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Quando hai 17 anni

Quando hai 17 anniRisultati immagini per quando hai 17 anni filmUn film di André Téchiné.

durata 116 min. – Francia 2016. -VM 14

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RECENSIONI

RECENSIONE N1

Sono innumerevoli i registi che hanno cercato di fissare sulla pellicola dolori e gioie dell’adolescenza, quell’età incerta in cui – dubitando di tutto – si devono prendere decisioni cruciali per la propria vita. Per riuscire a farlo così bene ci voleva un regista ultrasettantenne: o meglio, l’alleanza tra l’ultrasettantenne André Téchiné e la sua collega Céline Sciamma, giovane sceneggiatrice e regista in proprio (Diamante nero). Insieme, ci raccontano la storia di due liceali che vivono nei Pirenei. Figlio di un militare in missione in Afghanistan, Damien abita nella valle con la madre medico; Tom, adottato da una coppia di agricoltori, lavora alla fattoria negli intervalli dello studio. Un giorno il secondo fa lo sgambetto al primo, mandandolo faccia a terra davanti alla classe. Ha inizio una rivalità fatta di occhiate furiose, aggressioni verbali, zuffe continue: espressioni di un odio sotto il quale, però, ribollono altri sentimenti. La svolta avviene quando Tom, la cui madre adottiva attraversa una gravidanza a rischio, è invitato da Marianne, la madre di Damien, ad abitare con lei e col figlio il tempo necessario per migliorare le sue prestazioni scolastiche.
Si avverte che Quando hai 17 anni è il film di un intellettuale: lo tradiscono il titolo stesso, preso a prestito da un verso di Arthur Rimbaud, e una dotta disquisizione sul desiderio mascherata da materia di studio dei ragazzi. Tuttavia la storia è narrata con estrema semplicità, e per questo risulta tanto più efficace e coinvolgente. Sensibile cantore dell’adolescenza lungo tutta la sua carriera (Les Innocents, L’età acerba), il regista francese sceglie di rappresentare i gesti, le occupazioni quotidiane, la routine di ogni giorno: strato di normalità, però, che incapsula passioni e furori, paure e desideri di quell’età che poi interpellerà tutta la vita futura di un individuo. Così il film permette alla relazione tra i due ragazzi, e di quelli con le relative famiglie, di evolvere credibilmente, acquistando senso e verosimiglianza scena dopo scena. È vero che il regista porta ancora una volta nel film le proprie ossessioni e i propri temi ricorrenti, inclusi l’omosessualità e i fantasmi dell’incesto. Ma la sensibilità e l’acume con cui s’inoltra nell’universo di personaggi che oggi potrebbero essere suoi nipoti è ammirevole: non un’inquadratura che suoni falsa, nessuno stereotipo o luogo comune sull'”età ingrata”; mentre le asperità, le reticenze e perfino l’aggressività dei comportamenti sottendono un bisogno lancinante di empatia e di assistenza reciproca. Però, in tema di rifiuto dei cliché sull’adolescenza, la cosa più notevole è un’altra. Pur essendo a tutti gli effetti ragazzi della nostra epoca (ci sono diverse scene di Marianne e Damien in collegamento Skype col padre), quelli di Téchiné rifuggono dagli stereotipi che il cinema appiccica di regola ai teenager odierni: smartphone, messaggini, selfie e tutto il resto. Roba che, nelle intenzioni di tanti cineasti, vorrebbe “fare realismo” e invece serve solo a smarrire la linea retta della narrazione. Resta da aggiungere che Téchiné dirige gli attori da par suo, ottenendo il massimo dai due giovanissimi interpreti e dalla sempre più brava Sandrine Kiberlain. repubblica.it

 

RECENSIONE N2

Quando hai 17 anni  è un ritratto convulso e profondo dell’adolescenza. Téchiné, del resto, della gioventù è il cantore più grande che il cinema europeo ha. E forse ha avuto. Una carrellata iniziale lungo strade verdi d’estate e poi bianche d’inverno. Veloce, troppo veloce, e già Téchiné ci porta dentro l’atmosfera di questo film che deve dire così poco, per dire così tanto. Taglio. Palestra di una scuola. Due team vengono scelti per giocare una partita di pallacanestro. Solo due ragazzi restano seduti. Uno, perché è più scuro degli altri e forse troppo bello. L’altro perché, in qualche modo, non è come gli altri. Non c’è solitudine più grande di restare in panchina a diciassette anni. Soli, in due. Gli sguardi si sfiorano, ma questa compagnia forzata sulla panchina degli esclusi non rende la solitudine più sopportabile. Quando inizia il gioco della vita per Thomas (Corentin Fila) e Damien (Kacey Mottet Klein)?

Due anni fail pluripremiato Boyhood di Richard Linklater aveva già raccontato della necessità, del dolore e della gioia di diventare adulti. La storia, non solo al cinema, è antica come l’uomo. Eppure ogni volta nuova, quando a raccontarla sono artisti con lo sguardo di André Téchiné.
Thomas e Damien. Non dovrebbero stringere amicizia tra loro? Due outsider sono sempre, almeno, il principio di una maggioranza. Invece i due ragazzi si picchiano a ogni occasione. L’uomo è un prodotto non sempre riuscito dell’evoluzione. Perché la nostra specie deve ricorrere ai pugni per diventare adulti? La bellezza di questo film è che non si sforza da nessuna parte di spiegare il perché. Il perché, forse, è la tensione tra gli esseri umani.

La tensione tra Damien e Thomas è una delle forze generatrici e distruttrici della nostra specie. Il cinema di Téchiné mette a nudo questa tensione sempre tenuta nascosta della nostra specie. Thomas è figlio adottivo, vive sulle montagne con la famiglia povera. Damien è figlio di un militare di rango, una madre premurosa (ottima Sandrine Kiberlain), contesto borghese. Téchiné fa dei Pirenei sullo sfondo un personaggio del film. Anzi, il suo accompagnatore. Per forzare il figlio a confrontarsi con la sua aggressività, e per aiutare il compagno di classe Thomas negli studi, risparmiandogli tre ore di viaggio al giorno, la madre invita Thomas a stare da loro per un po’. Damien e Thomas sotto lo stesso tetto. È ora che quella tensione svela sé stessa. In cosa consiste la felice bellezza di Quando hai 17 anni? Non essere solo il racconto di un coming out (o forse due), ma renderci testimoni della vita stessa.  Simone Porrovecchio cinematografo.it

 

RECENSIONE 3

 

Thomas e Damien sono due compagni di classe, molto diversi tra loro, per carattere e provenienza. Il primo è di origine magrebina: è stato adottato da una famiglia di allevatori, che vive sulle montagne, a più di un’ora di distanza dal villaggio. È un ragazzo volitivo, sogna di fare il veterinario, ma ha serie difficoltà a scuola. L’altro è figlio di un militare e di una dottoressa, Marianne, una donna premurosa, a tratti persino estenuante, ma disponibile e aperta. Damien è molto legato ai suoi, ama cucinare e si allena nell’autodifesa. Ma anche lui, in buona sostanza, è un tipo solitario. Tra i due ragazzi nasce un odio immotivato, che li porta a più di uno scontro violento. E allora Marianne, per cercare di sedare gli animi e desiderosa di dare una mano a Thomas, lo invita a stabilirsi a casa sua per un po’ di tempo. Ma è una scelta che complicherà ancor più i problemi,

quando-hai-17-anni-corentin-fila-kacey-mottet-klein-sandrine-kiberlainTéchiné racconta un’altra età acerba, che si appropria inoltre della scrittura a fior di pelle del cinema di Céline Sciamma. Lo sguardo sull’adolescenza, allora, diventa pieno, rotondo, e passa in un batter d’occhi dai corpi ai cuori, dai cuori ai corpi. Quand on a 17 ans è un registratore che misura le azioni e le reazioni dei suoi protagonisti (i bravi Kacey Mottet Klein e Corentin Fila) e le pulsioni che le sottendono. E individua quel passaggio segreto, eppure universale, che conduce dal conflitto all’attrazione. Con la lentezza necessaria a compiere l’intero percorso. Diviso in tre trimestri, come un anno scolastico, il film, infatti, vive di tre movimenti, che hanno tutti una loro particolare tonalità e raccontano le evoluzioni dei sentimenti.

quando-hai-17-anni-sandrine-kiberlainLa nascita del sentimento che lega Damien e Thomas è, allora, un viaggio a tappe, che incrocia dei punti di passaggio obbligati eppur sempre nuovi, imperscrutabili. Prima c’è lo scontro, la repulsione, quel desiderio ossessivo che si maschera d’odio. Poi c’è la scoperta e lo svelamento, con tutte le paure e i turbamenti che ne conseguono. Infine c’è il momento del dolore, dell’elaborazione e del superamento. Intorno a questa traiettoria, si aprono altre tracce, i sentieri trasversali delle differenze di classe (e di colore), dei legami e dei destini familiari, delle attitudini e delle aspettative sul futuro. Tutte cose che vanno al di là del rapporto d’amore, e che pure lo riguardano, lo influenzano e ne modificano i tempi e i modi. Perché il mondo non è mai neutro, sta lì con le sue asperità, i suoi imprevisti, le distanze, le separazioni. Ben rappresentate da quelle montagne innevate dei Pirenei, da quei sentieri che portano dai boschi al villaggio, luoghi che si fanno materia di uno stato interiore, sospesi tra un fiero senso di solitudine e un invincibile desiderio di contatto. Téchiné è essenziale, sta lì con il suo cinema che coniuga la delicatezza della mano alla salda nettezza del tratto. Non è inquieto come la Sciamma, ha una specie di nitore neoclassico che imprigiona le linee di tensione. Eppure, senza alcuna morbosità, incontra ogni vibrazione dei corpi, le lotte, gli sfioramenti, gli abbracci, gli amplessi. Ogni immagine ha una concretezza fisica, densa, ma chiara, pulita, definita. E tutto sembra pian piano tramutarsi in uno studio plastico sul movimento, in cui l’interiore si fa gesto e si mostra nell’esteriore. Con una energia pulsante che forza la retorica del linguaggio (come nel momento della cerimonia funebre). E nega, finalmente, ogni chiusura. sentieriselvaggi.it

 

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UN PADRE, UNA FIGLIA

Un padre, una figlia

Un film di Cristian Mungiu. Ratings: Kids+13, durata 128 min. – Romania, Francia, Belgio 2016.

padre

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  1. RECENSIONI

 

Mungiu torna a interrogarsi sulle conseguenze di una scelta in un’opera che guarda alla paternità e alle seconde chances Marianna Cappi mymovie

Romeo Aldea è medico d’ospedale una cittadina della Romania. Per sua figlia Eliza, che adora, farebbe qualsiasi cosa. Per lei, per non ferirla, lui e la moglie sono rimasti insieme per anni, senza quasi parlarsi. Ora Eliza è a un passo dal diploma e dallo spiccare il volo verso un’università inglese. È un’alunna modello, dovrebbe passare gli esami senza problemi e ottenere la media che le serve, ma, la mattina prima degli scritti, viene aggredita brutalmente nei pressi della scuola e rimane profondamente scossa. Perché non perda l’opportunità della vita, Romeo rimette in discussione i suoi principi e tutto quello che ha insegnato alla figlia, e domanda una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale.

Il protagonista di Bacalaureat ha provato, a suo tempo, a cambiare le cose, tornando nel proprio paese per darsi e dargli una prospettiva di rinnovamento, anzitutto morale. Non ha funzionato. Tutto quello che ha potuto fare è restare onesto nel suo piccolo, mentre attorno a lui la norma era un’altra. Trasparente nel mestiere, meno nella vita sentimentale, perché la vita prende le sue strade, e non tutto si può controllare. Ora però non si tratta più di lui: le biglie dei suoi giorni trascorsi sono più numerose delle biglie nella boccia dei giorni che gli rimangono. Ora si tratta di sua figlia, di impedire che debba sottostare allo stesso compromesso, ovvero restare in un luogo in cui le relazioni tra le persone sono ancora spesso fatte di reciproci segreti, di silenzi da far crescere e redistribuire: una rete che imprigiona e “compromette” la vera vita. Ma fino a che punto si ha diritto di scegliere per i propri figli? Una rottura del proprio codice morale, per quanto occasionale e dimenticabile come una pietra che arriva improvvisa e rompe il vetro della finestra di casa, basta a mettere in discussione l’intera costruzione?
Come in Oltre le colline Mungiu s’interroga sulle conseguenza di una scelta, in un film però molto diverso dal precedente, per certi versi più freddo ma anche più morbido, in cui l’errore non è più lontano dalla presa in carico delle conseguenze e delle responsabilità che ne derivano e dove la lezione passa, aprendo forse davvero una seconda opportunità per il protagonista, proprio in quell’aspetto del suo essere che credeva di condurre al meglio: la paternità.
“Perché suoni sempre il clacson?” Domanda Eliza. “Per sicurezza.” “Sì, ma perché lo suoni anche quando non ci sono altre macchine?” L’ironia della sorte, che nel cinema rumeno degli ultimi anni non manca mai, e scorre tanto sotto le commedie grottesche che sotto i drammi più amari, fa sì che il dottor Aldea agisca quando non c’è bisogno di farlo, travolto dal terrore che il futuro di sua figlia possa andare improvvisamente in frantumi come il vetro, quando in realtà sono la sua età e la sua situazione che gli stanno domandando il conto.

“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu

È da un po’ che il cinema rumeno suscita grande interesse da parte della critica e del pubblico, tanto che si è sentita l’esigenza di organizzare anche un festival ad esso dedicato, inserito nell’evento Effetto Notte dalla Casa del Cinema a Roma dal 1 al 3 settembre. Il perché di tanto clamore lo conferma il bel film “Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu, uscito nelle sale italiane in questi giorni, vincitore della Palma d’oro di quest’anno. Cristian Mungiu, regista e sceneggiatore, dal Festival di Cannes ha ricevutato tanto meritatamente. Nel 2007, si è guadagnato la Palma d’oro per il suo secondo film “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni”, nel 2012 ha vinto per la miglior sceneggiatura di “Oltre le colline”, oltre al premio consegnato alle attrici per l’interpretazione.
In “Un padre, una figlia”, Mungiu affronta l’etica e la morale di un uomo messi a dura prova. Sullo sfondo di una Romania squallida e corrotta, Romeo Aldea (Adrian Titieni), è uno stimato chirurgo e vive in una nella cittadina di montagna della Transilvania. Sposato con un bibliotecaria, si trova costretto a mettere in discussione tutti i principi di onestà e d’impegno che ha insegnato alla figlia Eliza. Ormai vicina al diploma, la ragazza, studentessa modello, è riuscita a vincere una borsa di studio per seguire la facoltà di psicologia a Cambridge. Occorre solo superare l’esame di maturità a pieni voti, ma a quel punto si tratta soltanto di una formalità, e il padre, che ha sempre desiderato per lei un futuro all’estero, lontano dalla Romania, aspetta con ansia quel momento. Ma il giorno prima dell’esame, mentre si sta recando a scuola, la ragazza viene aggredita e, per lo shock, Eliza non riesce ad essere lucida alla prova scolastica. Alla confusione mentale si aggiunge anche la difficoltà a scrivere a causa del gesso alla mano destra per una frattura dovuta all’aggressione. I progetti che Romeo aveva formulato per lei rischiano di saltare e si troverà costretto ad utilizzare tutte le vie possibili, anche quelle che lui ha sempre contestato, affinché si realizzino. Un amico poliziotto lo consiglia di chiedere l’aiuto di un politico locale che è in lista d’attesa per un trapianto di fegato. E così la situazione di Romeo si complicherà ancora di più. Raccomandazioni, favori chiesti e ricambiati con metodi poco ortodossi, ricorda molto l’Italia e il suo malaffare questo film. “Perchè non posso rimediare ad un’ingiustizia con un’altra ingiustizia” si chiede Romeo che si sente impotente di fronte ad un fatto criminale. Ma “Un padre, una figlia” non è un film che parla solo della corruzione di un paese, ma piuttosto sulla difficoltà di essere genitore. Un padre è anche un uomo che ha commesso degli errori e non vuole farli ripetere alla figlia. Uno di questi era stato tornare in Romania dopo la morte di Ceausescu, lui e la moglie pensando che tutto sarebbe cambiato. Così non è stato. Eliza ha diritto ad avere un altro futuro e glielo ricorda ogni momento, facendole il lavaggio del cervello, anche quando le propone di truccare l’esame per superarlo. Romeo cerca un riscatto e pensa che manipolando il destino possa ottenerlo attraverso la figlia. Ma non tiene conto della vita e dei suoi imprevisti, ai quali la moglie ha risposto con la depressione e i forti mal di testa che la tormentano. Lui stesso non ha saputo reggere il peso di portare avanti un matrimonio basato su un’ illusione perduta e da tempo ha iniziato una relazione extraconiugale con una professoressa di sua figlia. Una piega nella rettitudine dell’uomo, insinuata già all’inizio del film quando un sasso lanciato contro il vetro dell’appartamento abitato da lui e la sua famiglia apre la storia come fosse un thriller. Ma proprio Eliza, interpretata da Maria Drâgus, rappresenta il nuovo che avanza. Si capisce che sta seguendo più i desideri del padre che i suoi. In realtà Eliza, vorrebbe fare delle scelte indipendenti, è contenta di stare dove si trova, ha un fidanzato che ama e le piacerebbe restare con lui in Romania, dove continuare a studiare senza compromessi. Liberarsi quindi dalla cappa in cui i suoi genitori iperprotettivi l’hanno tenuta fino ad allora e volare via.

Clara Martinelli ilquorum.it

 

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Il sogno di Romeo

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Eliza non è più vergine

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Scambio di favori

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Il vicesindaco

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La canzone del mare

        La canzone del mare

REGIA Tomm Moore.

Animazione

Ratings: Kids+13,

durata 93 min. –

uscita giovedì 23 giugno 2016

 

 

 

INDICE

  1. Recensioni
  2. immagini
  3. video

 

  1. RECENSIONI

Saoirse è una bambina particolare, a 6 anni ancora non riesce a parlare e prova una strana e fortissima attrazione per il mare. Vive nella casa sul faro con il papà e il fratello maggiore Ben, spesso imbronciato e antipatico con la sorellina che ritiene responsabile della scomparsa dell’amata madre. La casa sul faro nasconde tanti segreti e oggetti magici, e quando Saoirse scopre due di questi, una conchiglia regalata dalla mamma a Ben per sentire il suono del mare e un vecchio mantello della madre, innesca un magnifico viaggio negli abissi marini tra foche e personaggi fantastici. Scopriamo così che Saoirse è una delle “selkies”, creature magiche che vivono a metà tra terra e mare e che con il proprio canto possono risvegliare le vittime della strega Macha, private di emozioni e trasformate in pietra. Saoirse è la prescelta e con questo suo compito inizia un immaginifico cammino in cui Ben metterà in gioco la propria vita per salvare quella della sorellina.

Song of The Sea è l’ultimo affascinante lavoro del regista nordirlandese Tomm Moore, già candidato all’Oscar perThe Secret of Kells. Attraverso personaggi e mondi magici, Moore indaga l’aspetto strettamente umano delle emozioni e dei ricordi. La strega malvagia che svuota le creature dei sentimenti negativi crede di agire in buona fede aiutandole ad eliminare il dolore. Saranno due bambini a farle comprendere che non bisogna mai privarsi delle emozioni, siano esse positive o negative, perché la vita è la storia delle nostre esperienze che, collegandosi l’un l’altre come pezzi di un puzzle, restituiscono all’uomo la sua unicità ed essenza. Ed è proprio dal dolore che parte la rinascita, quella della famiglia di Ben e Saoirse che troverà nella sensibilità e nell’audacia dei suoi più giovani componenti la forza per ripartire e tornare a vivere serenamente.
Con un’incantevole alternanza di semplicità grafica nella pittura dei personaggi e uso raffinato della tecnica per scenografie e paesaggi, Moore dà vita ad un film d’animazione per ragazzi che invita anche i più grandi a riflettere sui temi e sulle virtù tipicamente fanciullesche della solidarietà, della generosità e della purezza delle azioni.  Francesco Giuseppe Trotta – Redazione SdC MYMOVIE-

RECENSIONE

Cosa succede quando le antiche leggende irlandesi diventano un film d’animazione per bambini? Si crea un bellissimo capolavoro, come succede in La canzone del Mare (Song of the sea) di Tomm Moore, nominato agli Oscar nel 2015. Non è la prima volta che il regista si avvicina alla statuetta tanto ambita: cinque anni prima aveva affascinato bambini e adulti di tutto il mondo con un gioiello chiamato The secret of Kells. E in effetti un filo conduttore tra i due lungometraggi esiste: non si può parlare di un vero e proprio sequel ma ciò che resta, come dice il regista, è un follow-up spirituale, lo stile artistico ancora handmade, l’animazione in 2D e la musica di Bruno Coulais e Kila. Una musica che accompagna lo spettatore fin dalle prime scene, delicate, intime, di una tenerezza d’altri tempi e che riemerge poco alla volta fino a manifestarsi con tutta la sua forza nella scena finale del film. È quasi come un gioiello da salvaguardare, da esibire poco alla volta, fino alla conclusione della storia e all’emergere delle emozioni di tutti i personaggi. Perché le vere protagoniste di La canzone del mare sono proprio loro, le emozioni che caratterizzano i protagonisti: la tristezza del padre, la scontrosità del fratello Ben, la solitudine della sorella Saoirse e la voglia di cambiamento della simpatica nonnina. Tutto questo viene condito dalla soave voce della madre, che sparisce fisicamente dopo le prime scene ma resta come fantasma e spirito guida per tutta la durata del lungometraggio.

L’altro grande protagonista di La canzone del mare è il paesaggio della verde Irlanda, che con il suo mutare repentino di luci, ombre, nuvole e sole, definisce l’animo dei personaggi e riflette uno specchio di sentimenti in cui tutti noi possiamo facilmente immedesimarci. Queste le parole di Tomm Moore: “Un artista che ho ammirato molto è stato il pittore irlandese di paesaggi, Paul Henry, e ci dobbiamo ritenere fortunati per il contributo che ha dato il mio vecchio amico Ross Stewart al primo concept focalizzato soprattutto sul paesaggio irlandese”.

La canzone del mare: l’antico mito delle foche rivisitato in chiave contemporanea da Tomm Moore

Ma da cosa nasce questo racconto? Da un viaggio nelle costa occidentale in cui Moore vide una spiaggia piena di carcasse di foche, brutalmente uccise. Iniziò a pensare che un evento del genere non sarebbe mai successo nell’antichità, quando numerosi miti consideravano le foche come animali mistici, di un alto livello spirituale e protettrici delle anime delle persone disperse nei mari. Così decide di riportare il grande valore del mito nel mondo contemporaneo, dove ormai la velocità e la tecnologia ci ha allontanato dall’assaporare la musica delle nostre emozioni più profonde, e di aggiungere il suo contributo nella storia da trasmettere alle nuove generazioni, divenendo egli stesso un seanachai, ovvero una persona che impara e trasmette le storie. Come ogni mito, anche quello delle foche ha in sé dei valori universali, e il paragone con l’antica Grecia viene spontaneo, pensando ad un mito simile, che vedeva altri animali, i delfini, come mammiferi sacri, amici dell’uomo, amanti dei bambini e, guarda a caso, sensibili alla musica. La canzone del mare, vi aspetta finalmente nelle sale italiane il 23 giugno distribuito da Bolero Film. cinematographe.it

 

 

2) IMMAGINI

3) TRAILER

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Le stazioni della fede

In adolescenza 

cambia la percezione del mondo intorno e dentro di sé, cambia il corpo e cambiano le relazioni.

Maria, la protagonista del film, è un’adolescente e il suo percorso di crescita è una via crucis. LE STAZIONI DELLA FEDE è un film che, suddiviso, come il rito cattolico, in quattordici stazioni, commuove ed emoziona.

 

crucis2

Kreuzweg – Le stazioni della fede
Un film di Dietrich Brüggemann.

Titolo originale Kreuzweg (VIA CRUCIS)

genere Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 107 min. – Germania 2014.

in questa pagina trovi:  tramavideorecensioni 

 

 

Trama
Maria ha 14 anni e la sua famiglia fa parte di una comunità cattolica fondamentalista. Maria vive la sua vita di tutti i giorni nel mondo moderno, ma il suo cuore appartiene a Gesù. Lei vuole seguirlo, per diventare una santa e andare in paradiso, così passa attraverso 14 stazioni, proprio come fece Gesù nel suo cammino verso Golgota

 

VIDEO

Trailer

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Recensioni

 

 

Da sentieridelcinema.it di Laura Cotta Ramosino

Acclamato da molta critica al Festival di Berlino e vincitore, oltre che dell’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura ma anche del premio della Giuria Ecumenica, Kreuzweg è una pellicola insieme stimolante e frustrante, sia sul piano dei contenuti che della forma e richiede, anzi, quasi pretende, una visione concentrata e critica che molta parte del pubblico potrebbe non essere disposta a concedere.
La vicenda della piccola Maria, vittima di una concezione del Cristianesimo punitiva, rigida e ostile al mondo (la Fraternità di San Paolo come viene qui chiamata è una palese trasposizione di quella di san Pio X fondata dall’arcivescovo Lefevre), che le impedisce di aprirsi al mondo e la convince della necessità di un sacrificio estremo, ma anche di una madre incapace di mostrare il proprio affetto, è di quelle fatte apposta per scatenare dibattiti e polemiche. E questo sia che lo si voglia concepire come un coraggioso e sincero atto di denuncia contro il fondamentalismo religioso (il regista e la sorella, sceneggiatrice, vengono essi stessi da una famiglia appartenente a una comunità cattolica di questo genere) o come un esercizio formalmente impeccabile, che nella sua pro grammaticità ideologica pecca della stessa rigidità del mondo che mette sotto accusa.
Il film, infatti, è diviso in 14 quadri corrispondenti alle stazioni della Via Crucis (il cui nome introduce a mo’ di titolo ogni capitolo), la maggior parte dei quasi è costituito da un’unica inquadratura fissa entro cui i personaggi dialogano e si muovono (poco) per l’appunto come personaggi di quadretti votivi animati. Ogni situazione è escogitata per riflettere in modo più o metaforico (e spesso ironico) una delle tappe della Passione di Gesù. La piccola Maria Göttler (un nome un programma) è infatti una esplicita figura Christi che affronta consapevole e solitaria un martirio autoimposto, vivendo nel senso di colpa le più normali esperienze adolescenziali (anche la nascente e innocente simpatia per un coetaneo che la invita a cantare nel coro di una chiesa cattolica, sì, ma non abbastanza ortodossa per la madre di Maria) e privandosi del cibo e della gioia fino all’esito prevedibile e inevitabile.
Benché parte di una famiglia numerosa, la ragazzina sembra immersa in una sostanziale solitudine; e nessuno degli adulti della comunità – il giovane parroco, premuroso e gentile quanto rigido; la madre, una figura spaventosa di genitrice forte di una fede spietata quanto inattaccabile che solo nel finale sembra giungere ad un punto di rottura; il padre, una figura debole e insignificante – sembra cogliere fino in fondo la testarda determinazione e la follia del piano di Maria, aspirante santa con scarso senso della realtà. Anzi, di fronte al quasi miracolo del finale la madre è velocissima a trasfigurare il rapporto perennemente critico con la figlia in una beatificazione cieca e quasi surreale.
Kreuzweg, pur abbracciando senza se e senza ma la sua vocazione di cautionary tale verso il fondamentalismo, ha l’onestà di mettere in chiaro le carte fin da subito: quello che vediamo in azione non è né il Cristianesimo né il Cattolicesimo tout court, e anzi Brüggemann dissemina la storia di figure di credenti dalle più varie sfumature: dall’insegnante di ginnastica protestante, al gentile spasimante cattolico di Maria, dall’affettuosa ragazza alla pari francese che è forse l’unica vera amica della ragazzina, all’infermiera dell’ospedale che crede in qualcosa che non vuole definire (ed è interpretata dalla stessa sceneggiatrice). Le difficoltà scolastiche di Maria (che si rifiuta di correre in palestra perché l’insegnante accompagna gli esercizi con musica moderna “diabolica”, un tema su cui i genitori di Maria sono particolarmente rumorosi) sono l’occasione per suggerire un’apertura ulteriore a temi quali la tolleranza (i coetanei di Maria ne hanno davvero ben poca) e la libertà religiosa (si allude al fatto che alcune compagne di classe musulmane saltano direttamente l’ora di ginnastica).
Non si ha mai davvero, però, l’impressione che Brüggemann sia alla ricerca di una vera e propria discussione o si apra al mistero doloroso di quello che sta raccontando (il “miracolo” che avviene alla morte di Maria, prontamente assunto ad autogiustificazione dalla madre). Come al responsabile delle pompe funebri del finale, poco gli importa la “verità” della fede professata da Maria fino alle estreme conseguenze: è la psiche ferita di una ragazzina quella che vuole mettere in scena. Ma nel descriverla con un piglio troppo sociologico la rende una vittima fin troppo consenziente e la priva del dramma sostanziale della libertà cui pure avrebbe avuto diritto e che avrebbe dato al film il respiro che gli manca.

Laura Cotta Ramosino

 

Da cineforum.net di Simone Soranna

Probabilmente mai come in questi anni i tempi stanno correndo freneticamente e sembra che niente e nessuno sia in grado di fermarli. L’unica soluzione per reggere il passo pare essere quella di assecondarli, a costo di rischiare la propria identità, per non sparire completamente.

Anche la religione non è esente da tale pressione, così come il cinema. Due sfere decisamente lontane e tuttavia accostate in maniera sorprendentemente naturale da Dietrich Brüggemann, il quale decide di realizzare una pellicola che racconti l’importanza del cambiamento attraverso una storia che nasce dalla tradizione (religiosa e cinematografica) e che di essa si nutre.

Kreuzweg – Le stazioni della fede racconta il Calvario (nel vero senso della parola) di un’adolescente cresciuta secondo un’educazione cattolica fondamentalista ancorata agli insegnamenti biblici basilari, priva dei cambiamenti apportati dal Concilio Vaticano II. Il regista decide di incastonare il racconto in uno stile (apparentemente) primordiale, attraverso quattordici lunghi piani sequenza realizzati a camera fissa (a parte un paio di eccezioni). Il cinema e la spiritualità sembrano essersi fermati ai loro albori: l’uno alle vedute statiche delle origini, l’altra ai dogmi della Chiesa fondata da Pietro. La frenesia, il cambiamento, la velocità dei giorni a noi contemporanei sono del tutto azzerati in nome di un ritorno alla tradizione che tuttavia, mai come ora, è carica di una portata innovatrice senza paragoni.

Lo scopo principale dell’autore è quello di mettere il pubblico nei panni di Dio. Il suo film è una metafora precisa e spietata di quello che è stato il percorso di Gesù verso la crocifissione. E non ci si riferisce solo alle quattordici tappe che costituiscono la via crucis (puntualmente chiamate in causa a scandire i capitoli della pellicola), quanto all’impossibilità di fare qualcosa per intervenire nella vicenda. Tutto è immobile e non c’è via di fuga, non c’è nessuna possibilità di azione. Attraverso una suspense perfettamente calibrata, Brüggemann costruisce un climax impossibile da sostenere: una giovanissima e innocente ragazza si avvicina frettolosamente verso un sacrificio che non le compete e lo spettatore non può far altro che assistere passivamente al macabro spettacolo messo in scena con una crudeltà tanto cinica quanto elementare.

Siamo costretti a subire il fascino di un cinema rigido, freddo e formale che rischia di non essere accettato perché non coerente con i tempi. Un ossimoro straziante e deprimente, per un’opera che rischia di non riceve l’accoglienza sperata. E ogni riferimento a qualsiasi creatore divino fattosi uomo non è puramente casuale.

 

Little Sister ( film di Hirokazu Kore-Eda)

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Little Sister (Umimachi Diary)

Regia: Hirokazu Kore-Eda

Ratings: Kids+13

durata 128 min.

Giappone 2015 Italia 1 gennaio 2016

 

 

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TRAMA

Nella città balneare di Kamakura le tre sorelle Sachi, Yoshino e Chika perdono il loro padre. L’uomo aveva abbandonato la famiglia anni prima e si era rifatto una vita. Nel tragitto verso il funerale, infatti, le tre ragazze fanno la conoscenza della loro sorellastra, Suzu, una timida ragazza di 14 anni. Sachi, Yoshino e Chika invitano Suzu a vivere con loro, iniziando così una nuova e gioiosa avventura.

RECENSIONE CINEFORUM

Tre sorelle – Sachi,Yoshino e Chika – vivono nella casa di famiglia, ereditata dalla nonna e lasciata dalla madre dopo la separazione con il padre, avvenuta anni prima. Le ragazze vivono la loro vita adulta in una condivisione quasi adolescenziale, dividendosi tra gli obblighi lavorativi e le serate passate tra cibo, risate e qualche rivendicazione. Sachi è la più matura, fa l’in­fermiera e ha una relazione con un medico sposato che lavora nel suo ospedale; Yoshino lavora in banca, è infelicemente single e beve troppo; Chika è infantile, fa la commessa in un negozio di articoli sportivi e prende la vita con immatura semplicità. Il legame che le lega è fortissimo ma le giovani donne sembrano bloccate in un limbo, spaziale e temporale, tra l’infanzia negata dalle disavventure familiari e un’emancipazione indi­viduale che sembrano voler sempre rimandare. Le cose cambiano quando, al funerale del padre che non vedevano da tempo, incontrano la loro sorellastra ado­lescente Suzu. Senza pensarci, intuendola infelice davanti alla prospettiva di una vita con la matrigna anaffettiva, le donne la invitano a trasferirsi da loro, dando alla loro sorellanza, scricchiolante per l’abitudi­ne, una nuova dimensione di protezione e accoglienza. Umimachi Diary di Kore-Eda Hirozaku segue con partecipe discrezione l’interazione tra le quattro gio­vani donne, le pedina nel loro quotidiano, ne scruta gli impercettibili cambiamenti di umore, le crisi più o meno manifeste, le gioie minimali e improvvise. La presenza della piccola Suzu risveglia infatti i senti­menti delle sorelle, ma le mette anche di fronte a un malinconico bilancio di un’infanzia abbandonata troppo presto, di un rimpianto lancinante per i genito­ri assenti. Kore-Eda cesella le psicologie dei suoi per­sonaggi, dona loro vita e realtà con poche ma ben deli­neate caratterizzazioni, predilige i momenti conviviali – il cibo è una fonte di gioia inesauribile, soprattutto se gustato assieme – senza trascurare l’ondivaga soli­tudine emotiva delle ragazze. Umimachi Diary è un film di una disarmante e purissima semplicità, che stu­dia nel quotidiano le ragioni del cuore e riesce a farci affezionare alle protagoniste grazie all’amore, naturale e sincero, che il regista prova per loro. Quello di Kore-Eda è un cinema che non ha imbarazzo per il suo affiato sentimentale, che vuole (e sa) portare alla luce gli affetti profondi e primordiali, che si con­cede qualche pudica enfasi retorica per poi tornare a una cristallina modestia che discende dalla migliore tradizione giapponese, Ozu su tutti. Come già nel pre­cedente Father and Son, Kore-Eda indaga la famiglia come epicentro delle emozioni e segue amorevolmente le protagoniste nel loro percorso di crescita, predili­gendo le sospensioni alle scene madri, gli entusiasmi accennati alle esplosioni di gioia, i pianti silenziosi agli eccessi di dolore adottando una cadenza narrativa fluida, quasi musicale. Nonostante il tono placido e soffuso, Umimachi Diary costruisce una miracolosa empatia con le quattro giovani, ci lega a loro grazie a uno sguardo che, pur mantenendo una distanza di sicurezza, riesce a svelarci desideri e debolezze, aspira­zioni e delusioni, senza cedere al facile paternalismo. Un cinema intimo che narra con maestria l’apparente normalità e riesce a regalare universalità alla consue­tudine. Un vero e proprio colloquio sentimentale che lascia un rasserenante senso di solidale dolcezza e rin­frescante commozione.
Federico Pedroni, Cineforum n. 546, 7/2015

RECENSIONE di FORNARA

Un film bello: «Sono contento di riconoscere la bellezza quando è qui». Sincero: «La sincerità è quello che conta». Intenso: «Devo proteggere questo luogo». Minimalista e rincuorante: «Le unghie dei piedi ben colorate tirano su il morale». E due gridi, quello della sorella maggiore: «Papà è un imbecille!» e quello della sorella minore: «Mamma è un’imbecille!», con l’aggiunta: «Avrei voluto passare più tempo con lei…». Ci sono tre sorelle grandi che vivono in una cittadina ai bordi del mare. Il titolo originale è “Diario da una città sulla riva del mare”. Il padre muore, lontano: le ha lasciate da tanto tempo per farsi un’altra famiglia. Le tre sorelle decidono di andare alla cerimonia funebre e trovano la mai conosciuta sorella piccola, figlia della seconda moglie del padre. Quando le sorelle grandi tornano a casa, la sorella adolescente va a vivere con loro. Comincia per tutte una nuova vita, bella sincera intensa, nella quale si riconoscono tutte e quattro figlie di uno stesso padre e tre di loro di una stessa madre, che le ha lasciate da tanto e che rientra in scena, svirgolona, frizzantina, dolce. Il film è un adattamento da un manga intitolato “Our Little Sister” e sembra un film di Ozu, trasportato nell’oggi. Qui le sorelle, di cognome fanno Koda. Ozu ha girato, nel 1941, uno dei suoi tanti film intitolato “Fratelli e sorelle della famiglia Toda”, anche quello un film familiare con genitori e 5 figli, con la morte del padre, con le frizioni tra tutti, comprese nuore e parenti. Koda e Toda. Kore-eda e Ozu: una parentela stretta. Ci sono tanti fiori di ciliegio, tanti pasti da preparare, tanto cibo da gustare, un ristorantino con una padrona gentilissima, belle fritture di bianchetti piccolissimi. C’è soprattutto quella atmosfera di Ozu che i giappponesi chiamano “mono no aware” (…) e che indica l’essere coscienti della precarietà e della impermanenza delle cose, il leggero ma ben presente senso di dispiacere per il loro svanire, il godere di un momento e sapere che se ne andrà. Come se Ozu e Kore-eda dicessero insieme: «Si può, ancora, vivere così, con leggerezza, nell’impermanenza». Ozu, vivesse oggi, potrebbe anche girare, lui così discreto, l’immagine di una delle sorelle che esce dal bagno con l’asciugamano addosso, va verso il giardino, si ferma sul rialzo, accende il ventilatore, apre l’asciugamano bello largo e sta lì a prendersi l’arietta. Kore-eda rinfresca Ozu.
Bruno Fornara

RECENSIONE MYMOVIE

 

Nella cittadina di Kamakura vivono tre sorelle (Sachi, Yoshino e Chika) il cui padre le ha lasciate da 15 anni per iniziare una nuova convivenza. In occasione del suo funerale le ragazze fanno la conoscenza della sorellastra adolescente Suzu che accetta volentieri l’invito ad andare a vivere con loro.
Hirokazu Kore-eda in questa occasione ha avuto come punto di riferimento la graphic novel “Umimachi’s Diary” di cui ha conservato l’impianto di fondo riservandosi però, con il consenso dell’autore Yoshida Akimi, la più ampia libertà di rilettura. Ha così focalizzato il racconto non solo sulla giovanissima Suzu ma anche sulla più adulta delle sorelle, Sachi. Con la sensibilità che lo contraddistingue entra in questo universo femminile in punta di piedi ma la sua attenzione nei confronti delle protagoniste sa leggere dentro i tormenti che il tempo talvolta lenisce e talaltra rende più acuti e dolorosi.
Il sorriso di Suzu nasconde risentimenti che solo un’occasionale ubriacatura rende espliciti mentre l’apparente rigidità di Sachi trae origine non solo dall’abbandono paterno vissuto ad un’età in cui era presente la consapevolezza di quanto stava accadendo ma anche dal conflitto con l’irrisolta figura materna nei confronti della quale prova un sentimento di rifiuto. Da infermiera, tenuta al contempo a non farsi troppo coinvolgere dalle morti dei pazienti ma anche incapace di accettarle come routine professionale, Saichi cerca di proteggere le sorelle e se stessa dai sentimenti che vede come un pericolo a causa della loro instabilità e del dolore che possono procurare agli altri. In un liquore di prugne fatto in casa finisce con il condensarsi quasi simbolicamente il senso del film. Il passare del tempo ne modifica il sapore e la trasparenza. È quanto accade a molti di noi con sentimenti che ritenevamo a torto immutabili e che invece si trasformano sia in senso positivo che negativo. L’indumento offerto alla sorella più liberata così come il kimono d’estate regalato alla sorella acquisita diventano allora per Sachi segni di una possibile riapertura al sentire sempre meno vincolata a un passato di profonda sofferenza. Grazie anche a Suzu, ancora capace di farsi travolgere dalla bellezza dei ciliegi in fiore.

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TRAILER

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Le mani della madre.

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1 RIASSUNTO

2 CONFERENZA JONAS VARESE:       presentazione e intervista.

3 RECENSIONI

4 VIDEO PRESENTAZIONE LIBRO

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  1. Riassunto

Dopo aver indagato la paternità nell’epoca contemporanea con Il complesso di Telemaco e altri libri di grande successo, Massimo Recalcati volge lo sguardo alla madre, andando oltre i luoghi comuni, anche di matrice psicoanalitica, che ne hanno caratterizzato le rappresentazioni più canoniche. Attraverso esempi letterari, cinematografici, biblici e clinici, questo libro racconta i volti diversi della maternità mettendo l’accento sulle sue luci e le sue ombre.
Non esiste istinto materno; la madre non è la genitrice del figlio; il padre non è il suo salvatore. La generazione non esclude fantasmi di morte e di appropriazione, cannibalismo e narcisismo; l’amore materno non è senza ambivalenza. L’assenza della madre è importante quanto la sua presenza; il suo desiderio non può mai esaurire quello della donna; la sua cura resiste all’incuria assoluta del nostro tempo; la sua eredità non è quella della Legge, ma quella del sentimento della vita; il suo dono è quello del respiro; il suo volto è il primo volto del mondo.

“Ho scritto questo libro perché volevo essere giusto con la madre. Bisognerebbe provare a esserlo.”

Una nuova interpretazione della maternità di fronte alle difficoltà e ai cambiamenti di oggi.

 

2 CONFERENZA 29 SETTEMBRE VARESE

conferenza “Le mani della madre” martedì 29 settembre alle ore 21.00 presso la sala Montanari del comune di Varese

LOCANDINA

3 JONAS VARESE ( www.jonasonlus.it – varese@jonasonlus.it)

Dal 2003 Jonas Onlus, associazione senza fini di lucro con fondata da Massimo Recalcati, è impegnata nella cura di alcuni sintomi del disagio contemporaneo come anoressia, bulimia, obesità, depressioni, attacchi di panico, fenomeni psicosomatici, disagio della famiglia.

INTERVISTA ALLA DOTTORESSA ERIKA MINAZZI DI JONAS VARESE:

Quali sono le finalità dell’associazione Jonas ?

Le finalità del nostro centro sono di ordine terapeutico, preventivo, formativo e di ricerca. Non solo, dunque, all’interno dei nostri studi offriamo terapie d’ordine psicoanalitico, ma ci occupiamo anche di attività a carattere formativo. Sportelli d’ascolto nelle scuole, progetti di prevenzione e formazione, organizzazione di conferenze e convegni sono al centro delle nostre attività.
La nostra attenzione clinica non si rivolge solo a una particolare tipologia di utenza, bensì alle numerose forme di disagio e di malessere che contraddistinguono l’attualità ( dipendenze, attacchi di panico, disturbi alimentari, ansia, depressione, psicosomatica, disabilità, ecc. ecc.). La filosofia che ci guida tiene conto delle differenti peculiarità di cui le molteplici soggettività sono portatrici e un’attenzione particolare viene riservata a chi necessita di percorsi di cura a tariffe sostenibili.

Da chi è costituita  la sede di Varese dell’associazione Jonas?

La nostra sede è costituita da un équipe motivata e desiderosa di poter intercettare domande d’aiuto e di analisi.
Dott.ssa Erika Minazzi, psicologa, psicoterapeuta, presidente di Jonas Varese
Dott.ssa Valeria Maiano, psicologa
Dottor Massimiliano Soldati, psicologo
Dottor Massimo Porta, psicologo

Come si può accedere ai servizi dell’associazione Jonas Varese?

Per accedere ai nostri servizi si possono usare differenti canali:
Si può chiamare direttamente presso la sede al numero 3482463645
Piuttosto che telefonare al numero verde nazionale 800453858
Oppure indirizzare una mail all’indirizzo varese@jonasonlus.it
O contattaci su Facebook, jonas.varese e apprendere delle nostre iniziative dal sito www.jonasonlus.it
Un membro dell’équipe sarà pronto ad accogliere ogni richiesta e a valutare la possibilità

 

3 RECENSIONI

Recalcati, nelle mani della madre il tormento del figlio

Angelo che accudisce o tiranno che traumatizza? Recalcati cerca una figura di “mamma reale” al di là dei luoghi comuni (e della psicoanalisi) di FERDINANDO CAMON
C’è una poesia a pagina 47 che, dopo averla incontrata e sorpassata, ogni tanto tornavo a rileggere. Dice così:
La mia bambina è nella culla durante l’ora bella./La mia bambina ha butìni, ha celestino, ha buietto sotto il lenzuolino./La mia bambina è scompiglietti, è filantina, becoletti e ciuciantina,/di qua dalla finestrella/durante l’ora bella.La leggi e capisci tante cose. Che chi l’ha scritta è una donna. Che un uomo non potrebbe mai scriverla. Che la madre che scrive questi versi non guida il bambino a parlare la propria, di lei madre, lingua, ma scende lei a imparare, inventandola, la lingua del neonato, quella lingua che sta prima della lingua. Cioè: la madre rinasce nel figlio che nasce. Questa rinascita si chiama maternità.Questo libro è un viaggio nella maternità.  CONTINUA_LEGGI TUTTA LA RECENSIONE

E tu che madre sei, narciso o coccodrillo? Oppure tigre, chioccia, piovra…

di Giovanna Pezzuo
Cominciamo dall’epilogo, dove volendo «essere giusti con la madre» Massimo Recalcati scrive: «bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna inevitabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato ombra, patologico, abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario». Una precisazione che suona un po’ come una difesa preventiva… CONTINUA_LEGGI TUTTA LA RECENSIONE
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4 VIDEO PRESENTAZIONE LIBRO

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Leggi alcune pagine del libro

 

 

È arrivata mia figlia

È arrivata mia figlia

figlia

Un film di Anna Muylaert

Titolo originale Que horas ela volta

Ratings: Kids+13

durata 114 min. – Brasile 2015.

 

     INDICE

  1. video
  2. recensioni

 

VIDEO

TRAILER

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SCENA FILM
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RECENSIONE
Val lavora come cameriera a tempo pieno nella villa di una famiglia bene di San Paolo. Sono più di dieci anni che non vede la figlia Jessica, che ha affidato ad una parente nel Nord del paese. Un giorno, però, la ragazza si presenta in città per l’esame di ammissione alla facoltà di architettura. Il suo ingresso nella casa di Donna Barbara, del marito e del figlio, suo coetaneo, sovverte ogni regola non scritta di comportamento e mette sua madre di fronte alle domande che non si è mai posta.
“A che ora torna?” si chiede il titolo originale e a pronunciare la fatidica domanda, che tradisce l’attesa e l’affetto, è Fabinho, il signorino di ceto superiore, che interroga la domestica sul rientro della madre, ma è anche la figlia della domestica, in una catena di ritardi e deleghe che è il vero e proprio fenomeno sociale (non solo brasiliano) contro il quale punta il dito il film della Muylaert. Donne che assumono bambinaie per crescere i propri figli al loro posto, mentre le stesse bambinaie sono costrette a far crescere i propri figli a qualcun altro e così via, in un circolo che mescola vizio e necessità e fa sì che a farne le spese siano democraticamente i figli di tutti e la loro educazione sentimentale.
Jessica non è, però, una sventurata d’altri tempi, non si presenta con il bagaglio di tacite conoscenze su cosa è concesso o meno a quelli come lei; non è figlia di sua madre, in questo senso, perché quella continuità si è interrotta troppo presto. Jessica è stata fortunata negli studi, ha trovato chi l’ha iniziata al pensiero critico, per lei la porta della cucina non è una linea di demarcazione scritta nei geni: è una porta come un’altra e, magari, nei disegni dei suoi futuri progetti, la toglierà del tutto. In termini cinematografici, Jessica è portatrice di un altro sguardo e di un altro uso del corpo nello spazio. Il suo avvento non ha la forza sovvertitrice del misterioso ospite del teorema pasoliniano, il film non ha certo le stesse ambizioni poetiche, ma destruttura comunque, gesto dopo gesto, stanza dopo stanza, un codice separatista che si basa sul patto tra chi pretende e chi lascia che ciò avvenga.
Costruito come un percorso in tempo quasi reale, È arrivata mia figlia non è la storia della rivoluzione di Jessica, ma quella di Val, della sua coraggiosa epifania: è la sua presa di coscienza sulla possibilità di interrompere la catena degli errori che commuove profondamente, perché viene dal personaggio più interno al meccanismo, quello per cui, seppur sbagliata, esisteva una “natura delle cose”. Regina Case, interprete di lunga esperienza teatrale, televisiva e cinematografica, rischia d’incontrare qui il ruolo della vita e lo onora con una performance perfetta, nei tempi comici e nei toccanti momenti del retroscena (evidentemente la sua ribalta).
Pur non allargandosi oltre il testo dichiarato, il film di Anna Muylaert è un buon esempio di un cinema per tutti che non deve per forza scendere a compromessi sul tema né sul suo impianto ritmico.

MYMOVIE Marianna Cappi

RECENSIONE 2

A volte la rivoluzione passa per gesti semplici, così piccoli da stare tra le mura di una casa, eppure sconfinati. Val, interpretato dalla bravissima Regina Casè, è una governante che fa il suo lavoro con amore e serietà. Dopo aver lasciato sua figlia alle cure del padre e di una zia, approda a San Paolo iniziando a lavorare presso una facoltosa coppia di cui accudisce amorevolmente il figlio, diventando di fatto la sua “seconda madre”. Un secondo posto che le spetta, suo malgrado, anche nella vita della figlia Jessica che arriva in città per sostenere l’esame d’ingresso presso una prestigiosa università.

Figlia di una generazione che non si sente più schiava delle differenze di classe, Jessica porterà scompiglio nel mondo socialmente statico di Val, infondendole il coraggio di guardarsi sotto una diversa luce per vedersi «né migliore, né peggiore di chiunque altro».

Anna Muylaert è l’invisibile direttrice d’orchestra di questo piccolo, grande film. La macchina da presa, spesso immobile, diventa un oggetto che scompare con estrema naturalezza nel sistema di una direzione degli attori svuotata di qualsiasi “vizio di forma”, fotografando l’azione con il preciso intento di rinunciare a qualsiasi forma di gerarchia.

Lo spettatore entra nella casa in cui si concentra la vicenda, camminando tra le sue pareti indisturbato e libero di una guida che lo tenga per mano. Invisibile, riesce gradualmente a percepire le tracce, lasciate con maestria nei più piccoli dettagli, di una dittatura perpetrata silenziosamente nell’involucro di un mondo moderno e civile. La scrittura, caratterizzata da una leggerezza che può essere solo frutto di un duro, puntualissimo e meticoloso lavoro, non tradisce sbavature, riuscendo nell’impresa di non peccare di presunzione e mettendosi quindi al completo servizio del film.

Il film di Anna Muylaert possiede uno stile che è difficilmente riassumibile con pochi riferimenti. Mette in scena la discriminazione di classe insidiatasi così capillarmente nella cultura brasiliana, da trasformarsi in naturale e incontestabile tradizione, arrivandoci con modalità del tutto singolari. Spoglio di retorica, abbraccia toni che sono propri del reportage, pur non essendo tale. Sfiora la denuncia sociale, spogliandola di aggressività e mostrando con efficacia quanto le barriere sociali siano null’altro che pura assurdità.In uscita nella sale italiane il 4 giugno, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance Festival e del premio del Pubblico al Festival di Berlino, È arrivata mia figlia, riesce a mettere d’accordo cuore e ragione e, no, non è un passaggio scontato. di Dalila Orefice cinefilos.it

 

Hungry Hearts

 Hungry Hearts

Hungry-Hearts

Hungry Hearts
Un film di Saverio Costanzo.

Ratings: Kids+16

durata 109 min.

Italia  2015

 

 

                                           

INDICE

– RECENSIONE

– INTERVISTA AL REGISTA

RECENSIONE: una riflessione profonda sulla genitorialità

 

Mina e Jude si incontrano per la prima volta in un’angusta toilette di un ristorante cinese. Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dal colloquio con una veggente a pagamento Mina si convince che il suo sarà un figlio speciale che andrà protetto da ogni impurità. Inizia a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. Jude decide di opporsi a queste scelte portando di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa più acuto.
Il disagio, il malessere esistenziale sono da sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Che si tratti dei palestinesi di Private, dei seminaristi di In memoria di me o dei giovani de La solitudine dei numeri primi la sua macchina da presa inquadra situazioni che sono al contempo estreme e quotidiane. È quanto accade anche in questo film che trae ispirazione dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso in cui Costanzo mette a frutto la propria profonda conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM ma non solo.
Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: “La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire”. È questo tipo di consumo che Mina (precocissima orfana di madre e con un padre con cui non ha più contatti) sta cercando, anche se vorrebbe evitarne inizialmente, l’avveramento. Costanzo non vuole fare il fustigatore di teorie e/o credenze più o meno diffuse (osservanza vegana compresa) perché di fatto spinge il suo sguardo decisamente molto più in là.
Mina non è una Rosemary polanskiana più o meno consapevolmente gravida di demoni interiori. È una donna che dimentica di essere tale (quindi annullando anche la propria sessualità che era in precedenza vitale e solare) in funzione di una ‘proprietà’, quella del figlio, che diviene totalizzante. Il punto di non ritorno è quando utilizza l’aggettivo possessivo più improprio (“mio”) nei confronti del neonato. Da quel momento Jude viene estromesso (con sentenza passata in giudicato nella mente della compagna) dalla condivisione che è propria dell’essere genitori. Per far ciò non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. È sufficiente ritenere di essere gli unici depositari del sapere ‘cosa è bene’ per l’essere umano in formazione rifiutando qualsiasi confronto. Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell’amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare. Costanzo sa come descrivere questo processo. MYMOVIE Giancarlo Zappoli

 

 

“HUNGRY HEARTS”: INTERVISTA A SAVERIO COSTANZO

Questa intervista è uscita sul Venerdì di Repubblica.

Roma. C’è anche la possibilità di detestarle, le due madri di Hungry Hearts: una trepida mamma vegana che affama il figlio per non contaminarlo con le impurità del mondo e una risoluta suocera che risolve drasticamente il problema del nipotino sottopeso. Saverio Costanzo ha riversato materiali incandescenti nel suo film, che parte come una commedia e poi svolta verso un horror familiare, dove un omogeneizzato di carne può elevarsi a dispositivo del thrilling. Due giovani si incontrano, si innamorano, nasce un bambino (indaco, ovvero dotato di superpoteri spirituali, secondo il vaticinio di una veggente) e monta la tragedia. Che si era già preannunciata in gravidanza con alcuni segnali, perché il diavolo è nei dettagli. Alba Rohrwacher ed Adam Driver, premiati alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi, sono Mina e Jude, lei italiana a New York che lavora nelle ambasciate e lui ingegnere: sono diversi, ma si vede che si amano, il guaio è che certe volte l’amore, anche materno, è il detonatore di esplosioni devastanti.

Anche questo film può essere un detonatore: di polemiche, sebbene Costanzo non emetta giudizi sui suoi personaggi. Per esempio: l’ostinata pratica vegana di Mina, la filosofia più inoffensiva della terra, non viene mai accusata di nuocere ai bambini, eppure, sul web, alcuni vegani un po’ meno inoffensivi se la sono già presa col regista, accusandolo, tra l’altro, di specismo (ovvero di discriminare gli animali dagli umani, soprattutto a tavola) per un’incauta dichiarazione festivaliera nella quale confessava di gradire molto il Big Mac e di propinarlo ai figli una volta al mese. In realtà queste sue scorrerie nel fast food sono più casuali che programmatiche, ma tant’è. Poi c’è il discorso sulle madri, ancora più ostico. Costanzo dice, giustamente, che «ogni film viene illuminato dalla luce dello spettatore», quindi ognuno può vedere quelle madri alla luce delle proprie esperienze, o disavventure, infantili. A chi in tenera età non se l’è passata tanto bene, il senso di possesso della mammina sul figlio e l’atteggiamento manipolatorio della suocera fanno venire i brividi. Ma qui bisognerebbe mettersi d’accordo sul fatto che di certe mamme, o certe nonne, è lecito diffidare. E apriti cielo.

Che ha detto sua madre del film? 

Perché?

Così, per sapere. 

Come spettatrice, mi sembra le sia piaciuto, sì, credo le sia piaciuto. Ha riso.

Le ha chiesto perché?

No, ho un certo pudore, poi mi è difficile pormi come figlio rispetto a questo film.

Questo film, come il precedente La solitudine dei numeri primi, altro horror di ambiente familiare, nasce da un libro, Il bambino indaco di Marco Franzoso. Ma se il romanzo di Giordano era arrivato a Costanzo per mano di un produttore, questo se l’è trovato da solo. Si ricorda ancora quando e dove l’ha letto: un anno e mezzo prima di scrivere la sceneggiatura, su un treno per Udine. «Avevo visto una recensione di Goffredo Fofi. C’è poco da dire, mi ha colpito. E respinto. Sentivo che era una storia che potevo raccontare, ma mi sembrava ci fosse troppa violenza. Però ogni tanto sono tornato a pensarci e un giorno questo pensiero è diventato la prima scena. La sceneggiatura è andata avanti con una scrittura naturale, semplice. Conclusa in una settimana».

La prima scena – che nel romanzo non c’è, ma Costanzo ha un approccio molto libero negli adattamenti dei libri, che legge e poi dimentica per conservare la storia, non i dettagli – è stata un po’ censurata nelle recensioni del film, ma andrebbe raccontata. Ristorante cinese a New York, la porta dell’antibagno in cui Mina si è lavata le mani non si apre, è bloccata. Si apre invece la porta del bagno e insieme a Jude esce una puzza mostruosa, apocalittica: lui ha mangiato qualcosa di molto indigesto e questi sono gli effetti. Imbarazzo, intimità coatta e vertiginosa, finché non li libera un cameriere.

Dopo Le conseguenze dell’amore, ecco Le conseguenze del mangiare: nel suo film, il cibo è pessimo in tutte le sue forme. 

Beh, sì: nella scena specifica, trattasi di merda. Ma è anche divertente. E in effetti c’è una coerenza fra il prologo e l’epilogo, ma non è studiata, costruita. Spesso questo film mi faceva paura. E a volte ridere.

Paura del male che può fare una madre? 

No, quello che ho capito o dovevo capire con Hungry Hearts è che le madri hanno sempre ragione. Ho faticato ad accettare il ruolo della madre più quando sono diventato padre che da bambino: allora non lo discutevo. Ho fatto pace con questa figura e imparato anche a guardarmi con più indulgenza nel ruolo di padre. Ma soprattutto ho capito e accettato che una madre ha sempre ragione.

Anche quando non vuol vedere che suo figlio rischia la vita perché non lo nutre a sufficienza? O quando comincia a purgarlo di nascosto per non fargli assimilare la carne prescritta dal pediatra? 

Se si entra in un’ossessione non si controllano le azioni. Questa è la storia estrema di un’ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire. Non sa che fare di tutto l’amore da dare al bambino. Non riesce a contenere il miracolo di cui si rende capace, la maternità. È un’ idiozia darla per scontata. Si dice: la donna fa i figli, l’uomo no. E finisce lì.

Quindi non esistono cattive madri. 

È come dire: non esistono cattive persone. No, io non penso che esistano cattive persone e basta, cattive fino in fondo.

Che reazione ha alla parola famiglia?

Tutti i miei film sono sulla famiglia, questo è sicuro. Cerco di capirla. Ma non saprei rispondere su una cosa così profonda.

Qualche conto in sospeso? 

Se ci sono state delle mancanze lo ho perdonate: sono diventato un padre. Guardo con indulgenza agli eventuali errori dei miei.

Un padre famoso può essere devastante. 

C’è uno scambio di amore nella nostra famiglia di cui non parlo perché sono cose private. Grazie a mia madre il nostro quotidiano era fatto di normalità e discrezione, non mi sono mai socializzato come figlio di Maurizio Costanzo. Se lo dimentichi tu, lo dimenticano anche gli altri. E non ti ferisce chi pensa, come poi è normale, che tu abbia avuto dei privilegi, anche se non li hai mai chiesti né accettati.

In Rosemary’ Baby, film del 1968 di Polanski, Mia Farrow è vittima di congiura satanista condominial-coniugale che la fa mettere incinta dal demonio. Durante la gravidanza ha dei sospetti, ma viene trattata da visionaria. In Hungry Hearts, Mina ordisce da sola il suo complotto, e contro le forze del male (inquinamento, medicina allopatica, suocera carnivora), ma sa anche che gli altri, gli sconsiderati normali, la giudicano pazza. Inevitabile riconoscere un filo rosso fra i due film, ma Costanzo rivendica un’altra sintonia, con Una moglie di John Cassavetes (che, guarda caso, era il marito di Mia Farrow in Rosemary’s Baby, questo però non c’entra niente): «Che bel film, contiene la verità di una donna, tutto il suo amore e la sofferenza che comporta. Ancora oggi, quella di Gena Rowlands è forse la performance femminile più profonda perché non dà per scontata la maternità, è una lotta interiore. Una lotta buona e lieve».

Vecchia passione quella per Cassavetes: Costanzo dice che vorrebbe essere ingenuo come lui. Ma si può voler essere ingenui? «Sì, fidandoti dell’istinto, aspettando che le cose accadano, facendo lavorare l’esterno. Sul set, il mio modo di girare è stato quello di Cassavetes: non andare a cercarti uno stile, racconta semplicemente una storia dando lo spazio all’attore, che è la storia. Rimani su di lui e nel modo più onesto, senza metterti nella condizione di sapere troppo quello che vai a fare. Rosemary’s Baby è entrato nel film malgrado me, perché purtroppo non posseggo il candore di Cassavetes. Dico purtroppo perché lui non va mai a finire in un genere, rimane coerente con la danza umana che mette insieme, mentre io ho una parte evidentemente più orrorifica e in quell’interno di coppia ci vedo molto buio, così emergono degli incubi che appartengono a Polanski. Anch’io poi ho pensato a Rosemary’s Baby: perché Alba ha lo stesso biancore di Mia Farrow, la stessa eleganza, e perché io volevo l’Upper West Side, avevo bisogno di quella New York. Ma sono somiglianze più che altro estetiche».

Seguendo la corrente Cassavetes, sono successe cose, durante la lavorazione: Adam Driver, l’unica faccia giusta per il film, era indisponibile; stava per saltare tutto, ma poi si è liberato. Il minuscolo e nitido appartamento della coppia o la villa della suocera coi trofei di cervi alle pareti (proprietà di una signora dedita alla caccia con l’arco) non erano proprio quelli previsti dalla sceneggiatura, ma alla fine l’hanno arricchita. Il budget poco superiore al milione di euro ha consentito a Costanzo di lavorare, sollevare divani, faticare («ne avevo un gran bisogno»), la mancanza delle sovrastrutture da grande produzione ha eliminato deleghe e dispersioni. E assumendo anche il ruolo di operatore, il regista ha potuto sperimentare direttamente i rischiosi fisheye che deformano l’immagine quando la coscienza di Mina comincia a sfrangiarsi. «Volevo girare le scene con due obiettivi diversi, ma non c’erano né il tempo né i mezzi. È andata bene così».

In questo fecondo disordine creativo tocca parlare di altri disordini, quelli alimentari, già affrontati in La solitudine dei numeri primi. Perché tanto interesse? 

È casuale. In questa storia la protagonista non è anoressica, infatti Alba non è dovuta dimagrire dieci chili come nella Solitudine. Non mangia per un’ansia di purezza, che sarà pure anoressia, ma il tema del film non è il rapporto con il cibo, anche se l’ho girato a New York perché là mangiare una verdura che sa di verdura è un privilegio da miliardari, mentre in Italia è relativamente facile.

Il tormentone sul cibo è un tema filosofico? 

Non so. Aumenta la consapevolezza che distruggiamo la Terra, forse è una reazione, e magari allargando i consumi di alimenti biologici i prezzi di questi alimenti potrebbero scendere. Ma detesto fare sociologia e non c’è niente su cui non cambio opinione se incontro al bar  uno con un’idea più illuminata. E poi il dibattito sul cibo lo trovo noiosissimo.

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LO ZAINO DI EMMA

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LO ZAINO DI EMMA

Fuga Martina

Editore Mondadori Electa

Pubblicato 17/11/2014

Pagine 141

 

   indice

1) Sinossi

2)L’autrice

3)Intervista

4)pagina facebook e sito

 

1)Sinossi

“Molti pensano che la disabilità di un figlio sia un dono, ma chiedetelo ai nostri figli. La sindrome di Down non è un dono, mia figlia è un dono, ma per com’è lei, non per la sindrome. Non posso fare a meno di chiedermi come sarebbe se… e non me lo chiedo per me, me lo chiedo per lei! Io di quello zaino sulle spalle di Emma posso anche farmi carico, ma fino a che punto? Non posso portarlo io al suo posto! Un giorno lei vorrà toglierselo quello zaino e io dovrò spiegarle che non è possibile. Quel giorno sarà il più difficile della mia vita.” Martina Fuga, mamma di una bimba con sindrome di Down, racconta la sua storia di vita possibile. Ricordi, episodi, riflessioni si snodano lungo il percorso di accoglienza della disabilità della figlia iniziato quasi dieci anni fa. Nelle istantanee di vita narrate in una prosa asciutta ed essenziale si alternano difficoltà e conquiste, dolore e coraggio, paura e fiducia nel futuro, in un equilibrio delicato che la vita spesso impone. Lontano da intenti buonisti, spietato come la verità sa essere, Lo zaino di Emma racconta lo straordinario rapporto che lega una madre a una figlia e offre spunti di riflessione a chiunque si interroghi sul senso vero della vita.

2) L’autrice

Martina Fuga è nata a Venezia, si è laureata in Lingue Orientali all’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è stata direttore generale di Arthemisia, una società di produzione mostre. Ha organizzato tra le altre le mostre di Hokusai (Milano 1999), Rothko (Roma, 2007), Hopper (Milano, 2009). Dal 2010 è professore a contratto del Master “Progettare cultura” dell’Università Cattolica di Milano e dal 2012 amministratore di Artkids, un progetto che si propone di avvicinare i bambini al mondo dell’arte.

Dal 2012 collabora con Ballandi Arts alla redazione di documentari d’arte in onda sui SkyArte. Appassionata di running, è sposata con Paolo Orlandoni, portiere dell’Inter, da cui ha avuto tre figli Giulia, Emma e Cesare. Emma è affetta dalla sindrome di Down e l’esperienza di questa maternità, che Martina vive con passione e amore, l’ha portata ad impegnarsi nel mondo dell’associazionismo – è presidente di Pianetadown Onlus, membro del comitato di gestione del CoorDown, e consigliere di AGPD Onlus Milano – e a raccontare la sua storia. È autrice della pagina facebook Emma’s friends e del blog Imprevisti

3) Intervista

Cosa l’ha spinta a scrivere il libro “Lo zaino di Emma”?
In verità sono state due le spinte, una dall’interno e una dall’esterno.
Ho sempre scritto, scrivevo di me, dei miei pensieri e delle mie emozioni. Per lo più per mettere ordine dentro di me e per fissare ricordi, ma quando è nata Emma la cosa è diventata quotidiana, era una specie di terapia autogestita. Avevo una matassa nello stomaco da districare, una rabbia da gestire, emozioni da contenere… E l’ho fatto attraverso la scrittura. Questi fiumi di parole ad un certo punto ho cominciato a condividerli su facebook e poi sul blog e il confronto che le altre persone, spesso sconosciute, mi ha fatto un gran bene e molti di loro mi hanno dato riscontri altrettanto positivi.
Ma la spinta esterna è stata la vera ragione per cui oggi “Lo Zaino di Emma” è in libreria: è stato infatti l’editore Mondadori Electa nella persona di due persone eccezionali che mi hanno chiesto di scrivere il libro. Io avevo grossi dubbi, lo trovavo inutile e anche un po’ esibizionista, ma poi proprio in quei giorni ho incontrato una neo-mamma che mi disse che le cose che aveva letto su facebook e sul blog la stavano aiutando molto, così mi sono ricordata delle letture che avevo fatto alla nascita di Emma e di quanto sostegno, fiducia e coraggio mi avessero dato nell’entrare in quel mondo. Così ho colto l’occasione …

 

A chi consiglierebbe il libro?
Beh non dovrei dirlo io… io pensavo di scrivere per un pubblico ristretto, diciamo familiari di persone con sindrome di Down, ma mi sono resa conto dalle lettere che ricevo che è un libro per genitori in generale, in fondo non parlo solo di Emma, parlo anche molto dei suoi fratelli e della mia esperienza di mamma in generale. Poi ho una speranza… che lo leggano più persone possibili, non tanto per il successo del libro che non è la ragione per cui l’ho scritto, ma perché vorrei che tutti sapessero cos’è davvero la sindrome di Down e come si vive con un figlio disabile, perché mia figlia ma con lei tutti i ragazzi con disabilità possano essere guardati senza pregiudizi.

 

Cosa ha pensato quando ha saputo che Emma aveva la sindrome di Down?
Lo racconto a fondo nel libro, ora è davvero difficile sintetizzare il tutto in poche parole, ma all’inizio io ero solo preoccupata della salute, mi avevano fatto un quadro complicato di potenziali patologie connesse alla sindrome e io temevo che Emma non stesse bene, ma la vita è stata generosa con lei e le ha dato un’ottima salute sin dal primo giorno.
La notte mi sono persa in pensieri bui, pensavo a tutto quello che non sarebbe stata a quello che non sarebbe stata capace di fare, ma mi sbagliavo, oggi posso dire che sono davvero poche le cose che gli sono state precluse a priori a causa della sindrome! in futuro, vedremo…

 

Emma ha trovato o trova difficoltà fuori dalle relazioni familiari?
Emma vive un contesto di relazioni molto ricco, a scuola, in famiglia, nelle attività sportive ed è circondata da tante persone che la conoscono, le vogliono bene e la sostengono, e direi anche la proteggono, quindi faccio fatica a parlare di difficoltà. Le difficoltà più grandi insorgono per lo più fuori del nostro contesto, in vacanza o quando usciamo da ambienti che frequentiamo abitualmente. Emma ha una significativa difficoltà nel linguaggio e quindi spesso la prendono in giro o le fanno notare di non capirla e per lei, che ci mette tanto impegno per esprimersi, è molto frustrante.

 

 “Una gioia immensa!…Emma era finalmente tra le mie braccia”, leggendo il libro emerge molto forte che sua figlia è una “forza della natura” capace di dare molto nella relazione con la madre, ma cosa riceve Emma di prezioso ogni giorno dalla madre?
Non so davvero rispondere… Io ci sono e questo è tutto. Credo sia molto ma mai abbastanza. Credo che nessun genitore sia mai abbastanza per i suoi figli. Mi guardo intorno e credo che facciamo tutti sempre e solo del nostro meglio, ma i nostri figli hanno bisogno di molto di più, tutti. Più sguardo addosso, più abbracci, più giochi insieme, più spazio dentro di noi… Credo che dovremo aspettare qualche anno e chiederlo ad Emma.

 

Lei ha scritto che considerava Emma bisognosa di tutte le sue attenzioni, pensa che Giulia e Cesare si siano sentiti in qualche momento non al centro delle attenzioni materne?
Sì, purtroppo sì. Cesare soprattutto che è nato 15 mesi dopo Emma, ma anche Giulia che siccome è grande viene sempre dopo oppure può fare da sola. Purtroppo con questo senso di colpa conviverò per il resto dei miei giorni anche perché i figli sono cartine di tornasole e te ne accorgi presto quando si sentono invisibili. Ma si fa del proprio meglio e ho imparato a ritagliarmi spazi esclusivi per tutti i miei figli e dare ad ognuno le attenzioni che desiderano. Poi penso che avere dei fratelli insegni soprattutto questo: condividere. Condividere spazi e cose, ma anche amore ed è un valore importante da imparare.

 

Quando Emma ha visto il libro cosa ha detto?

Ha fatto uno dei suoi sorrisi sornioni e ha detto: “Lo sapevo!!!”
Fa così quando è in imbarazzo e vuole togliersi dall’imbarazzo. Le avevo accennato al libro e, barando, le ho detto che avevo scritto un libro sulla nostra famiglia e un po’ di più su di lei e per questo l’avevo messa in copertina, ma lei ha dei momenti di assoluta consapevolezza, molto di più di quanto io mi aspetti e ha sorriso come per dirmi: “non me la racconti…”
Ora la cosa la diverte, si sente un po’ una star e firma autografi nel cortile della scuola. Non è quello che volevo, ma è una cosa che non posso controllare, spero solo che piano piano finisca e soprattutto che lei un giorno non si dispiaccia che io lo abbia fatto.

 

Quanti anni ha adesso Emma e cosa fa di bello?
Emma ha 9 anni e mezzo, frequenta con soddisfazione la IV elementare e un corso di danza. Nuota come un pesce, ma non ha ancora imparato ad andare in bicicletta! Sorride sempre, è forte, determinata e piena di fiducia verso la vita. E’ una ragazzina felice questo mi sento di dirlo, ha una vita ricca di amore e di complicità con i suoi fratelli e i suoi amici. Spero solo che fra qualche anno potrò continuare a dirlo…

 

4) Pagina facebook e sito

pagina facebook Emma’s friends

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