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IL MIO ALLENATORE ( Raffaele Mantegazza)

 

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IL ‘MIO’ ALLENATORE

Autore: RAFFAELE MANTEGAZZA
Editore: WWW.ALLENATORE.NET EDIZIONI
IN DISTRIBUZIONE DAL 10 MAGGIO 2014
Prezzo: 22.00€

INDICE

   – Intervista a Raffaele Mantegazza
   – Presentazione libro
   – Indice libro
   – video conferenza
   – L’autore 

 

 INTERVISTA

WALTER BRANDANI: Nelle presentazioni delle società sportive alla voce ALLENATORI, spesso si trova un elenco di nomi senza riferimenti a titoli di studio o corsi frequentati, solo in alcuni casi si può leggere qualche accenno alla carriera sportiva dell’allenatore. Questo vuol dire che per allenare è sufficiente essere stato un ex giocatore?

RAFFAELE MANTEGAZZA: Ovviamente no. Equivale a chiedere se un esperto programmatore di computer può insegnare informatica ai ragazzi di terza media senza sapere niente di pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, comunicazione didattica. Purtroppo il mondo dello sport, soprattutto del calcio, sembra essere piuttosto sordo a queste sollecitazioni, per cui ci si illude che basti saper giocare per saper insegnare a giocare. Ma certo non bastano i corsi, che pure sono indispensabili: occorre indagare sulle motivazioni che portano una persona a voler allenare, e se non si tratta di motivazioni realmente educative si parte già con il piede sbagliato.

WB: Quali sono le principali competenze che dovrebbe possedere un allenatore?

 

RM: Occorrono ovviamente competenze tecniche ma spesso, soprattutto per i settori giovanili, vengono esagerate, in particolare a livello tattico. Piuttosto che perdere due ore a studiare la difesa a zona del Barcellona un allenatore di ragazzini impiegherebbe il suo tempo in modo più proficuo studiando pedagogia e psicologia. Un allenatore deve sapere comunicare, sapere in che cosa un adolescente si differenzia da un  bambino, qual è la percezione del proprio corpo in un bambino di sette anni e come muta a dieci anni, conoscere la psicologia dei gruppi ecc.

WB: Se si vince bravi tutti, ma sopratutto l’allenatore, se si perde è colpa dei ragazzi che non si impegnano. Per un allenatore qual è il rapporto tra l’insegnare una disciplina sportiva e il vincere la partita?

 

RM: L’allenatore dei settori giovanili non FA sport ma INSEGNA sport. La cosa è completamente diversa. La vittoria ovviamente fa parte dello sport, non è eliminabile da esso, ma se per l’allenatore  della prima squadra la sconfitta è solamente sconfitta, per l’allenatore dei ragazzi essa può costituire una straordinaria possibilità di crescita e un fattore positivo. Insegnare a fare qualcosa significa soprattutto insegnare a sbagliare e a imparare dai propri errori. Se si demonizza la sconfitta, non è letteralmente possibile insegnare a vincere.

WB Cosa significa per un giocatore poter affermare “…..è il MIO allenatore!” ?

 

 RM: Significa attribuirgli quello status unico che i ragazzi assegnano solamente ai (purtroppo) pochi adulti che scelgono come punti di riferimento,  insegnanti, capi scout, animatori, zii e soprattutto allenatori. Per poter essere il “mio” allenatore  però il mister o coach deve essere in sintonia con me, riconoscermi come persona (il mio precedente libro pubblicato per allenatore.net si intitolava “La persona giocatore”), deve mettere in campo quella speciale relazione uno-a-uno che troppo spesso viene soffocata dietro una concezione di gruppo e di squadra troppo rigida e poco attenta alle dimensioni individuali.

WB: Genitori in campo o fuori dal campo: quale rapporto assumo i genitori nella pratica sportiva dei figli?

 

RM: Assolutamente fuori dal campo, ad accompagnare i figli alla partita e a recuperarli fuori dallo spogliatoio. Un genitore deve vigilare sul fatto che l’allenatore sia una persona seria, che non bestemmi, che non insulti i ragazzi (spesso sono proprio questi cafoni ad essere stimati dai genitori, che pensano che così  i ragazzi cresceranno forti e duri!); per il resto, deve lasciare lavorare l’allenatore e aiutare il ragazzo a ritagliarsi con esso quella specifica  relazione che fa di lui, appunto, “il mio allenatore”.

 

 PRESENTAZIONE LIBRO

Sono molti gli allenatori con importanti competenze in ambito tecnico-tattico ed in grado di preparare fisicamente i propri giocatori. Non sempre la stessa attenzione viene invece viene dedicata ai fattori pedagogici, comunicativi, relazionali.

Avere una linea di condotta chiara, saper gestire le proprie emozioni ed essere un modello per i propri ragazzi sono tutti elementi che un allenatore deve curare ed approfondire, così come è fondamentale saper mostrare ed insegnare, anche con fantasia e creatività, gli specifici aspetti sportivi.

Altrettanto importante è conoscere alcune regole di comunicazione, da applicare sia nel rapporto con il singolo che nella gestione della squadra, utili a formare lo spirito di gruppo ed a creare un clima adatto all’interno dello spogliatoio.

L’autore focalizza quindi l’attenzione sul prevenire i conflitti che possono sorgere in relazione alle diverse personalità dei ragazzi e le modalità con le quali è opportuno soddisfare i tipici problemi che frequentemente si presentano con i genitori.

L’ultimo capitolo è invece dedicato all’analisi degli allenamenti e delle partite, cercando di mostrare come, in ogni momento di questi eventi, l’allenatore può prestare attenzione agli elemnti psicologici e pedagogici del suo ruolo.

 

 

INDICE LIBRO

– chi è il “mio” allenatore?

– l’allenatore come insegnante

– l’allenatore come comunicatore

– l’allenatore e il ragazzo

– l’allenatore e i genitori

– l’allenatore in azione: allenamenti e partite

 

 VIDEO

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 L’AUTORE

Docente di pedagogia interculturale e della cooperazione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca, per 15 anni allenatore di squadre giovanili di basket, formatore e consulente per allenatori, genitori e atleti

 

Il passato

il passato

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Il passato

Un film di Asghar Farhadi.

Con Bérénice Bejo, Tahar Rahim,

 Titolo originale Le passé.
Drammatico, durata 130 min. –
Francia, Italia 2013. –
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RECENSIONE
mymovies, Giancarlo Zappoli

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma.
Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti.
Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa.
Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.

(clicca sopra)
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TRAILER

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L’impossibile innocenza del lavoro sociale e la contaminazione con la vita

 

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Le professioni di aiuto, per superare il rischio di diventare professioni disabilitanti, sono chiamate a lavorare affinché i destinatari degli interventi – cittadini, famiglie, ragazzi, bambini – non rimangano semplici fruitori delle scelte di operatori ed esperti, ma diventino protagonisti attivi, soggetti che, affrancandosi dalla dipendenza dai servizi, diano vita al proprio racconto personale e sociale.

Una riflessione sul lavoro sociale e su etica e giustizia ad esso connesse per trarre indicazioni operative utili nella definizione dei processi di aiuto.

L’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia ha riconosciuto 10 CREDITI, di cui 5 per la formazione continua e 5 deontologici.
Sono riconosciuti 8 CREDITI ECM per Psicologi, Educatori, Operatori Sanitari.

All’indirizzo http://sulletraccedelsociale.wordpress.com è aperto il blog di discussione dove vengono proposti articoli tratti dalle riviste “Lavoro Sociale ” e “Animazione sociale” e dove i relatori propongono spunti e pensieri per aprire la riflessione e il dibattito sui temi del convegno. Tutti i partecipanti potranno scrivere e confrontarsi.

Per valorizzare l’iniziativa di formazione come occasione di riflessione e di incontro tra gli operatori, per ogni due iscritti di uno stesso Ente, pubblico o del privato sociale, è prevista la partecipazione gratuita di un terzo collaboratore.

Clicca qui per il programma completo

Per informazioni e iscrizioni inviare mail a: formazionecoopcasa@virgilio.it .

Cooperativa Sociale La casa davanti al sole soc. coop. arl
via Cavour, 24 – 21040 Venegono Inferiore (VA)
tel. 0331 864041
www.lacasadavantialsole.org

Uniti alla meta

Rugby Rebels – Uniti alla meta rugby

Marchio: Einaudi RagazziCollana: Storie e rime
N° Collana: 451
Autore: Pau Andrea
Illustratore: Vinci Jean Claudio
Età: 10+
Pagine: 208
Formato: 10,9 x 18,3 cm
Prezzo: 10,00 Euro
Codice: 9788879269605

 

 

 

Diego ha dodici anni e vuole vincere il campionato giovanile di rugby. Può farcela perché ha talento, tenacia e gioca nei Warriors, la squadra più forte della città. Inoltre a sostenerlo c’è Elly, la fi glia del coach Chambers.

Tutto sembra andare per il meglio… finché, dopo una partita, Diego colpisce un compagno di squadra che aveva deriso il suo fratellino disabile. Il coach espelle Diego dai Warriors, e impedisce a Elly di parlare con lui. In un attimo tutte le speranze del ragazzo sembrano andare in frantumi.

Ma Diego non è tipo da lasciarsi abbattere. E nel campionato c’è un’altra squadra che ha la sua stessa grinta. Una squadra che in passato è stata protagonista di vittorie gloriose, e ora è relegata in fondo alla classifica. La squadra dove un tempo ha giocato anche il padre di Diego: i leggendari Rebels. Insieme a loro, e con l’aiuto della stramba allenatrice Mighty Keira, Diego cercherà di vincere il campionato e riconquistare Elly. Per realizzare il suo sogno.

KIKI – Consegne a domicilio (animazione a partire dai 7 anni)

 

KIKI – Consegne a domicilio

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Anno 1989

Durata 102 min

Genere animazione

Regia Hayao Miyazaki

INDICE

– Trama

– recensioni

– Video
 

TRAMA

« Il sangue della strega, il sangue del pittore, il sangue del panettiere… Come dei poteri donatici da Dio o chi per lui, ma per questi doni possiamo anche soffrire… »
(Ursula)

Kiki è una giovane strega che come da tradizione, compiuti i 13 anni parte da casa sulla sua scopa in compagnia soltanto di Jiji, il suo gatto nero, per l’anno di noviziato da svolgere in un’altra città. Dopo aver superato una tempesta ed aver incontrato un’altra giovane strega ormai al termine del suo tirocinio, Kiki raggiunge una caratteristica cittadina di mare, meta prefissata nell’immaginario della ragazzina fin dalla sua partenza.

Le prime esperienze in città, per lei che dopotutto è una ragazza di campagna, non sono però positive e Kiki, scossa dall’accoglienza piuttosto fredda e deludente del luogo, si rende conto che forse aveva fin troppo idealizzato quell’avventura tanto attesa da piccola e che probabilmente quella città non era il posto giusto in cui fermarsi. Fortunatamente si imbatte nella gentile Osomo, una giovane fornaia che in cambio di un aiuto nel suo negozio le offre un alloggio in cui abitare. Kiki può finalmente mettere a frutto l’unica arte magica che possiede, quella di saper volare sulla scopa, e apre una piccola attività di consegne volanti di pacchi.

Kiki comincia quindi ad inserirsi nel tessuto della cittadina e impara lentamente a distinguere il lato buono che in fondo c’è in tutte le persone. Durante questa sua lenta maturazione, Kiki è talvolta euforica e talvolta depressa con repentini sbalzi di umore, e ne fa le spese il povero Tombo, un ragazzo di città affascinato dal volo, suo coetaneo e suo primo vero amico, che non sempre riesce a capire il carattere difficile della ragazza.

Un giorno però accade un evento apparentemente inspiegabile: la capacità di volare che Kiki possedeva fin da bambina, sembra svanita. Kiki è disperata e solo allora comincia a rendersi conto di cosa veramente rappresenti l’anno di noviziato: riuscire a trasformare le proprie attitudini e il proprio talento di bambina nell’attività da svolgere da adulti. Qualora avesse fallito, lei non avrebbe avuto più alcun valore. Con l’aiuto di Ursula, una sua amica pittrice, capisce però che la perdita dell’ispirazione o la paura di non essere in grado di svolgere il proprio compito, è una cosa naturale e che solo riuscendo a superare questi momenti di sconforto si può crescere e maturare.

Improvvisamente per televisione viene trasmesso un servizio in diretta: un dirigibile ancorato presso la cittadina ha rotto gli ormeggi a causa del forte vento ed è in balia della tempesta. Kiki si rende conto che il suo amico Tombo era salito proprio su quel dirigibile ed ora era rimasto aggrappato ad una fune fuoribordo. Mentre il dirigibile viaggia senza controllo sui tetti della città, Kiki riesce a superare il blocco psicologico che non le permetteva più di volare e a cavallo di uno spazzolone finalmente si libra nell’aria per salvare il suo amico.

RECENSIONI

Pur non nascondendo mai la sua natura di opera minore nell’ambito del corpus miyazakiano, Kiki – Consegne a domicilio è quantomai indicativo per comprendere le tematiche fondanti della poetica dell’autore nipponico. È spesso dalle opere minori, inclini alle semplificazioni e talvolta allo stereotipo, che si coglie con maggiore esattezza l’essenza di un grande artista e dei suoi topoi: Kiki non fa eccezione in questo senso.
Nella parabola della streghetta dagli umili abiti rivive il consueto viaggio iniziatico di Miyazaki, spesso condotto tra i cieli (in precedenza ne Il castello nel cielo, mentre Porco rosso innalzerà ai massimi livelli il feeling eroico con l’aria) e spesso con una ragazzina come protagonista. Kiki raggiunge la fatidica età di passaggio, quella dei quattordici anni, per abbandonare la dimora natia e scoprire la vecchia Europa, ancora una volta coacervo ideale di stilemi miyazakiani. Modellata su Stoccolma e Lisbona, la città in cui Kiki approda a cavallo della sua scopa volante è il luogo dello smarrimento e dell’emancipazione, in cui l’eroina è da un lato costretta ben presto a una necessaria e dura introspezione, ma può anche sentirsi accettata nonostante la sua diversità; il luogo in cui, attraverso il duro lavoro, conquistare la propria matura autonomia.
Terzo film dello Studio Ghibli e primo successo commerciale – sarà ugualmente il primo ad essere doppiato e distribuito dalla Disney – diretto da Hayao Miyazaki, Kiki mostra il lato più verista del Miyazaki-pensiero, limitando la sfera del magico a un ruolo di contrappunto nel percorso di crescita, totalmente umano, della protagonista. La perdita dei poteri magici, che comporta passaggi anche narrativamente traumatici – Jiji, gatto nero parlante e inseparabile compagno di Kiki, ritorna a essere un gatto qualsiasi, privando il film di un elemento caratterizzante – è del tutto assimilabile, in tutt’altra epoca e contesto, a quella che colpisce in Spider-man 2 il supereroe della Marvel. Pubertà come chiusura di una breve epoca felice di magia e ingresso nel mondo, meno accattivante ma capace di gratificare concretamente, delle responsabilità e dell’autonomia.
Forse è proprio l’eccesso di chiarezza nei segni disseminati da Miyazaki il principale punctum dolens di Kiki – Consegne a domicilio, quello sfiorare l’apologo che ha reso il film un prodotto più esportabile di altre opere del sensei, ma lontano dai vertici – non a caso oscuri ed ermetici, quasi esoterici, nelle loro allegorie – de Il castello errante di Howl o La città incantata. Emanuele Sacchi MyMovie.it

 

Recensione
Piccole streghe crescono
Come ogni strega che si rispetti, compiuti i 13 anni Kiki è chiamata a lasciare la casa dei propri genitori per andarsi a cercare un paese a cui offrire i propri servizi magici. Impacciata e un po’ arruffona, Kiki, oltre che sulla sua forza di volontà e sul supporto del simpatico gatto nero Jiji, potrà contare solo sulla sua capacità di volare sulla scopa, arte magica basilare per tutte le altre streghe. Atterrerà in una città caotica in cui la tradizione stregonesca è molto meno conosciuta e rispettata, ma grazie al buon cuore di una panettiera riuscirà a trovare una stanza e ad aprire una piccola attività di svolazzanti consegne a domicilio. Si nasconde però dietro l’angolo lo spettro della solitudine, delle insicurezze nelle relazioni coi coetanei e, come loro conseguenza, l’indebolirsi dei suoi poteri di stregoneria.Un classico per tutti, ventiquattro anni dopo
Nei cinque anni che oramai ci separano dall’uscita di Ponyo sulla scogliera, a tutt’oggi ultimo film firmato da Hayao Miyazaki, la distribuzione italiana ha fatto ammenda e ha trovato modo di concedere una ritardataria fiducia ai capolavori dello Studio Ghibli, colpevolmente ignorati per decenni (per intendersi, il primo film di Miyazaki distribuito dalle sale italiane è stato, con “soli” tre anni di ritardo, La Principessa Mononoke nel 2000, a 16 anni di distanza da Nausicaa nella Valle del Vento, primo lungometraggio a se stante del grande animatore, che tuttora conta solo alcuni passaggi televisivi). Dopo i recuperi de Il mio vicino Totoro e Porco Rosso, Lucky Red tributa il meritato esordio in sala anche a questo film del 1989, tratto da una serie di racconti giapponesi per ragazze ma rivoluzionato in fase di sceneggiatura, guadagnando la consueta innervatura tematica dello Studio Ghibli, fatta di sognanti malinconie nei confronti del mondo rurale e degli elementi naturali, sofferti passaggi all’età adulta e una concezione sfumata e matura del fantastico, utilizzato per indagare gli aspetti intimi dell’esperienza umana e dell’adolescenza in particolare. Kiki, perfetto archetipo di protagonista Miyaziakiana, non dovrà combattere con nemesi o incarnazioni del male, ma più semplicemente con le complessità dell’autodeterminazione e dei rapporti tra esseri umani. I suoi poteri da strega rappresentano la sublimazione fantastica dell’eredità famigliare e delle capacità di cui ognuno dispone, strumenti che bisogna imparare a padroneggiare affacciandosi all’indipendenza, al lavoro e agli approcci con l’altro sesso. Il concetto di volo, unico talento magico e mezzo di sussistenza di Kiki, pervade tematicamente tutto il film e viene investito con naturalezza del valore di metafora dell’appropriarsi della fiducia in se stessi: anche il buffo ammiratore di Kiki ne conquisterà la fiducia per i suoi tentativi cocciuti e appassionati di librarsi in aria, in lotta coi propri sogni e la propria autodeterminazione proprio come la streghetta. Dopo quasi un quarto di secolo, Kiki – Consegne a Domicilio rivela una freschezza inattacabile sotto tutti i suoi aspetti: una trama che conserva la sua portata universale e la capacità di parlare a pubblici di ogni età; tempi comici e drammatici ancora perfettamente funzionanti e coinvolgenti; soprattuto, un tratto limpido ed essenziale che tiene testa anche in spettacolarità ai suoi attuali concorrenti 100% digitali, capace di generare magoni e incanti anche solo con il distendersi di panorami nostalgici, cittadine colorate, coste luccicanti, foreste brulicanti, cieli da attraversare in dirigibile. Li attraverserà nella scena finale anche Kiki, a bordo di uno scopettone, in una prova di amicizia e fiducia in se stessa che decreterà una volta per tutte la sua appartenenza alla città che ha scelto e al suo avvenire da strega. Insomma, Benedetto sia l’Oscar a La città incantata e tutto quello che ne è scaturito negli anni seguenti in termini di valorizzazione dei lavori dello Studio Ghibli. La scoperta tardiva da parte della distribuzione di un’opera semplice e magistrale è l’occasione di regalarci e di regalare ai più piccoli un’esperienza visiva ed emotiva che il passare del tempo sembravano averci negato. Alfonso Mastrantonio – del 24/04/2013
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KIKI Consegne a domicilio – Jiji, aiutante gatto

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KIKI Consegne a domicilio – Una nuova casa

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Il bambino va a scuola (Conferenza pubblica con il prof. Angelo Croci)

Il bambino va a scuola

(pagina facebook )

Conferenza con il prof. Angelo Croci

24 MAGGIO 2013 ore 21

Sala Cattaneo via Trento COGLIATE (MB)

croci

Ogni giorno bambini e adolescenti vanno a scuola, portando con sé emozioni, insofferenze, disagi e gioie, sperando di trovare adulti disposti ad ascoltarli. In questo percorso di crescita gli alunni devono essere accompagnati da insegnanti e genitori consapevoli del loro ruolo educativo e disponibili a mettere in gioco tutte le risorse possibili. La conferenza organizzata dall’IC. “C.Battisti” e dal Comitato genitori di Cogliate * vuole essere un’occasione di confronto tra genitori, insegnanti ed educatori, per meglio conoscere “Il bambino che va a scuola”.

A chi ne farà richiesta sarà rilasciato un attestato di partecipazione. Per informazioni: info@walterbrandani.it

Elenco Enti promotori(*in fase di aggiornamento), per sostenere la conferenza inviare un email a info@walterbrandani.it:

– IC “C. Battisti” Cogliate

– Comitato genitori Cogliate

– Comitato genitori Ceriano

– Rugby  Cogliate

– Tennis Club Ceriano

 

VOLANTINO

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NUOVE FAMIGLIE (Leggi gli articoli della rivista Pedagogika.it)

” Nel clima in cui viviamo, definito dai sociologi individualismo di massa, molti genitori non soltanto  organizzano, di fatto, la vita familiare in chiave difensiva, ma trovano difficile negare qualcosa ai loro figli, sia perchè si identificano in loro, sia perchè li vogliono proteggere dal mondo ostile, sia perchè pensano che cedendo alle loro richieste li fanno sentire, se non superiori, almeno uguali ai loro coetanei, sia, ancora perchè hanno difficoltà a tollerare il minimo segno di malumore nei figli.”  (Anna Oliviero Ferraris)

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NOVITA’ PEDAGOGIKA.IT

GENNAIO/FEBBRAIO/MARZO 2013

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Pedagogika.it

Anno 2013 – XVII – 1

Legami in cambiamento e nuove famiglie

Sommario e anticipazioni di lettura

SITO RIVISTA

Editoriale – Maria Piacente

../ Dossier/Legami in cambiamento e nuove famiglie

9 Introduzione

10 Oltre la famiglia naturale, Chiara Saraceno

14 Una pluralità di modi di vivere insieme, Gian Carlo Blangiardo, Stefania Rimoldi

23 La famiglia e le vicissitudini del suo genoma, Pierpaolo Donati

28 Nuove famiglie, nuovi compiti di sviluppo, nuovi costrutti di analisi, Laura Fruggeri

34 Le famiglie oggi in Italia: cambiamenti psicosociali e intergenerazionali, Eugenia Scabini

40 Famiglia, valori e percorsi di coppia in Italia, Giovanna Rossi

47 Nella buona e nella cattiva sorte… Silvia Vegetti Finzi

54 Labilità dei matrimoni e nuove famiglie, Giulia Paola Di Nicola, Attilio Danese

60 Una famiglia sempre meno socializzante? Anna Oliverio Ferraris

64 Nuove famiglie o nuovi sguardi? Prendersi cura dei legami in un’ottica pedagogica, Laura Formenti

70 Andare oltre la crisi educativa delle famiglie: quali i compiti della pedagogia? Alessandra Gigli

75 Dal familiare al sociale. Il doppio attraversamento dell’adolescente migrante, Maria Laura Bergamaschi

80 Due mamme, due papà, tanti nonni e un sacco di fratelli, Cristina Bernacchi, Silvia Pinciroli, Davide Scheriani

../Temi ed esperienze

87 Tra fiaba e vita. Quando le donne sono potenti, Maria Cristina Mecenero

92 Maratona di lettura. I libri parlano a Rovigo, Silvia Rizzi

95 La mediazione culturale nei servizi socio-sanitari, Lucia Ientile

../Cultura

101 Scelti per voi,

  • Libri – Ambrogio Cozzi (a cura di)
  • Musica – di Angelo Villa
  • Cinema – di Cristiana La Capria

113 Arrivati in redazione

115 Questioni di genere a cura del Progetto Alice

118 Sillabario pedagogiko di Francesco cappa

 

 

ADOLESCENZA E NON SOLO: trent’anni di interventi psicoanalitici per famiglie e istituzioni

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19 aprile 2013

Sala Congressi della Provincia

Via Corridoni, 16 Milano

IL CONVEGNO

Il Minotauro che da sempre si occupa di adolescenza coniugando interventi psicoterapeutici sulle diverse espressioni di sofferenza psichica con progetti preventivi e formativi attenti alle trasformazioni educative e sociali, allarga la pratica clinica e le riflessioni teoriche ad altre fasi del ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta.

La costituzione della Fondazione Minotauro formalizza sul piano istituzionale l’apertura di un Centro di consultazione e psicoterapia attento alle trasformazioni evolutive della sofferenza psichica nelle fasi critiche dei passaggi esistenziali.

Il convegno ADOLESCENZA E ALTRI PASSAGGI presenta una rassegna di esperienze e riflessioni cliniche sulle crisi evolutive e la sofferenza psichica nelle diverse fasi del ciclo di vita.

SCARICA IL PROGRAMMA                        ISCRIZIONE ON LINE

Corpo celeste

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Anno:2011

Durata:100 min

Regia:Alice Rohrwacher

 

 

 

 

INDICE

Trama

Recensioni

Video

 

Trama

Marta è una tredicenne che, dopo dieci anni vissuti in Svizzera, fa ritorno, insieme alla madre, al Sud Italia della sua prima infanzia.

Reggio Calabria, oltre che città di sua madre, è anche il suo luogo di nascita: della città non conserva però alcun ricordo, ma a essa la lega un vago senso di appartenenza.

Marta cerca di adattarsi a questa sua nuova esistenza, sullo sfondo di un sud devastato dalla bruttezza edilizia, dallaspeculazione e dall’abbandono del territorio, culturalmente degradato dalla subalternità dei suoi abitanti agli invasivi modelli televisivi.

Il degrado umano e sociale non risparmia nemmeno la parrocchia, ambiente che dovrebbe orientare la sua crescita spirituale e accompagnare il percorso della bambina fino al sacramento della Cresima: questo itinerario è affidato, infatti, a don Mario, uno spregiudicato prete carrierista, galoppino elettorale per candidati politici, e alla figura di una patetica catechista (Santa), in compagnia di coetanee che sognano il mondo delle «veline». In questo mondo dominato dalla cultura televisiva di massa, non si salva neanche il catechismo, trasformato e degradato in una sorta di gioco a quiz, né, tanto meno, si salva la musica sacra, svilita dallo squallore musicale e letterario dei moderni canti di chiesa di ispirazione pop (significativo, a questo riguardo, è il refrain ripetuto dai bambini: «Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta»).

Marta si ritrova spaesata ed estranea a quell’ambiente, di cui è attenta spettatrice, ma che tuttavia non arriva a comprendere. La ragazza trova una risposta alle sue inquietudini esistenziali proprio nel mondo della Chiesa cattolica, grazie al breve e casuale incontro persona di Don Lorenzo (Renato Carpentieri), un anziano e marginale prete, insediato in un paese di montagna in totale abbandono, dal quale riceverà l’iniziazione alla conoscenza del Cristo e ai misteri della fede. Da lui imparerà che, pur nel suo squallore, anche il pianeta Terra (parafrasando la Ortese) è “corpo celeste o oggetto delsovramondo”.

 

Recensioni

minori.it

Un salto non da poco, quello della tredicenne Marta che, dopo aver vissuto per dieci anni in Svizzera, si trasferisce a Reggio Calabria per seguire la madre che ha deciso di fare ritorno alla sua città natale. Bionda, sguardo ingenuo ma curioso, un volto non comune e a tratti enigmatico, Marta è una specie di piccola extraterrestre, arrivata in Calabria da un “corpo celeste” sconosciuto, che si confronta con una realtà profondamente diversa da quella in cui è vissuta, con tutte le incertezze dettate dall’età di passaggio, nonché da un carattere introverso, schiacciato tra una madre affettuosa ma debole e una sorella maggiore che la prevarica in ogni occasione. È grazie a questo personaggio-guida, eccentrico rispetto al contesto che lo accoglie, che la giovane regista esordiente Alice Rohrvacher ci introduce con Corpo celeste nell’ambiente piccolo borghese che gravita attorno alla famiglia della protagonista e, soprattutto, alla locale parrocchia dove Marta incomincia a frequentare il catechismo in vista della cresima. È su questo microcosmo particolare che il film si concentra, registrando il disagio e la perplessità di Marta di fronte a personaggi, luoghi e situazioni troppo distanti dalla sua esperienza del mondo ma, soprattutto, incapaci di rispondere a quelle domande che ogni adolescente dotato di un minimo di sensibilità si pone di fronte all’enigma della fede. Attraverso il pedinamento della giovane cresimanda, allineando l’obiettivo di una macchina da presa sensibilissima al suo sguardo innocente, capace di comunicare il senso di circospetta estraneità verso un contesto ambientale autosufficiente, che si muove secondo logiche proprie imperscrutabili ai profani, il film mostra e svela una realtà oggettivamente deprecabile senza esprimere giudizi definitivi sui singoli personaggi, concedendosi, tutt’al più, qualche digressione nel grottesco. Forte di una breve ma intensa attività di documentarista, la Rohrvacher spoglia il film da qualsiasi tentativo di analisi sociale condotta attraverso gli usuali strumenti del cinema di fiction (se non per mezzo dell’eccessiva caratterizzazione di alcuni personaggi) per affidarsi interamente alla registrazione delle emozioni della protagonista, tanto più trattenute e soffocate quanto più evidente diviene nel corso del film il divario tra la sua ricerca di risposte al profondo disagio vissuto e l’offerta di un misticismo a buon mercato, ridotto ad oggetto di consumo, ad argomento da quiz televisivo, a rappresentazione da baraccone. Corpo celeste ha il grande merito di registrare il solco sempre più profondo tra una Chiesa rimasta ancorata a un substrato di valori e precetti difficili da aggiornare e modelli di vita giovanili nella pratica distanti anni luce dalla religione ma attraversati in profondità da un bisogno di spiritualità probabilmente più forte che nel recente passato. I tentativi di adeguare la liturgia, il catechismo e tutti i momenti di espressione della fede alle mode giovanili sono goffi e ricalcano un appiattimento della cultura cattolica, ormai spogliata da ogni “mistero”, su quella televisiva nazionalpopolare. In questo la regista compie un’operazione speculare rispetto a quella di Roberta Torre che, con I baci mai dati, mette in scena abilmente l’immaginario pop degli abitanti di un quartiere della periferia di Catania per orchestrare una farsa surreale sugli aspetti più prosaici della religiosità, quelli legati a un misticismo popolare fondato su un’idea della Provvidenza che rimanda più ai concetti di raccomandazione politica o addirittura di vera e propria “protezione” di stampo mafioso che ad altre e più alate fonti di ispirazione. Se nel film della Torre era una moderna statua della Vergine a impartire precetti e a compiere prodigi, in Corpo celesteci si affida all’arrivo in parrocchia di un vecchio crocifisso in legno che rappresenta il Cristo in maniera tradizionale, realistica, per rinnovare la fede dei devoti: la statua, che dovrebbe sostituire il crocifisso in acciaio e plexiglass che fino a quel momento ha adornato la chiesa, è una sorta di enigma per i giovani cresimandi che si chiedono come sia possibile rappresentare la crocifissione, un evento evocato nozionisticamente al solo fine di indottrinarli in vista della cresima ma mai realmente compreso in tutta la sua dirompente drammaticità. Il crocifisso, recuperato dall’intraprendente parroco-imprenditore della parrocchia dall’abside della chiesetta di un paesino abbandonato, è significativamente custodito da un vecchio prete pazzo, una sorta di eremita fuori dal mondo, incapace di arrendersi alle logiche della convenienza e del profitto che sembrano aver inquinato anche la Chiesa, uno dei pochi personaggi con cui Marta sembra riuscire a comunicare per tutto il corso del film. Così come il crocifisso non giungerà mai a destinazione, lasciando al centro della modernissima chiesa alla quale era destinato uno spazio vuoto, allo stesso modo Marta non parteciperà alla cerimonia della cresima: quelli del Cristo e di Marta diventano due “corpi estranei” rispetto a una realtà nella quale tutto sembra sottostare alle ferree logiche del vantaggio, dell’opportunità, della convenienza personale e che ha dimenticato le ragioni della fede e della tolleranza. E se la comunità di fedeli resterà priva di quel corpo di Cristo, attorno al quale si struttura la fede attraverso il sacramento dell’eucarestia, Marta dovrà fare i conti con il proprio corpo in crescita (le prime mestruazioni sopraggiungono proprio nel giorno della cresima), con l’urgenza di altre domande che nascono dal profondo di una natura umana che è fatta di carne, certo, ma anche di uno spirito che andrebbe nutrito attraverso la fede non tanto e non solo in Dio ma soprattutto nell’uomo.

Fabrizio Colamartino

Ritratto sincero di un’adolescente alle prese con i sacramenti, dentro e fuori la Chiesa. Giancarlo Zappoli mymovies.it

Marta ha 13 anni ed è tornata a vivere alla periferia di Reggio Calabria (dove è nata) dopo aver trascorso 10 anni in Svizzera. Con lei ci sono la madre e la sorella maggiore che la sopporta a fatica. La ragazzina ha l’età giusta per accedere al sacramento della Cresima e inizia a frequentare il catechismo. Si ritrova così in una realtà ecclesiale contaminata dai modelli consumistici, attraversata da un’ignoranza pervasiva e guidata da un parroco più interessato alla politica e a fare carriera che alla fede.
Alice Rohrwacher debutta alla regia di un lungometraggio con una prova che testimonia della sua abilità nel dirigere attori e non attori, garantendo quella naturalezza che per un film come Corpo celeste è una qualità indispensabile. Deve infatti sostenere la veridicità di una condizione di degrado culturale e ambientale locale con il massimo possibile di verosimiglianza. Perché il film della Rohrwacher si colloca come un Gomorra della spiritualità in cui (forse casualmente forse inconsciamente) proprio uno degli attori di quell’opera interpreta il ruolo di un parroco desolatamente impermeabile a una fede vissuta a capo di una comunità culturalmente fatiscente. In essa si aggira la piccola Marta, adolescente in formazione che solo nella madre sembra trovare un’amorevole comprensione. Tra balletti di bambine ispirati alla peggiore tv, frasi del catechismo deprivate di qualsiasi senso grazie a una catechista incolta ma volonterosa e vescovi e loro segretari dal volto grifagno o dallo sguardo raggelante, Marta va verso la Cresima attraversando dei gironi spiritualmente infernali in cui non manca neppure un sacrestano lombrosianamente così pericoloso da annegare gattini appena nati. Un appiglio affinché una sua possibile fede possa non essere totalmente dissolta nell’acido muriatico di un’insipienza eretta a sistema potrebbe venirle da un anziano e isolato sacerdote che le fa conoscere la ‘follia’ di Cristo.
Ciò che non convince nella sceneggiatura (a differenza di film come Cosmonauta e I baci mai dati sicuramente non teneri con la Chiesa) è la compressione dell’ottica. Noi conosciamo Marta solo per quanto attiene la sua vita in casa (in misura minore) e la sua attività in parrocchia. Come se il Catechismo per una ragazzina di 13 anni fosse oggi pervasivo come per un’educanda in un collegio di inizio Novecento. Marta non sembra avere altre occasioni di vita o di relazione sociale (la scuola ad esempio?). Non avendo esperienza diretta della realtà calabra che Rohrwacher ha voluto portare sullo schermo non ci si può permettere di negarne la verosimiglianza. Si può solo constatare che, per fortuna, il mondo ecclesiale italiano è molto più complesso e articolato.

 

Curzio Maltese – Testata: la Repubblica

Se una regista nemmeno trentenne è capace di creare con pochi mezzi e tante idee un film come Corpo Celeste, si può essere ottimisti sul futuro del cinema italiano. A Cannes il film di Alice Rohrwacher è parso a molti il film più interessante della Quinzaine, laboratorio del futuro dove hanno esordito fra i molti Fassbinder e Herzog, Carmelo Bene e George Lucas, Oshima e Jarmusch e i fratelli Dardenne. È presto per dire se Rohrwacher si aggiungerà alla lista, ma certo il suo è un esordio folgorante. Corpo celeste, molto liberamente tratto dal romanzo della Ortese, è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta, 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. La circostanza narrativa che la scoperta della ragazzina avvenga attraverso un corso di catechismo improntato ai più sconci luoghi comuni televisivi non deve ingannare. Corpo celeste è già diventato un piccolo culto per le associazioni anti clericali, per quanto la regista si affanni a ripetere a ragione che non si tratta di un film contro la Chiesa e tanto meno contro la religione. Semmai è un film contro la vera religione dell’Italia contemporanea, il conformismo televisivo e l’opportunismo politico, che sono la negazione stessa di ogni spiritualità. Non per caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio, il bravissimo Renato Carpentieri, che rivela a Marta la follia di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell’umanità. La questione è che ormai si scambiano, si possono scambiare i fatti per satira e il racconto nudo per intenzione caricaturale. In questo la Rohrwacher è favorita dall’esperienza di documentarista. Le scene e i personaggi più surreali del film sono in realtà i più vicini alla realtà. Il prete di parrocchia che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che s’ispira ai quiz televisivi (Chi vuol esser cresimato?) per “vendere” ai ragazzi il cattolicesimo, sono figure che s’incontrano a ogni angolo di periferia italiana. Come s’incontrano i ponti che collegano il nulla al nulla, le tangenziali inutili, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche. Questa è l’Italia che appare allo sguardo di un’adolescente cresciuta in Svizzera e questa sarebbe agli occhi di noi italiani adulti, se non volessimo dimenticarla. Un paese che ha perso il suo dio, la propria identità e va a cercarsi una ragione di stare insieme davanti a uno schermo televisivo, intonando canzoncine e slogan dementi ma alla moda («Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta»). Tanti anni fa, nel dopoguerra, un grande antropologo, Ernesto De Martino, descrisse la «crisi della presenza» delle società rurali del Mezzogiorno come profezia di un mondo che avrebbe smarrito ogni senso d’identità e appartenenza. Corpo celeste è in parte il racconto di questa profezia avverata, qui e ora. Un bellissimo film civile, quindi, e forse il primo effetto della rivoluzione cinematografica scatenata dal più importante film del decennio passato, Gomorra di Matteo Garrone. Con il quale non condivide i temi, visto che la criminalità organizzata è volutamente tenuta fuori dal ritratto, per quanto sia più dominante a Reggio Calabria rispetto a qualsiasi altra città d’Italia, Napoli e Palermo comprese. Ma ne ricorda i climi, la corruzione dei costumi quotidiani, i paesaggi e ne condivide l’attore protagonista, il sempre straordinario Salvatore Cantalupo. Un’altra prova del talento della regista è la capacità, come per Garrone, di far recitare allo stesso livello professionisti eccelsi come Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli, con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Per esempio la piccola protagonista, Yile Vianello, una delle migliori attrici adolescenti fra le molte vista a Cannes. Per non parlare della catechista Santa, Pasqualina Scuncia, un talento naturale di attrice che misteriosamente fin qui ha sempre fatto nella vita la tabaccaia. Un’Italia che non vedremo altrove, un piccolo film da non perdere, una giovanissima regista già avviata verso una splendida avventura nel cinema italiano e mondiale.

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