Hungry Hearts

 Hungry Hearts

Hungry-Hearts

Hungry Hearts
Un film di Saverio Costanzo.

Ratings: Kids+16

durata 109 min.

Italia  2015

 

 

                                           

INDICE

– RECENSIONE

– INTERVISTA AL REGISTA

RECENSIONE: una riflessione profonda sulla genitorialità

 

Mina e Jude si incontrano per la prima volta in un’angusta toilette di un ristorante cinese. Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dal colloquio con una veggente a pagamento Mina si convince che il suo sarà un figlio speciale che andrà protetto da ogni impurità. Inizia a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. Jude decide di opporsi a queste scelte portando di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa più acuto.
Il disagio, il malessere esistenziale sono da sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Che si tratti dei palestinesi di Private, dei seminaristi di In memoria di me o dei giovani de La solitudine dei numeri primi la sua macchina da presa inquadra situazioni che sono al contempo estreme e quotidiane. È quanto accade anche in questo film che trae ispirazione dal romanzo “Il bambino indaco” di Marco Franzoso in cui Costanzo mette a frutto la propria profonda conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM ma non solo.
Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: “La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire”. È questo tipo di consumo che Mina (precocissima orfana di madre e con un padre con cui non ha più contatti) sta cercando, anche se vorrebbe evitarne inizialmente, l’avveramento. Costanzo non vuole fare il fustigatore di teorie e/o credenze più o meno diffuse (osservanza vegana compresa) perché di fatto spinge il suo sguardo decisamente molto più in là.
Mina non è una Rosemary polanskiana più o meno consapevolmente gravida di demoni interiori. È una donna che dimentica di essere tale (quindi annullando anche la propria sessualità che era in precedenza vitale e solare) in funzione di una ‘proprietà’, quella del figlio, che diviene totalizzante. Il punto di non ritorno è quando utilizza l’aggettivo possessivo più improprio (“mio”) nei confronti del neonato. Da quel momento Jude viene estromesso (con sentenza passata in giudicato nella mente della compagna) dalla condivisione che è propria dell’essere genitori. Per far ciò non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. È sufficiente ritenere di essere gli unici depositari del sapere ‘cosa è bene’ per l’essere umano in formazione rifiutando qualsiasi confronto. Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell’amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare. Costanzo sa come descrivere questo processo. MYMOVIE Giancarlo Zappoli

 

 

“HUNGRY HEARTS”: INTERVISTA A SAVERIO COSTANZO

Questa intervista è uscita sul Venerdì di Repubblica.

Roma. C’è anche la possibilità di detestarle, le due madri di Hungry Hearts: una trepida mamma vegana che affama il figlio per non contaminarlo con le impurità del mondo e una risoluta suocera che risolve drasticamente il problema del nipotino sottopeso. Saverio Costanzo ha riversato materiali incandescenti nel suo film, che parte come una commedia e poi svolta verso un horror familiare, dove un omogeneizzato di carne può elevarsi a dispositivo del thrilling. Due giovani si incontrano, si innamorano, nasce un bambino (indaco, ovvero dotato di superpoteri spirituali, secondo il vaticinio di una veggente) e monta la tragedia. Che si era già preannunciata in gravidanza con alcuni segnali, perché il diavolo è nei dettagli. Alba Rohrwacher ed Adam Driver, premiati alla Mostra di Venezia con la Coppa Volpi, sono Mina e Jude, lei italiana a New York che lavora nelle ambasciate e lui ingegnere: sono diversi, ma si vede che si amano, il guaio è che certe volte l’amore, anche materno, è il detonatore di esplosioni devastanti.

Anche questo film può essere un detonatore: di polemiche, sebbene Costanzo non emetta giudizi sui suoi personaggi. Per esempio: l’ostinata pratica vegana di Mina, la filosofia più inoffensiva della terra, non viene mai accusata di nuocere ai bambini, eppure, sul web, alcuni vegani un po’ meno inoffensivi se la sono già presa col regista, accusandolo, tra l’altro, di specismo (ovvero di discriminare gli animali dagli umani, soprattutto a tavola) per un’incauta dichiarazione festivaliera nella quale confessava di gradire molto il Big Mac e di propinarlo ai figli una volta al mese. In realtà queste sue scorrerie nel fast food sono più casuali che programmatiche, ma tant’è. Poi c’è il discorso sulle madri, ancora più ostico. Costanzo dice, giustamente, che «ogni film viene illuminato dalla luce dello spettatore», quindi ognuno può vedere quelle madri alla luce delle proprie esperienze, o disavventure, infantili. A chi in tenera età non se l’è passata tanto bene, il senso di possesso della mammina sul figlio e l’atteggiamento manipolatorio della suocera fanno venire i brividi. Ma qui bisognerebbe mettersi d’accordo sul fatto che di certe mamme, o certe nonne, è lecito diffidare. E apriti cielo.

Che ha detto sua madre del film? 

Perché?

Così, per sapere. 

Come spettatrice, mi sembra le sia piaciuto, sì, credo le sia piaciuto. Ha riso.

Le ha chiesto perché?

No, ho un certo pudore, poi mi è difficile pormi come figlio rispetto a questo film.

Questo film, come il precedente La solitudine dei numeri primi, altro horror di ambiente familiare, nasce da un libro, Il bambino indaco di Marco Franzoso. Ma se il romanzo di Giordano era arrivato a Costanzo per mano di un produttore, questo se l’è trovato da solo. Si ricorda ancora quando e dove l’ha letto: un anno e mezzo prima di scrivere la sceneggiatura, su un treno per Udine. «Avevo visto una recensione di Goffredo Fofi. C’è poco da dire, mi ha colpito. E respinto. Sentivo che era una storia che potevo raccontare, ma mi sembrava ci fosse troppa violenza. Però ogni tanto sono tornato a pensarci e un giorno questo pensiero è diventato la prima scena. La sceneggiatura è andata avanti con una scrittura naturale, semplice. Conclusa in una settimana».

La prima scena – che nel romanzo non c’è, ma Costanzo ha un approccio molto libero negli adattamenti dei libri, che legge e poi dimentica per conservare la storia, non i dettagli – è stata un po’ censurata nelle recensioni del film, ma andrebbe raccontata. Ristorante cinese a New York, la porta dell’antibagno in cui Mina si è lavata le mani non si apre, è bloccata. Si apre invece la porta del bagno e insieme a Jude esce una puzza mostruosa, apocalittica: lui ha mangiato qualcosa di molto indigesto e questi sono gli effetti. Imbarazzo, intimità coatta e vertiginosa, finché non li libera un cameriere.

Dopo Le conseguenze dell’amore, ecco Le conseguenze del mangiare: nel suo film, il cibo è pessimo in tutte le sue forme. 

Beh, sì: nella scena specifica, trattasi di merda. Ma è anche divertente. E in effetti c’è una coerenza fra il prologo e l’epilogo, ma non è studiata, costruita. Spesso questo film mi faceva paura. E a volte ridere.

Paura del male che può fare una madre? 

No, quello che ho capito o dovevo capire con Hungry Hearts è che le madri hanno sempre ragione. Ho faticato ad accettare il ruolo della madre più quando sono diventato padre che da bambino: allora non lo discutevo. Ho fatto pace con questa figura e imparato anche a guardarmi con più indulgenza nel ruolo di padre. Ma soprattutto ho capito e accettato che una madre ha sempre ragione.

Anche quando non vuol vedere che suo figlio rischia la vita perché non lo nutre a sufficienza? O quando comincia a purgarlo di nascosto per non fargli assimilare la carne prescritta dal pediatra? 

Se si entra in un’ossessione non si controllano le azioni. Questa è la storia estrema di un’ossessione d’amore che una madre non riesce a gestire. Non sa che fare di tutto l’amore da dare al bambino. Non riesce a contenere il miracolo di cui si rende capace, la maternità. È un’ idiozia darla per scontata. Si dice: la donna fa i figli, l’uomo no. E finisce lì.

Quindi non esistono cattive madri. 

È come dire: non esistono cattive persone. No, io non penso che esistano cattive persone e basta, cattive fino in fondo.

Che reazione ha alla parola famiglia?

Tutti i miei film sono sulla famiglia, questo è sicuro. Cerco di capirla. Ma non saprei rispondere su una cosa così profonda.

Qualche conto in sospeso? 

Se ci sono state delle mancanze lo ho perdonate: sono diventato un padre. Guardo con indulgenza agli eventuali errori dei miei.

Un padre famoso può essere devastante. 

C’è uno scambio di amore nella nostra famiglia di cui non parlo perché sono cose private. Grazie a mia madre il nostro quotidiano era fatto di normalità e discrezione, non mi sono mai socializzato come figlio di Maurizio Costanzo. Se lo dimentichi tu, lo dimenticano anche gli altri. E non ti ferisce chi pensa, come poi è normale, che tu abbia avuto dei privilegi, anche se non li hai mai chiesti né accettati.

In Rosemary’ Baby, film del 1968 di Polanski, Mia Farrow è vittima di congiura satanista condominial-coniugale che la fa mettere incinta dal demonio. Durante la gravidanza ha dei sospetti, ma viene trattata da visionaria. In Hungry Hearts, Mina ordisce da sola il suo complotto, e contro le forze del male (inquinamento, medicina allopatica, suocera carnivora), ma sa anche che gli altri, gli sconsiderati normali, la giudicano pazza. Inevitabile riconoscere un filo rosso fra i due film, ma Costanzo rivendica un’altra sintonia, con Una moglie di John Cassavetes (che, guarda caso, era il marito di Mia Farrow in Rosemary’s Baby, questo però non c’entra niente): «Che bel film, contiene la verità di una donna, tutto il suo amore e la sofferenza che comporta. Ancora oggi, quella di Gena Rowlands è forse la performance femminile più profonda perché non dà per scontata la maternità, è una lotta interiore. Una lotta buona e lieve».

Vecchia passione quella per Cassavetes: Costanzo dice che vorrebbe essere ingenuo come lui. Ma si può voler essere ingenui? «Sì, fidandoti dell’istinto, aspettando che le cose accadano, facendo lavorare l’esterno. Sul set, il mio modo di girare è stato quello di Cassavetes: non andare a cercarti uno stile, racconta semplicemente una storia dando lo spazio all’attore, che è la storia. Rimani su di lui e nel modo più onesto, senza metterti nella condizione di sapere troppo quello che vai a fare. Rosemary’s Baby è entrato nel film malgrado me, perché purtroppo non posseggo il candore di Cassavetes. Dico purtroppo perché lui non va mai a finire in un genere, rimane coerente con la danza umana che mette insieme, mentre io ho una parte evidentemente più orrorifica e in quell’interno di coppia ci vedo molto buio, così emergono degli incubi che appartengono a Polanski. Anch’io poi ho pensato a Rosemary’s Baby: perché Alba ha lo stesso biancore di Mia Farrow, la stessa eleganza, e perché io volevo l’Upper West Side, avevo bisogno di quella New York. Ma sono somiglianze più che altro estetiche».

Seguendo la corrente Cassavetes, sono successe cose, durante la lavorazione: Adam Driver, l’unica faccia giusta per il film, era indisponibile; stava per saltare tutto, ma poi si è liberato. Il minuscolo e nitido appartamento della coppia o la villa della suocera coi trofei di cervi alle pareti (proprietà di una signora dedita alla caccia con l’arco) non erano proprio quelli previsti dalla sceneggiatura, ma alla fine l’hanno arricchita. Il budget poco superiore al milione di euro ha consentito a Costanzo di lavorare, sollevare divani, faticare («ne avevo un gran bisogno»), la mancanza delle sovrastrutture da grande produzione ha eliminato deleghe e dispersioni. E assumendo anche il ruolo di operatore, il regista ha potuto sperimentare direttamente i rischiosi fisheye che deformano l’immagine quando la coscienza di Mina comincia a sfrangiarsi. «Volevo girare le scene con due obiettivi diversi, ma non c’erano né il tempo né i mezzi. È andata bene così».

In questo fecondo disordine creativo tocca parlare di altri disordini, quelli alimentari, già affrontati in La solitudine dei numeri primi. Perché tanto interesse? 

È casuale. In questa storia la protagonista non è anoressica, infatti Alba non è dovuta dimagrire dieci chili come nella Solitudine. Non mangia per un’ansia di purezza, che sarà pure anoressia, ma il tema del film non è il rapporto con il cibo, anche se l’ho girato a New York perché là mangiare una verdura che sa di verdura è un privilegio da miliardari, mentre in Italia è relativamente facile.

Il tormentone sul cibo è un tema filosofico? 

Non so. Aumenta la consapevolezza che distruggiamo la Terra, forse è una reazione, e magari allargando i consumi di alimenti biologici i prezzi di questi alimenti potrebbero scendere. Ma detesto fare sociologia e non c’è niente su cui non cambio opinione se incontro al bar  uno con un’idea più illuminata. E poi il dibattito sul cibo lo trovo noiosissimo.

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