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Julietta

Risultati immagini per julieta filmUn film di Pedro Almodóvar – Titolo originale Silencio –

Drammatico, Ratings: Kids+13 – durata 99 min. – Spagna 2016.

INDICE

  1. TRAMA
  2. RECENSIONI
  3. TRAILER

 

 

 

1) TRAMA
La protagonista del film è Julieta, una professoressa di mezza età che, dopo aver compiuto cinquantacinque anni, decide di scrivere una confessione autobiografica dei suoi ultimi trent’anni di vita. Un compito oneroso, ma con un nobile fine: quello di recapitare questo testo a sua figlia Antia, scappata quando aveva diciotto anni dal nido materno, e farle così conoscere la verità su sua madre, raccontarle tutto quello che – in 12 anni di silenzio – non è stato possibile condividere.

 

2) RECENSIONI

JULIETA DI PEDRO ALMODÓVAR

Pedro è tornato. Tornato al Suo cinema, alle donne, al dramma, ai sentimenti, al destino, alla colpa, ai figli, alle madri. Tornato a Tutto su mia madre, a Volver, a un mondo dove il décor è il racconto e il racconto è l’anima della messa in scena.
Tutto è misura in Julieta, non meccanicità ma misura. Il dramma si costruisce, si articola nel tempo, nel suo racconto in flashback, nelle tappe che lo fanno avanzare mentre emerge dal passato fino a oggi attraverso gli ambienti, gli abiti, gli oggetti. Senza mai spingersi un millimetro più in là del punto in cui fermarsi è la scelta giusta. Perfino al di qua della lacrima, dell’incontro, della conciliazione, del confronto.

Un dramma che si fonda nel silenzio, nel rifiuto della parola, non può che trovare compimento nel suo stesso dire, senza bisogno di altro.

La vita di Julieta inizia su un treno proprio nel momento in cui rifiuta di parlare a un uomo che sembra molestarla. Quell’uomo, dopo pochi istanti, si suicida segnando per sempre con il marchio della colpa l’esistenza della donna. Quella stessa notte, su quello stesso treno, Julieta conosce però anche l’uomo della sua vita e concepisce sua figlia. Che il destino le farà perdere nuovamente, entrambi, nel silenzio di un confronto rifuggito.

Quando Julieta individua come unica possibilità di uscire dalla colpa il ripercorrere la propria esistenza, capisce che l’unico modo è cercare, finalmente, di raccontare la sua storia e i segreti custoditi dal silenzio.

Abbandona la casa bianca in cui i ricordi sono stati rimossi, sostituiti dalla fredda pulizia della somma di tutti colori e torna alla complessità della carta da parati. Girali e arabeschi che invadono lo spazio e si alternano a colori densi pieni dei segni del tempo e del peso della memoria. Questo è lo sfondo che Julieta sceglie per riprendere la sua vita in mano scrivendo seduta all’unico mobile che occupa l’ultima delle case della sua vita. Quella scelta per raccontare, replica vuota e invecchiata dell’appartamento in cui insieme le due cercavano di sopravvivere alla tragedia.

Per la prima volta, come sanno fare le donne del cinema di Almodóvar, come Manuela, come Raimunda, come tante grandi donne del cinema classico, Julieta non subisce più il destino ma fa la sua scelta: rinuncia alla possibilità di una nuova vita fondata sulla rimozione, per ripercorrere e narrare il passato. Senza soluzione. Perché la soluzione è il racconto stesso. Chiara Borroni CINEFORUM.IT

 


Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda

Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l’uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L’incontro casuale con Beatriz, amica d’infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c’è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l’illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l’autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l’afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un’ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell’Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L’una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l’altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e ‘giudicata’ tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall’uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all’avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all’eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno ‘delitto’ e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l’amore per scongiurare la morte, da Matador l’autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l’impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della ‘prima moglie’ che piomba sul dramma l’ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.

Marzia Gandolfi MYMOVIE

 

 

3)VIDEO

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Le mani della madre.

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1 RIASSUNTO

2 CONFERENZA JONAS VARESE:       presentazione e intervista.

3 RECENSIONI

4 VIDEO PRESENTAZIONE LIBRO

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  1. Riassunto

Dopo aver indagato la paternità nell’epoca contemporanea con Il complesso di Telemaco e altri libri di grande successo, Massimo Recalcati volge lo sguardo alla madre, andando oltre i luoghi comuni, anche di matrice psicoanalitica, che ne hanno caratterizzato le rappresentazioni più canoniche. Attraverso esempi letterari, cinematografici, biblici e clinici, questo libro racconta i volti diversi della maternità mettendo l’accento sulle sue luci e le sue ombre.
Non esiste istinto materno; la madre non è la genitrice del figlio; il padre non è il suo salvatore. La generazione non esclude fantasmi di morte e di appropriazione, cannibalismo e narcisismo; l’amore materno non è senza ambivalenza. L’assenza della madre è importante quanto la sua presenza; il suo desiderio non può mai esaurire quello della donna; la sua cura resiste all’incuria assoluta del nostro tempo; la sua eredità non è quella della Legge, ma quella del sentimento della vita; il suo dono è quello del respiro; il suo volto è il primo volto del mondo.

“Ho scritto questo libro perché volevo essere giusto con la madre. Bisognerebbe provare a esserlo.”

Una nuova interpretazione della maternità di fronte alle difficoltà e ai cambiamenti di oggi.

 

2 CONFERENZA 29 SETTEMBRE VARESE

conferenza “Le mani della madre” martedì 29 settembre alle ore 21.00 presso la sala Montanari del comune di Varese

LOCANDINA

3 JONAS VARESE ( www.jonasonlus.it – varese@jonasonlus.it)

Dal 2003 Jonas Onlus, associazione senza fini di lucro con fondata da Massimo Recalcati, è impegnata nella cura di alcuni sintomi del disagio contemporaneo come anoressia, bulimia, obesità, depressioni, attacchi di panico, fenomeni psicosomatici, disagio della famiglia.

INTERVISTA ALLA DOTTORESSA ERIKA MINAZZI DI JONAS VARESE:

Quali sono le finalità dell’associazione Jonas ?

Le finalità del nostro centro sono di ordine terapeutico, preventivo, formativo e di ricerca. Non solo, dunque, all’interno dei nostri studi offriamo terapie d’ordine psicoanalitico, ma ci occupiamo anche di attività a carattere formativo. Sportelli d’ascolto nelle scuole, progetti di prevenzione e formazione, organizzazione di conferenze e convegni sono al centro delle nostre attività.
La nostra attenzione clinica non si rivolge solo a una particolare tipologia di utenza, bensì alle numerose forme di disagio e di malessere che contraddistinguono l’attualità ( dipendenze, attacchi di panico, disturbi alimentari, ansia, depressione, psicosomatica, disabilità, ecc. ecc.). La filosofia che ci guida tiene conto delle differenti peculiarità di cui le molteplici soggettività sono portatrici e un’attenzione particolare viene riservata a chi necessita di percorsi di cura a tariffe sostenibili.

Da chi è costituita  la sede di Varese dell’associazione Jonas?

La nostra sede è costituita da un équipe motivata e desiderosa di poter intercettare domande d’aiuto e di analisi.
Dott.ssa Erika Minazzi, psicologa, psicoterapeuta, presidente di Jonas Varese
Dott.ssa Valeria Maiano, psicologa
Dottor Massimiliano Soldati, psicologo
Dottor Massimo Porta, psicologo

Come si può accedere ai servizi dell’associazione Jonas Varese?

Per accedere ai nostri servizi si possono usare differenti canali:
Si può chiamare direttamente presso la sede al numero 3482463645
Piuttosto che telefonare al numero verde nazionale 800453858
Oppure indirizzare una mail all’indirizzo varese@jonasonlus.it
O contattaci su Facebook, jonas.varese e apprendere delle nostre iniziative dal sito www.jonasonlus.it
Un membro dell’équipe sarà pronto ad accogliere ogni richiesta e a valutare la possibilità

 

3 RECENSIONI

Recalcati, nelle mani della madre il tormento del figlio

Angelo che accudisce o tiranno che traumatizza? Recalcati cerca una figura di “mamma reale” al di là dei luoghi comuni (e della psicoanalisi) di FERDINANDO CAMON
C’è una poesia a pagina 47 che, dopo averla incontrata e sorpassata, ogni tanto tornavo a rileggere. Dice così:
La mia bambina è nella culla durante l’ora bella./La mia bambina ha butìni, ha celestino, ha buietto sotto il lenzuolino./La mia bambina è scompiglietti, è filantina, becoletti e ciuciantina,/di qua dalla finestrella/durante l’ora bella.La leggi e capisci tante cose. Che chi l’ha scritta è una donna. Che un uomo non potrebbe mai scriverla. Che la madre che scrive questi versi non guida il bambino a parlare la propria, di lei madre, lingua, ma scende lei a imparare, inventandola, la lingua del neonato, quella lingua che sta prima della lingua. Cioè: la madre rinasce nel figlio che nasce. Questa rinascita si chiama maternità.Questo libro è un viaggio nella maternità.  CONTINUA_LEGGI TUTTA LA RECENSIONE

E tu che madre sei, narciso o coccodrillo? Oppure tigre, chioccia, piovra…

di Giovanna Pezzuo
Cominciamo dall’epilogo, dove volendo «essere giusti con la madre» Massimo Recalcati scrive: «bisognerebbe non dimenticare che il bestiario che accompagna inevitabilmente la sua figura (la piovra, il coccodrillo, la chioccia, il vampiro) fornisce solo il suo lato ombra, patologico, abnorme, che non fa giustizia della sua forza positiva che oltrepassa di gran lunga quel bestiario». Una precisazione che suona un po’ come una difesa preventiva… CONTINUA_LEGGI TUTTA LA RECENSIONE
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4 VIDEO PRESENTAZIONE LIBRO

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Leggi alcune pagine del libro

 

 

È arrivata mia figlia

È arrivata mia figlia

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Un film di Anna Muylaert

Titolo originale Que horas ela volta

Ratings: Kids+13

durata 114 min. – Brasile 2015.

 

     INDICE

  1. video
  2. recensioni

 

VIDEO

TRAILER

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SCENA FILM
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RECENSIONE
Val lavora come cameriera a tempo pieno nella villa di una famiglia bene di San Paolo. Sono più di dieci anni che non vede la figlia Jessica, che ha affidato ad una parente nel Nord del paese. Un giorno, però, la ragazza si presenta in città per l’esame di ammissione alla facoltà di architettura. Il suo ingresso nella casa di Donna Barbara, del marito e del figlio, suo coetaneo, sovverte ogni regola non scritta di comportamento e mette sua madre di fronte alle domande che non si è mai posta.
“A che ora torna?” si chiede il titolo originale e a pronunciare la fatidica domanda, che tradisce l’attesa e l’affetto, è Fabinho, il signorino di ceto superiore, che interroga la domestica sul rientro della madre, ma è anche la figlia della domestica, in una catena di ritardi e deleghe che è il vero e proprio fenomeno sociale (non solo brasiliano) contro il quale punta il dito il film della Muylaert. Donne che assumono bambinaie per crescere i propri figli al loro posto, mentre le stesse bambinaie sono costrette a far crescere i propri figli a qualcun altro e così via, in un circolo che mescola vizio e necessità e fa sì che a farne le spese siano democraticamente i figli di tutti e la loro educazione sentimentale.
Jessica non è, però, una sventurata d’altri tempi, non si presenta con il bagaglio di tacite conoscenze su cosa è concesso o meno a quelli come lei; non è figlia di sua madre, in questo senso, perché quella continuità si è interrotta troppo presto. Jessica è stata fortunata negli studi, ha trovato chi l’ha iniziata al pensiero critico, per lei la porta della cucina non è una linea di demarcazione scritta nei geni: è una porta come un’altra e, magari, nei disegni dei suoi futuri progetti, la toglierà del tutto. In termini cinematografici, Jessica è portatrice di un altro sguardo e di un altro uso del corpo nello spazio. Il suo avvento non ha la forza sovvertitrice del misterioso ospite del teorema pasoliniano, il film non ha certo le stesse ambizioni poetiche, ma destruttura comunque, gesto dopo gesto, stanza dopo stanza, un codice separatista che si basa sul patto tra chi pretende e chi lascia che ciò avvenga.
Costruito come un percorso in tempo quasi reale, È arrivata mia figlia non è la storia della rivoluzione di Jessica, ma quella di Val, della sua coraggiosa epifania: è la sua presa di coscienza sulla possibilità di interrompere la catena degli errori che commuove profondamente, perché viene dal personaggio più interno al meccanismo, quello per cui, seppur sbagliata, esisteva una “natura delle cose”. Regina Case, interprete di lunga esperienza teatrale, televisiva e cinematografica, rischia d’incontrare qui il ruolo della vita e lo onora con una performance perfetta, nei tempi comici e nei toccanti momenti del retroscena (evidentemente la sua ribalta).
Pur non allargandosi oltre il testo dichiarato, il film di Anna Muylaert è un buon esempio di un cinema per tutti che non deve per forza scendere a compromessi sul tema né sul suo impianto ritmico.

MYMOVIE Marianna Cappi

RECENSIONE 2

A volte la rivoluzione passa per gesti semplici, così piccoli da stare tra le mura di una casa, eppure sconfinati. Val, interpretato dalla bravissima Regina Casè, è una governante che fa il suo lavoro con amore e serietà. Dopo aver lasciato sua figlia alle cure del padre e di una zia, approda a San Paolo iniziando a lavorare presso una facoltosa coppia di cui accudisce amorevolmente il figlio, diventando di fatto la sua “seconda madre”. Un secondo posto che le spetta, suo malgrado, anche nella vita della figlia Jessica che arriva in città per sostenere l’esame d’ingresso presso una prestigiosa università.

Figlia di una generazione che non si sente più schiava delle differenze di classe, Jessica porterà scompiglio nel mondo socialmente statico di Val, infondendole il coraggio di guardarsi sotto una diversa luce per vedersi «né migliore, né peggiore di chiunque altro».

Anna Muylaert è l’invisibile direttrice d’orchestra di questo piccolo, grande film. La macchina da presa, spesso immobile, diventa un oggetto che scompare con estrema naturalezza nel sistema di una direzione degli attori svuotata di qualsiasi “vizio di forma”, fotografando l’azione con il preciso intento di rinunciare a qualsiasi forma di gerarchia.

Lo spettatore entra nella casa in cui si concentra la vicenda, camminando tra le sue pareti indisturbato e libero di una guida che lo tenga per mano. Invisibile, riesce gradualmente a percepire le tracce, lasciate con maestria nei più piccoli dettagli, di una dittatura perpetrata silenziosamente nell’involucro di un mondo moderno e civile. La scrittura, caratterizzata da una leggerezza che può essere solo frutto di un duro, puntualissimo e meticoloso lavoro, non tradisce sbavature, riuscendo nell’impresa di non peccare di presunzione e mettendosi quindi al completo servizio del film.

Il film di Anna Muylaert possiede uno stile che è difficilmente riassumibile con pochi riferimenti. Mette in scena la discriminazione di classe insidiatasi così capillarmente nella cultura brasiliana, da trasformarsi in naturale e incontestabile tradizione, arrivandoci con modalità del tutto singolari. Spoglio di retorica, abbraccia toni che sono propri del reportage, pur non essendo tale. Sfiora la denuncia sociale, spogliandola di aggressività e mostrando con efficacia quanto le barriere sociali siano null’altro che pura assurdità.In uscita nella sale italiane il 4 giugno, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance Festival e del premio del Pubblico al Festival di Berlino, È arrivata mia figlia, riesce a mettere d’accordo cuore e ragione e, no, non è un passaggio scontato. di Dalila Orefice cinefilos.it

 

Hungry Hearts

 Hungry Hearts

Hungry-Hearts

Hungry Hearts
Un film di Saverio Costanzo.

Ratings: Kids+16

durata 109 min.

Italia  2015

 

 

                                           

INDICE

– RECENSIONE

– INTERVISTA AL REGISTA

RECENSIONE: una riflessione profonda sulla genitorialità

 

Mina e Jude si incontrano per la prima volta in un’angusta toilette di un ristorante cinese. Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dal colloquio con una veggente a pagamento Mina si convince che il suo sarà un figlio speciale che andrà protetto da ogni impurità. Inizia a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. Jude decide di opporsi a queste scelte portando di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa più acuto.
Il disagio, il malessere esistenziale sono da sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Che si tratti dei palestinesi di Private, dei seminaristi di In memoria di me o dei giovani de La solitudine dei numeri primi la sua macchina da presa inquadra situazioni che sono al contempo estreme e quotidiane. È quanto accade anche in questo film che trae ispirazione dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso in cui Costanzo mette a frutto la propria profonda conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM ma non solo.
Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: “La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire”. È questo tipo di consumo che Mina (precocissima orfana di madre e con un padre con cui non ha più contatti) sta cercando, anche se vorrebbe evitarne inizialmente, l’avveramento. Costanzo non vuole fare il fustigatore di teorie e/o credenze più o meno diffuse (osservanza vegana compresa) perché di fatto spinge il suo sguardo decisamente molto più in là.
Mina non è una Rosemary polanskiana più o meno consapevolmente gravida di demoni interiori. È una donna che dimentica di essere tale (quindi annullando anche la propria sessualità che era in precedenza vitale e solare) in funzione di una ‘proprietà’, quella del figlio, che diviene totalizzante. Il punto di non ritorno è quando utilizza l’aggettivo possessivo più improprio (“mio”) nei confronti del neonato. Da quel momento Jude viene estromesso (con sentenza passata in giudicato nella mente della compagna) dalla condivisione che è propria dell’essere genitori. Per far ciò non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. È sufficiente ritenere di essere gli unici depositari del sapere ‘cosa è bene’ per l’essere umano in formazione rifiutando qualsiasi confronto. Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell’amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare. Costanzo sa come descrivere questo processo. MYMOVIE Giancarlo Zappoli

 

 

“HUNGRY HEARTS”: INTERVISTA A SAVERIO COSTANZO

Questa intervista è uscita sul Venerdì di Repubblica.

Roma. C’è anche la possibilità di detestarle, le due madri di Hungry Hearts: una trepida mamma vegana che affama il figlio per non contaminarlo con le impurità del mondo e una risoluta suocera che risolve drasticamente il problema del nipotino sottopeso. Saverio Costanzo ha riversato materiali incandescenti nel suo film, che parte come una commedia e poi svolta verso un horror familiare, dove un omogeneizzato di carne può elevarsi a dispositivo del thrilling. Due giovani si incontrano, si innamorano, nasce un bambino (indaco, ovvero dotato di superpoteri spirituali, secondo il vaticinio di una veggente) e monta la tragedia. Che si era già preannunciata in gravidanza con alcuni segnali, perché il diavolo è nei dettagli. Alba Rohrwacher ed Adam Driver, premiati alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi, sono Mina e Jude, lei italiana a New York che lavora nelle ambasciate e lui ingegnere: sono diversi, ma si vede che si amano, il guaio è che certe volte l’amore, anche materno, è il detonatore di esplosioni devastanti.

Anche questo film può essere un detonatore: di polemiche, sebbene Costanzo non emetta giudizi sui suoi personaggi. Per esempio: l’ostinata pratica vegana di Mina, la filosofia più inoffensiva della terra, non viene mai accusata di nuocere ai bambini, eppure, sul web, alcuni vegani un po’ meno inoffensivi se la sono già presa col regista, accusandolo, tra l’altro, di specismo (ovvero di discriminare gli animali dagli umani, soprattutto a tavola) per un’incauta dichiarazione festivaliera nella quale confessava di gradire molto il Big Mac e di propinarlo ai figli una volta al mese. In realtà queste sue scorrerie nel fast food sono più casuali che programmatiche, ma tant’è. Poi c’è il discorso sulle madri, ancora più ostico. Costanzo dice, giustamente, che «ogni film viene illuminato dalla luce dello spettatore», quindi ognuno può vedere quelle madri alla luce delle proprie esperienze, o disavventure, infantili. A chi in tenera età non se l’è passata tanto bene, il senso di possesso della mammina sul figlio e l’atteggiamento manipolatorio della suocera fanno venire i brividi. Ma qui bisognerebbe mettersi d’accordo sul fatto che di certe mamme, o certe nonne, è lecito diffidare. E apriti cielo.

Che ha detto sua madre del film? 

Perché?

Così, per sapere. 

Come spettatrice, mi sembra le sia piaciuto, sì, credo le sia piaciuto. Ha riso.

Le ha chiesto perché?

No, ho un certo pudore, poi mi è difficile pormi come figlio rispetto a questo film.

Questo film, come il precedente La solitudine dei numeri primi, altro horror di ambiente familiare, nasce da un libro, Il bambino indaco di Marco Franzoso. Ma se il romanzo di Giordano era arrivato a Costanzo per mano di un produttore, questo se l’è trovato da solo. Si ricorda ancora quando e dove l’ha letto: un anno e mezzo prima di scrivere la sceneggiatura, su un treno per Udine. «Avevo visto una recensione di Goffredo Fofi. C’è poco da dire, mi ha colpito. E respinto. Sentivo che era una storia che potevo raccontare, ma mi sembrava ci fosse troppa violenza. Però ogni tanto sono tornato a pensarci e un giorno questo pensiero è diventato la prima scena. La sceneggiatura è andata avanti con una scrittura naturale, semplice. Conclusa in una settimana».

La prima scena – che nel romanzo non c’è, ma Costanzo ha un approccio molto libero negli adattamenti dei libri, che legge e poi dimentica per conservare la storia, non i dettagli – è stata un po’ censurata nelle recensioni del film, ma andrebbe raccontata. Ristorante cinese a New York, la porta dell’antibagno in cui Mina si è lavata le mani non si apre, è bloccata. Si apre invece la porta del bagno e insieme a Jude esce una puzza mostruosa, apocalittica: lui ha mangiato qualcosa di molto indigesto e questi sono gli effetti. Imbarazzo, intimità coatta e vertiginosa, finché non li libera un cameriere.

Dopo Le conseguenze dell’amore, ecco Le conseguenze del mangiare: nel suo film, il cibo è pessimo in tutte le sue forme. 

Beh, sì: nella scena specifica, trattasi di merda. Ma è anche divertente. E in effetti c’è una coerenza fra il prologo e l’epilogo, ma non è studiata, costruita. Spesso questo film mi faceva paura. E a volte ridere.

Paura del male che può fare una madre? 

No, quello che ho capito o dovevo capire con Hungry Hearts è che le madri hanno sempre ragione. Ho faticato ad accettare il ruolo della madre più quando sono diventato padre che da bambino: allora non lo discutevo. Ho fatto pace con questa figura e imparato anche a guardarmi con più indulgenza nel ruolo di padre. Ma soprattutto ho capito e accettato che una madre ha sempre ragione.

Anche quando non vuol vedere che suo figlio rischia la vita perché non lo nutre a sufficienza? O quando comincia a purgarlo di nascosto per non fargli assimilare la carne prescritta dal pediatra? 

Se si entra in un’ossessione non si controllano le azioni. Questa è la storia estrema di un’ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire. Non sa che fare di tutto l’amore da dare al bambino. Non riesce a contenere il miracolo di cui si rende capace, la maternità. È un’ idiozia darla per scontata. Si dice: la donna fa i figli, l’uomo no. E finisce lì.

Quindi non esistono cattive madri. 

È come dire: non esistono cattive persone. No, io non penso che esistano cattive persone e basta, cattive fino in fondo.

Che reazione ha alla parola famiglia?

Tutti i miei film sono sulla famiglia, questo è sicuro. Cerco di capirla. Ma non saprei rispondere su una cosa così profonda.

Qualche conto in sospeso? 

Se ci sono state delle mancanze lo ho perdonate: sono diventato un padre. Guardo con indulgenza agli eventuali errori dei miei.

Un padre famoso può essere devastante. 

C’è uno scambio di amore nella nostra famiglia di cui non parlo perché sono cose private. Grazie a mia madre il nostro quotidiano era fatto di normalità e discrezione, non mi sono mai socializzato come figlio di Maurizio Costanzo. Se lo dimentichi tu, lo dimenticano anche gli altri. E non ti ferisce chi pensa, come poi è normale, che tu abbia avuto dei privilegi, anche se non li hai mai chiesti né accettati.

In Rosemary’ Baby, film del 1968 di Polanski, Mia Farrow è vittima di congiura satanista condominial-coniugale che la fa mettere incinta dal demonio. Durante la gravidanza ha dei sospetti, ma viene trattata da visionaria. In Hungry Hearts, Mina ordisce da sola il suo complotto, e contro le forze del male (inquinamento, medicina allopatica, suocera carnivora), ma sa anche che gli altri, gli sconsiderati normali, la giudicano pazza. Inevitabile riconoscere un filo rosso fra i due film, ma Costanzo rivendica un’altra sintonia, con Una moglie di John Cassavetes (che, guarda caso, era il marito di Mia Farrow in Rosemary’s Baby, questo però non c’entra niente): «Che bel film, contiene la verità di una donna, tutto il suo amore e la sofferenza che comporta. Ancora oggi, quella di Gena Rowlands è forse la performance femminile più profonda perché non dà per scontata la maternità, è una lotta interiore. Una lotta buona e lieve».

Vecchia passione quella per Cassavetes: Costanzo dice che vorrebbe essere ingenuo come lui. Ma si può voler essere ingenui? «Sì, fidandoti dell’istinto, aspettando che le cose accadano, facendo lavorare l’esterno. Sul set, il mio modo di girare è stato quello di Cassavetes: non andare a cercarti uno stile, racconta semplicemente una storia dando lo spazio all’attore, che è la storia. Rimani su di lui e nel modo più onesto, senza metterti nella condizione di sapere troppo quello che vai a fare. Rosemary’s Baby è entrato nel film malgrado me, perché purtroppo non posseggo il candore di Cassavetes. Dico purtroppo perché lui non va mai a finire in un genere, rimane coerente con la danza umana che mette insieme, mentre io ho una parte evidentemente più orrorifica e in quell’interno di coppia ci vedo molto buio, così emergono degli incubi che appartengono a Polanski. Anch’io poi ho pensato a Rosemary’s Baby: perché Alba ha lo stesso biancore di Mia Farrow, la stessa eleganza, e perché io volevo l’Upper West Side, avevo bisogno di quella New York. Ma sono somiglianze più che altro estetiche».

Seguendo la corrente Cassavetes, sono successe cose, durante la lavorazione: Adam Driver, l’unica faccia giusta per il film, era indisponibile; stava per saltare tutto, ma poi si è liberato. Il minuscolo e nitido appartamento della coppia o la villa della suocera coi trofei di cervi alle pareti (proprietà di una signora dedita alla caccia con l’arco) non erano proprio quelli previsti dalla sceneggiatura, ma alla fine l’hanno arricchita. Il budget poco superiore al milione di euro ha consentito a Costanzo di lavorare, sollevare divani, faticare («ne avevo un gran bisogno»), la mancanza delle sovrastrutture da grande produzione ha eliminato deleghe e dispersioni. E assumendo anche il ruolo di operatore, il regista ha potuto sperimentare direttamente i rischiosi fisheye che deformano l’immagine quando la coscienza di Mina comincia a sfrangiarsi. «Volevo girare le scene con due obiettivi diversi, ma non c’erano né il tempo né i mezzi. È andata bene così».

In questo fecondo disordine creativo tocca parlare di altri disordini, quelli alimentari, già affrontati in La solitudine dei numeri primi. Perché tanto interesse? 

È casuale. In questa storia la protagonista non è anoressica, infatti Alba non è dovuta dimagrire dieci chili come nella Solitudine. Non mangia per un’ansia di purezza, che sarà pure anoressia, ma il tema del film non è il rapporto con il cibo, anche se l’ho girato a New York perché là mangiare una verdura che sa di verdura è un privilegio da miliardari, mentre in Italia è relativamente facile.

Il tormentone sul cibo è un tema filosofico? 

Non so. Aumenta la consapevolezza che distruggiamo la Terra, forse è una reazione, e magari allargando i consumi di alimenti biologici i prezzi di questi alimenti potrebbero scendere. Ma detesto fare sociologia e non c’è niente su cui non cambio opinione se incontro al bar  uno con un’idea più illuminata. E poi il dibattito sul cibo lo trovo noiosissimo.

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Partorire e accudire con dolcezza (S.J. Buckley 2012)

partorire-e-accudire-con-dolcezza_52537Partorire e Accudire con Dolcezza

La gravidanza, il parto e i primi mesi con tuo figlio, secondo natura

Prezzo € 29,00
Il Leone Verde Edizioni
Pagine 396
Anno: 2012

  1 riassunto

   2 indice

   3 recensione di Daniela Spiller

 

 

 

 

 

1 RIASSUNTO

Sapere è potere, partorire è potere. Con questo testo rivoluzionario Sarah J. Buckley, esperta di gravidanza e parto nota e apprezzata in tutto il mondo, fa luce sull’evento nascita e sui primi mesi da genitori mettendo a disposizione delle future mamme e dei futuri papà conoscenze attinte alla saggezza antica e alla medicina moderna.

Un testo che approfondisce la fisiologia del parto normale (o, come lo definisce l’autrice, “nascita indisturbata”) mostrando quanto va perso quando tale esperienza viene vissuta come mero evento medico.

Nella prima parte, alla scrupolosa descrizione di gravidanza e parto medicalizzati (che prevedono il ricorso a ultrasuoni, epidurale, induzione e cesareo) e di scelte più naturali (parto in casa, rifiuto dell’epidurale o di farmaci durante la fase espulsiva) si intreccia il racconto dell’attesa e della nascita dei quattro figli dell’autrice – dati tutti alla luce tra le mura domestiche.

La seconda parte prende in esame gli studi scientifici su attaccamento, allattamento materno e sonno infantile, ed esorta i neogenitori a operare scelte attente e amorevoli durante i primi mesi con il proprio bambino.

Testo documentato con rigore, profondamente umano e meravigliosamente scritto,Partorire e accudire con dolcezza accompagna i genitori più sensibili verso una maggior consapevolezza e fiducia in se stessi e nel proprio bambino, guidandoli nella meravigliosa danza della nascita e della crescita di un figlio.

2 INDICE

INDICE:

PRIMA PARTE: Partorire con dolcezza

  • Rivendichiamo il diritto di ogni donna a partorire
  • Visioni e strumenti per una nascita istintiva
  • Risanare la nascita, risanare la terra
  • Tuo il corpo, tuo il bambino, tua la scelta. Come decidere con saggezza
  • Le ecografie
  • Nascita indisturbata
  • L’epidurale
  • Lascia che vada come deve andare
  • Il taglio cesareo
  • La scelta del parto in casa

SECONDA PARTE: Accudire con dolcezza

  • Amore, attaccamento e cervello del bambino
  • Allattamento al seno
  • Mamme, bebé e la scienza della condivisione del sonno
  • Epilogo – Diventare genitori

3 RECENSIONE DI DANIELA SPILLER

Ho avuto l’onore di sedere accanto a Sarah Buckley e di fare da tramite alle sue parole ed ai suoi pensieri.
Una donna meravigliosa, una professionista che abbina la conoscenza nel campo della gravidanza e del parto al cuore, un grande cuore di mamma.
Come racconta nel suo libro “Partorire ed accudire con dolcezza”, ricco di nozioni ma anche di storie personalissime sui suoi quattro parti in casa, Sarah ci ricorda quali sono le condizioni affinché l’incontro di una mamma con il suo bambino al momento del parto possa avvenire in modo naturale, sostenuto dai potentissimi ormoni che ne regolano il corso. Un luogo che permetta di sentirsi in intimità, al sicuro, inosservate, l’assenza di estranei, luci tenui e temperatura calda: questi sono gli elementi fondamentali di cui una donna ha bisogno durante il parto.
Tratto dal libro: “La nascita indisturbata consente il rilascio più dolce del cocktail degli ormoni del parto, rendendo più semplice il passaggio – psicologico, ormonale, fisiologico ed emotivo – dalla gravidanza al parto fino alla novità della maternità e dell’allattamento, per ogni donna. […] Parto indisturbato non significa parto indolore. Gli ormoni dello stress rilasciati sono simili a quelli riscontrabili in un maratoneta, il che riflette la maestosità dell’evento, oltre a spiegarne alcune sensazioni. Come per un maratoneta, il compito della donna che partorisce non è tanto evitare il dolore – il che di solito peggiora le cose – quanto capire che quella è una prestazione estrema dell’organismo, per la quale il corpo umano è stato mirabilmente progettato. La nascita indisturbata ci dà il margine per seguire il nostro istinto e per scoprire il nostro ritmo in un’atmosfera di fiducia e di sostegno, che contribuirà a ottimizzare gli ormoni del parto, aiutandoci a trasfigurare il dolore”.

Il meraviglioso cocktail ormonale aiuta la mamma ad entrare in “uno stato di coscienza alterato”, “un altro mondo”. Gli indiani d’America dicevano che, in questo particolare momento, la mamma esce da suo corpo, va alla ricerca dell’anima del suo bambino e lo porta a sé. La trovo un’immagine meravigliosa!

Allattamento, attaccamento materno e comunicazione empatica con il bambino non possono che giovare da questo primo e magico incontro, soprattutto se lasciato alla sua naturalità e sacralità.

Questo è il progetto di Madre Natura per garantire benessere, estasi e sicurezza!

Daniela Spiller

MAMME ACROBATE (ELENA ROSCI 2007)

 

 

Autore: ELENA ROSCI

Titolo: MAMME ACROBATE

Editore: RIZZOLI

 

 

 

 

 

DALLA PREFAZIONE

Credo che i genitori di oggi amino più che mai i loro figli: li desiderano, ne limitano il numero per non privarli di nulla e, per quanto è possibile, li seguono personalmente preoccupandosi del presente e del futuro. Spesso però, di fronte a scelte, problemi e conflitti non sanno come comportarsi e si sentono spaesati e frastornati.  (Silvia Vegetti Finzi)

 

INTRODUZIONE

Le mamme di oggi vivono in bilico tra passato e futuro, tra figli e lavoro, tra realizzazione degli altri e realizzazione di sé. Lasciata alle spalle la sicurezza della famiglia tradizionale, le mamme acrobate vivono nell’incertezza: di valori, di ruoli, di identità. In questo loro viaggio creativo, riconoscono le loro contraddizioni, rinunciano all’onnipotenza e, soprattutto, accettano l’ambivalenza dei sentimenti. Non è facile rimettersi sempre in gioco, ma è proprio nel continuo domandare senza aspettarsi risposte che trovano la loro forza, anche quella di ritentare dopo aver sbagliato. Alla fine, ciò che le accomuna è la ricerca, l’aspirazione a un equilibrio che si conquista soltanto rischiando la propria fantasia, i propri sogni, la propria fragilità.

AUTRICE

ELENA ROSCI, psicoterapeuta, vive a Milano. Lavora all’Istituto Minotauro dove coordina l’équipe di psicologia femminile e insegna Psicologia della Coppia e della Famiglia presso la scuola di specializzazione in psicoterapia. Collabora con la Casa della Cultura. Ha pubblicato saggi sul femminile e l’adolescenza fra i quali: La seconda nascita (Unicopli 1990) con Gustavo Pietropolli Charmet, Io tu tutti (Archimede 1996) con Simona Rivolta. Ha curato due testi collettivi per Franco Angeli: Sedici anni più o meno (2000) e Fare male, farsi male (2003). elenarosci@alice.it