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Conferenza: Più o meno dodici anni

più o meno dodici anni

– conferenza pubblica sulla preadolescenza e l’adolescenza–

Prof. Angelo Croci

15 febbraio 2012 ore 21 Centro culturale Ferraroli Piazza Giovanni XXIII Cogliate (MB)

 

La relazione adulto-minore è un percorso complicato che spesso entra in crisi quando gli adulti si confrontano con minori di “più o meno dodici anni”. Ecco quindi che parlare di adolescenza può rappresentare un’opportunità educativa non solo per chi si relaziona quotidianamente con gli adolescenti, ma anche per chi vuole arrivare più preparato a questa importante tappa.

L’Istituto comprensivo C. Battisti, i comitati genitori di Cogliate e Ceriano L. e il Centro Culturale Ferraroli organizzano “più o meno dodici anni” una conferenza pubblica sul tema della adolescenza e della preadolescenza rivolta a insegnanti, genitori e operatori psicopedagogici.

Per informazioni www.iccogliate.it email walter.brandani@iccogliate.it

Super 8 (Abrams, 2011. Età dai 12 anni)

INDICE
SINOSSI
RECENSIONE
TRAILER

SINOSSI
Super 8
Un film di J.J. Abrams. Fantascienza, Ratings: Kids+13, durata 112 min. – USA 2011.

Ohio, estate del 1979. Nel tentativo di girare un scena particolarmente efficace per un film in super 8 da mostrare ad un festival provinciale, un gruppo di ragazzi è involontariamente testimone di un terribile disastro ferroviario dal quale “qualcosa” fugge.
La questione è talmente importante che la loro cittadina si riempie di militari intenti ad indagare mentre misteriosamente dalle case spariscono oggetti tecnlogici, persone e cani. Alla fine starà ai ragazzi riuscire a mettere insieme i pezzi di una storia che procederà comunque, con o senza il loro intervento, e dalla quale dovranno uscire vivi.
“Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù! Ma chi li ha?” dice Richard Dreyfuss nella scena finale di Stand By Me, riassumendo nel 1986 il senso di una stagione del cinema americano che si andava chiudendo dopo aver messo al centro dell’immaginario cinematografico il mondo della preadolescenza di provincia e aver creato un vero e proprio sottogenere. Cuore e motore di quell’ondata fu Steven Spielberg, a lui e ai primi film della sua Amblin Entertainment è esplicitamente ispirato Super 8.
Al suo terzo film J.J. Abrams gira la sua opera più complessa, l’unica in grado di fondere le molte diverse ossessioni della sua carriera anche televisiva. Partendo dall’idea di aderire agli stilemi e all’estetica di certo cinema spielberghiano (i ragazzi, le biciclette, la provincia, la fine degli anni ‘70, i problemi con i padri…), gradualmente Abrams contamina il suo film-omaggio di elementi personali. Invece che immedesimarsi totalmente e girare un film amblin al 100% Abrams sceglie di non rinunciare ai suoi controluce che provocano bagliori lenticolari, al suo gusto per la gestione del mistero, ai filmini d’epoca che rivelano segreti, al grande incidente o all’utilizzo di figure mostruose come metafora delle paure (come avveniva già nel Cloverfield da lui prodotto e nell’unica puntata di Lost di cui è stato regista, quella pilota).
Super 8 non va quindi considerato come la riproposizione di una storia e un modo di fare cinema vecchi di 30 anni, ma la messa in scena del cinema di Spielberg visto dagli occhi di Abrams. Infatti mentre nella prima parte il film abusa di topoi Amblin, nella seconda, quella in cui alla descrizione dello scenario si sostituisce l’avvicinarsi dell’incontro ravvicinato, comincia a dosare quello, applicandolo solo in certi punti (l’inquadratura rivelatoria della bacheca con tutti gli annunci di cani scomparsi e il particolare anatomico della creatura che si svela solo a distanza ravvicinata gridano Spielberg a squarciagola).
Se c’è invece qualcosa che davvero marca la separazione tra il cinema di oggi e di ieri, tra Abrams e Spielberg, è il modo in cui i due guardano al cielo. La meravigliosa speranza, poesia e commozione con la quale il regista di Incontri ravvicinati del terzo tipo aspettava i suoi alieni buoni è totalmente assente, al suo posto uno sguardo che più che essere rivolto in alto guarda in basso. Gli alieni moderni di Abrams hanno il medesimo ruolo di quelli di District 9 o Monsters, sono lo specchio delle barbarie umane e non delle loro aspettative più alte. Citazionismi e ricalchi a parte, alla fine il senso dell’operazione è dimostrato dalla capacità di raccontare una piccola storia che si inserisce in una più grande. Super 8 ha il merito di riuscire a ricongiungere trama e personaggi alla maniera di E.T.. Uno stile fondato prima di tutto su un casting a regola d’arte, che trova sei ragazzi perfetti per dare vita ai sei caratteri scritti su carta, tra i quali si distingue l’eccezionale Elle Fanning (sorella dell’altro prodigio Dakota Fanning, ma cosa danno da mangiare in quella famiglia?). E in seconda battuta concentrato a non perdere mai di vista la coerenza interna data dai caratteri infantili, volontà simboleggiata dal piccolo piromane (uno dei personaggi più riusciti) che anche nella più terribile delle situazioni si chiede dove siano le sue miccette. (Niola Mymovie)

RECENSIONE

Super 8 è il risultato di una filiazione poetica pienamente realizzata sia quanto ai modi di produzione, sia per quanto riguarda le forme della rappresentazione, sia, infine, per ciò che concerne i temi affrontati. Diretto da J.J. Abrams (forse più conosciuto in quanto autore e produttore televisivo, grazie alla tanto innovativa quanto fortunata serie Lost) Super 8 è allo stesso tempo prodotto da Steven Spielberg, vero e proprio demiurgo del cinema statunitense dalla metà degli anni Settanta in poi. Abrams – classe 1966, nato a New York ma cresciuto a Los Angeles, entrambi i genitori produttori televisivi – appartiene a quella generazione di americani (e non solo) che, adolescenti a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, sono cresciuti non solo con i film di Spielberg nelle vesti di regista (valgano per tutti due o tre titoli come Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, E. T. L’extraterrestre) ma anche e soprattutto con i moltissimi titoli prodotti dal geniale tycoon di Cincinnati: da Ritorno al futuro di Robert Zemeckis aGremlins di Joe Dante, da Piramide di paura di Barry Levinson a Casper di Brad Silberling. Di certo Super 8 per l’ancor giovane Abrams deve aver rappresentato il raggiungimento di un traguardo importante (e, probabilmente, il coronamento di un sogno) come quello di lavorare fianco a fianco non solo con uno dei più importanti produttori di Hollywood, ma anche con colui che ha ispirato un modo di concepire il cinema in quanto rappresentazione di un immaginario infantile e adolescenziale ingenuo e sognante nei contenuti ma con i piedi ben piantati per terra quanto a schemi produttivi e strategie di marketing.

Si racconta che Abrams, in compagnia dell’amico e sodale Matt Reeves (divenuto in seguito anch’egli regista) nel 1981, all’età di quindici anni, riuscirono a sottoporre al giudizio di Spielberg un cortometraggio, girato proprio in super8, ottenendo il plauso del regista e l’offerta di un lavoro estivo in una piccola produzione televisiva. Un viatico messo a frutto nel migliore dei modi dai due amici, nella realtà della loro crescita professionale e, nel caso di Super 8, messo in scena attraverso la narrazione delle vicende di sei amici preadolescenti con la passione per il cinema – horror fantascienza in testa – che decidono di girare un cortometraggio per partecipare a un piccolo festival e che, del tutto involontariamente, si trovano coinvolti in una serie di eventi a dir poco eccezionali. Non è casuale, dunque, la collocazione delle vicende narrate nel 1979, anno in cui il regista aveva all’incirca l’età dei protagonisti e, allo stesso tempo, fine di un decennio che aveva visto nascere un tipo di cinema come quello di Spielberg e George Lucas che si sarebbe sviluppato come vera e propria industria dell’entertainment negli anni Ottanta.

Se dal punto di vista dell’omaggio a quel cinema Abrams mette in campo non solo forme del racconto e stile della narrazione chiaramente spielberghiani, ma anche una straordinaria fotografia e un uso della cinepresa che ricalcano alla perfezione luci e movimenti di macchina tipici dell’epoca, per ciò che concerne la rievocazione dell’infanzia riesce a conferire ai personaggi ingenuità e freschezza ma, al tempo stesso, profondità e incisività del tutto inconsuete per il genere di riferimento. Del resto, fin dall’incipit il film non ci presenta la consueta immagine della provincia statunitense: se lo sfondo è quello delle solite villette con giardino ben curate, tipiche dei film mainstream americani, l’atmosfera è decisamente lugubre, con il giovane protagonista Joe alle prese con il lutto per la perdita della madre, morta in fabbrica per un incidente sul lavoro. La morte, il senso di perdita, l’abbandono, il conflitto tra genitori e figli aleggiano per tutto il corso del film, conferendo inusitato spessore a una trama che dovrebbe soltanto ricalcare gli stereotipi del monster movie. Stereotipi che, del resto, lo stesso Abrams, nelle vesti di produttore, aveva scardinato alcuni anni fa con il film Cloverfield (diretto dall’amico Reeves) nel quale il gigantesco mostro che attaccava una New York post-11 settembre, faceva la sua comparsa soltanto in alcune fuggevoli inquadrature riprese dalla telecamera digitale di uno dei protagonisti – sorta di aggiornamento della cinepresa super 8 degli adolescenti di questo film – formidabile epitome delle paure che agitano il nostro presente.

Così, se nella sua confezione esteriore il film rende nostalgico omaggio a un certo cinema degli anni Settanta, nei temi affrontati e nel risalto dato ai caratteri dei personaggi (tutt’altro che figurine unidimensionali) riesce ad affrancarsi da una sudditanza poetica nei confronti di quel cinema che oggi risulterebbe irrimediabilmente datata. Di certo anche nei film del maestro Spielberg lo sfondo famigliare non era mai neutro – si pensi all’assenza della figura paterna nella famiglia del piccolo protagonista di E. T. L’extraterrestre, alla famiglia disgregata dell’eroe di Incontri ravvicinati del terzo tipo, al padre problematico di Hook – Capitan Uncino – tuttavia mai in uno dei suoi film avevamo incontrato universi domestici così problematici e, allo stesso tempo, tanto verosimili nell’intreccio dei rapporti tra le figure del racconto.

Tutto il senso di Super 8 ruota, in fondo, intorno alla scena più straordinaria del film, quella in cui i cinque ragazzini, in compagnia della coetanea Alice (la straordinaria Elle Fanning, già interprete di Somewheredi Sofia Coppola), coinvolta nel progetto come interprete, inizialmente perplessa, poi sempre più partecipe ed entusiasta, si trovano presso una stazione ferroviaria in disuso per girare una delle sequenze del loro cortometraggio. Si prova la scena dell’addio tra il protagonista del “corto” e Alice nei panni della moglie di questi, con un’interpretazione straordinaria dell’attrice in erba, in lacrime al termine della sequenza (il perché di tanta empatia emergerà nel corso del film, dalle vicende personali della ragazzina). Il sopraggiungere di un treno è un’occasione troppo ghiotta per il giovanissimo cineasta che vorrebbe approfittare di quell’imprevisto per conferire maggiore realismo e allo stesso tempo più enfasi drammatica alla sequenza. Preparato il set alla meglio, azionato il motore della cinepresa Super8, dato il via agli attori che incominciano a recitare, accade l’incredibile: il treno si scontra con un’automobile che sta attraversando i binari e deraglia paurosamente, provocando un incidente ferroviario di proporzioni colossali che darà il via a una serie di eventi a catena che costituiscono forse la parte meno interessante del film, uno sfondo di vicende fantastiche e tremende allo stesso tempo che contrappuntano l’estate di un gruppo di ragazzini consapevoli di non essere più dei bambini ma non ancora degli adulti.

Il treno, dunque, come simbolo di un’età che fugge, di occasioni che passano e non ritorneranno, di addii immaginari come quello dei due protagonisti del cortometraggio, di incontri reali come quello tra Alice e Joe, di passioni come quella per il cinema, che nascono come un gioco ma si sviluppano in quanto strumento si rielaborazione della realtà (come nel caso del giovanissimo regista Charles), come mezzo per circoscrivere le proprie paure (è il caso di Alice) o per elaborare un lutto (come è per Joe). Il cortometraggio horror girato dai giovani protagonisti della pellicola, del resto, si presenta fin da subito tutt’altro che come un passatempo da bambini: invitati al banchetto funebre in onore della madre di Joe i quattro amici del ragazzino si chiedono se l’amico, toccato così profondamente dalla morte, sarà ancora disposto a partecipare alla lavorazione del cortometraggio, visto che si tratta di un film di zombie. I ragazzini gireranno il loro film utilizzando come sfondo il vero scenario del disastro ferroviario, ovvero proiettano ed esorcizzano le loro inquietudini su una dimensione reale, mettendo in scena il loro orrore metabolizzato attraverso citazioni cinematografiche e invenzioni sceniche ingegnose, in un tentativo non già di distrazione dal presente ma di appropriazione di una personale dimensione espressiva che dia un senso al loro disagio.

Allo stesso modo, anche Super 8 è qualcosa di più che un semplice prodotto di intrattenimento: non solo è un film che parla non superficialmente di conflitti tra genitori e figli, di famiglie problematiche, di adolescenza, del senso di perdita, di abbandono e di morte, ma anche di una fase della storia americana tutt’altro che semplice. Si tratta di accenni, indizi apparentemente casuali che fanno capolino dall’altoparlante di una radio lasciata accesa o dalle colonne di un quotidiano inquadrato di sfuggita che rimandano notizie sull’incidente nucleare di Three Miles Island, sugli ultimi rigurgiti della Guerra fredda, su quell’ottimismo reaganiano che mostrerà tutti i suoi limiti nei decenni a seguire e che nel film trovano la loro materializzazione non tanto nella mostruosità dell’essere alieno sfuggito al disastro ferroviario quanto nella costante presenza, per tutta la seconda parte del lungometraggio, di soldati in divisa che occupano militarmente oltre al villaggio che fa da sfondo alla vicenda anche la scena del film con un apparato di uomini e mezzi dalle dimensioni inquietanti.

Quanto il cortometraggio girato dai sei protagonisti sia tutt’altro che un pretesto per raccontare altro ma si costituisca in quanto elemento essenziale nell’economia di senso del film lo rivelano gli ultimi dieci minuti di Super 8: archiviato un finale in tutto e per tutto spielberghiano (qui l’omaggio a Incontri ravvicinati del terzo tipo e a E. T. L’extraterrestre si fa smaccato) che forse paga qualcosa in più del dovuto al patetico, ai titoli di coda vengono affiancate le immagini del cortometraggio finalmente montato e al quale è stato dato il titolo di The Case. Le riprese, che nel corso del film sembravano avere l’unica funzione di far progredire la linea narrativa principale, si costituiscono in quanto narrazione in se e per se coerente e conclusa, sia pur all’interno di – anzi forse proprio grazie a – una dimensione giocosa, appassionata e dissacrante. (Fabrizio Colamartino minori.it)

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