio-in-sala.com)

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