Essere e avere (Philibert, 2002)

INDICE
SINOSSI
LA SCUOLA DEL PRESENTE
LA RELAZIONE INSEGNANTE ALUNNO
TRAILER
VIDEO JOJO E IL MAESTRO
VIDEO POESIE

 

SINOSSI:
Francia, Auvergne, dipartimento di Puy Le Dome. La zona è talmente isolata che sopravvive l’istituzione della “classe unica”, dove si ritrovano bambini la cui età copre l’intero ciclo scolastico delle elementari. Un maestro prossimo alla pensione segue tutti i suoi alunni cercando di trasmettere, oltre a un po’ di sapere generale, anche qualche insegnamento etico e civico, dal rispetto reciproco all’inutilità della violenza. Nel frattempo la montagna segue, dall’inverno all’estate, i suoi ritmi.

Essere e avere (il titolo deriva direttamente dai primi due verbi che si insegnano a scuola) rappresenta l’insolito caso di un documentario diventato un inaspettato blockbuster. Con più di un merito. Il regista Dilibert, già autore dell’ottimo Il paese dei sordi, conferma di essere qualcosa di più di un mero documentarista. La macchina da presa restituisce un mondo realistico e al contempo esemplare riuscendo a non cadere mai nella retorica. E costruisce ipotesi narrative che vanno dal comico al thrilling non perdendo mai di vista il proprio obiettivo didattico. Nel genere, un piccolo e prezioso capolavoro.

LA SCUOLA DEL PRESENTE
Essere e avere (che nelle nostre sale viene opportunamente proposto in lingua originale con i sottotitoli in italiano) è un film documentario che scorre lieve, senza il ricorso a voci narranti o a supporti didascalici. La sua funzione, come nella migliore tradizione di questa cinematografia, è nel mostrare una determinata realtà che sfugge ai nostri occhi disattenti o che non è visibile abitualmente, ma che il cinema è in grado di rappresentare nel suo svolgersi, senza gli artifici della fiction. Questa realtà “invisibile” è la scuola dal suo interno; ciò che noi sappiamo della vita di una scuola è sempre notizia di seconda mano: qualcosa che i nostri figli ci raccontano sulla loro giornata scolastica, qualche colloquio con gli insegnanti… In realtà noi ci fermiamo sempre sulla soglia della scuola e l’unica conoscenza diretta che ne abbiamo è quella legata alla nostra infanzia, quando ne eravamo protagonisti dall’interno.

Il piccolo Jojo, il bambino che ci mostra le sue mani sporche di colore nella locandina del film e che racconta e inventa le sue storie di fantasmi, è l’emblema di una soggettività infantile che il maestro Lopez cerca di cogliere e di educare in ognuno dei suoi alunni, tessendo con loro una rete di relazioni in cui, nelle trame della didat­tica, si inserisce anche il dialogo e l’ascolto, la soluzione di conflitti e il rispetto delle regole, l’attenzione ai problemi fami gliari e il senso della disciplina e della responsabilità. Unire alcune lettere dell’alfabeto per scrivere e leggere la prima parola, contare fino all’ultimo numero che conosciamo e chiedersi dove finiscono i numeri, il compito a casa dove una moltiplicazione diventa un rompicapo per tutta la famiglia, i giochi sulla neve, il problema di Nathalie e della sua “incomunicabilità”, sono alcune delle tessere di un mosaico che il regista compone nel quadro di un film dove il fluire delle stagioni accompagna l’anno scolastico, quasi a scandire il tempo lento e naturale dell’educazione. “L’educazione è lentezza, attendere, farsi carico” ha detto lo stesso Philibert, e il film si apre emblematicamente con l’im­magine di due tartarughe che camminano sul pavimento dell’aula scolastica ancora vuota.

Tra queste tessere c’è anche quella del maestro Lopez che racconta di sé e del suo mestiere, svelandoci il senso di una “vocazione” pacata, sospesa fra passato e presente. Per certi aspetti lui è l’autentico re­gista del film, artefice di quella “regia pedagogica” che fa della sua scuola e della didattica una sorta di “teatro quotidiano” con i suoi protagonisti e gli avvenimenti felici e dolorosi, comici e drammatici. Il regista del film coglie le suggestioni di questo universo, vi entra in punta di piedi e ce ne da una rappresentazione che ri-co struisce in maniera fedele ed esemplare: il modo con cui Philibert ha guardato la scuola del maestro Lopez non ha alcuna pretesa oggettiva, nel suo punto di vista c’è l’intenzionalità di chi si è prima messo in relazione con quella scuola e i suoi “attori” per conoscerla dall’interno, senza pre-giu dizi, senza teorie da dimostrare o messaggi da trasmettere.

Nato nel 1951, laureato in filosofia, Nicolas Philibert entra nel cinema collabo rando, tra gli altri, con Alain Tanner e Claude Goretta, per dedicarsi poi al documentario ponendosi all’attenzione in questa cinematografia speciale, ma non certo minore, con il film Le Pays des sourdes (1992), uno sguardo partecipe e dall’interno che descrive in maniera impeccabile la vita quotidiana delle persone affette da sordità totale. Essere e avere è la conferma di un talento documentaristico che riesce a cogliere i tratti emblematici e la giusta mi sura di una “spettacolarità” che appartiene ad ogni umana avventura che si dipana nei tanti mondi della vita, e la scuola è uno di questi.

Il film ci presenta una scuola che non ha alcun carattere didatticamente innovativo, non vi sono “nuove tecnologie” o esperimenti pedagogici in atto; non è neppure una scuola povera e disagiata; più semplicemente è una scuola essenziale, rigorosa. Questo carattere di essenzialità e di rigore appartiene anche allo stile cinematografi­co: la composizione e il ritmo delle scene, la fotografia, i dialoghi mostrano un ordine che sembra l’esito di un lavoro di sottrazione più che di accumulazione di materiali. Si tratta di togliere ciò che è superfluo, ridondante, confusivo per tenere ciò che è essenziale, l’essere appunto, più che l’avere. E in effetti questa scuola vale non tanto per ciò che ha, ma per ciò che è, per la sua identità pedagogica che si esprime nelle relazioni semplici e autentiche, fatte di autorevolezza e di dialogo che il maestro mette in atto con i bambini, e in tutto ciò che i bambini imparano grazie a quella scuola frequentata giorno dopo giorno. Quella che il regista ci mostra non è l’icona di una scuola del passato e della nostalgia, ma di un presente che ha radici profonde e ci sollecita a ritrovare il senso del fare scuola guardando al futuro, quel “senso” che il maestro Lopez ha trovato per 35 anni e che oggi sembra così difficile da trovare, se è vero che dalla scuola gli insegnanti cercano di fuggire più che di restare. (minori.it di Roberto Farné tratto da <> n. 6, giugno 2003, pp. 46-47 )

LA RELAZIONE INSEGNANTE ALUNNO

Essere e avere (un film di Philbert) ovvero l’importanza della relazione alunno-insegnante a scuola

di Roberto Carlucci ORIZZONTESCUOLA.IT

All’inizio dell’anno è uscito (2003) in poche sale un film di Nikolas Philbert , Essere e avere, subito archiviato e poco recensito. Offre in realtà interessanti spunti pedagogici, di riflessione e azione didattica. Racconta di una scuola elementare a classe unica nell’Alverne, di un maestro prossimo alla pensione. Nell’arco di un anno Philbert descrive la fatica di imparare e socializzare, seguendo i piccoli personaggi nel momento in cui iniziano ad apprendere, guidati da un maestro rigoroso e appassionato. Il maestro è impeccabile e autorevole riferimento sia nel momento in cui i bambini tracciano la prima incerta lettera sul quaderno, sia nel momento in cui essi si lavano le mani dopo aver dipinto o si azzuffano per una scaramuccia. Il maestro chiede ai bambini spiegazioni di comportamenti giudicati scorretti, mai accontentandosi di un silenzio, ma inducendo sempre ad una riflessione-narrazione del loro agire. La regia invisibile del film è tutto quello che non si potrà mai notare stando in una classe come insegnante. La scuola, di qualunque ordine si tratti, è una rete di relazioni, di comunicazione, di comunicazione difficile, di non comunicazione. Essere e Avere ha l’efficacia di una candid camera in aula, ma coglie i dettagli che danno forma all’ apprendimento e all’insegnamento.

Quello che emerge dal film è confermato da un illuminante testo – Quella volta che ho imparato (Ivano Gamelli e Laura Formenti, Ed.Cortina 1998) -, che nell’esaminare la quotidianità dell’insegnare individua nell’ascolto la centralità dell’azione educativa. L’apprendimento è qui visto non solo come una questione di metodi e contenuti, ma ha la sua specificità nelle capacità relazionali di chi insegna. Nell’alternarsi delle difficoltà e dei successi nella relazione con gli alunni, questa assume efficacia ed effettività se si fonda su un autentico intento comunicativo e su un reciproco ascolto.

La questione dell’insegnare non è quali informazioni trasmettere , bensì come trasformare le informazioni in conoscenze

(Ivano Gamelli.Pedagogia del corpo. Educare oltre le parole)

Ogni docente possiede uno stile educativo legato alla propria personalità e alle proprie convinzioni, alle scelte etico-morali, all’identità psicologica, alle conferme e disconoscimenti sociali e affettivi legati a questi comportamenti. Gli alunni sono anch’essi un universo inafferrabile di caratteri, aspirazioni, desideri, disagi.

Compito proprio dell’insegnante è quello di mediare la conoscenza, al fine di permettere l’avvicinamento ad una disciplina e favorirne l’acquisizione dei nuclei fondanti che la costituiscono. Se l’insegnante si pone come mediatore didattico e non come trasmettitore di saperi deve riuscire a far sì che chi ha davanti sia disposto a far fatica, ma soprattutto a scoprire e a dare senso a ciò che fa, quindi ad appassionarsi ai saperi. Non c’è apprendimento senza coinvolgimento emotivo, ma è valido anche il contrario: non c’è reale coinvolgimento emotivo senza apprendimento. La funzione specifica della scuola, cioè l’insegnamento-apprendimento, è possibile se l’informazione e i contenuti interagiscono con la struttura mentale del discente, se quello che si apprende viene rielaborato e investito di senso per sé. L’insegnante non può dunque prescindere dal porsi criticamente di fronte a chi insegna, dall’interrogarsi sul contesto, sulle risorse a disposizione, sui tempi, sui vincoli normativi (ad esempio le indicazioni ministeriali, le norme esplicite ed implicite dei singoli istituti). Una programmazione che sia autentica progettazione di lavoro deve tener conto di tutti questi aspetti, del rapporto tra il tempo, lo spazio e i soggetti che coinvolgono l’azione educativa. Anche per quanto riguarda i contenuti è importante verificare i criteri di selezione, contemplando, a mio avviso, sia elementi connessi alla disciplina sia strettamente legati a chi apprende. Che siano dunque:

significativi rispetto alla disciplina
significativi rispetto al presente
significativi rispetto alla sensibilità giovanile
storicamente rilevanti e scientificamente documentati
significativi rispetto agli obiettivi dell’educazione (ad esempio temi relativi all’educazione alla cittadinanza, all’interculturalità, alla tutela ambientale e allo sviluppo sostenibile).

Ciò non significa escludere temi e discipline non immediatamente recepibili dagli adolescenti, ma sottolinea la necessità e l’importanza per l’insegnante di interrogarsi sulle scelte delle modalità di insegnamento e dei contenuti, affinché siano congruenti con gli scopi che il docente si prefigge. Un importante contributo in tale direzione è svolto dalla riflessione pedagogica relativa alla didattica per progetti:

Nell’istruzione di base occorre trovare un buon equilibrio tra l’acquisizione delle conoscenze e le competenze metodologiche che permettono di imparare da soli

(Didattica per progetti IRRSAE Lombardia, Milano1999, a cura di F. Quartapelle)

Il senso di tale osservazione sta nel coniugare cultura pratica alla cultura generale, per preparare lo studente alla padronanza degli strumenti tecnici, ma soprattutto a saper imparare mentre sta operando: è questa l’integrazione richiesta nel mondo attuale del lavoro, in cui si applica ciò che si è imparato. Si tratta di obiettivi di competenza e di capacità quelli perseguiti dalla didattica per progetto: essa si basa su compiti di realtà anziché su sequenze di contenuti frazionati. E’ un tipo di apprendimento attivo, legato alla soluzione di problemi che abbiano un senso dal punto di vista cognitivo, sia dal punto di vista del contesto sociale in cui si collocano, centrando la responsabiltà sui soggetti in apprendimento. Questa pedagogia è un metodo di lavoro che si fonda sulla motivazione del soggetto che apprende, privilegia il metodo rispetto ai contenuti, il progetto. Progettare significa sottoporre le scelte a verifica empirica. Nel progetto, infatti, gli obiettivi educativi e didattici si concretizzano in un prodotto, che è cosa diversa dal prodotto di apprendimento. L’uso delle informazioni per la sua realizzazione mette in atto un processo che permette di strutturare i concetti e di costruirne di nuovi. Significa collegare il sapere alla società a cui esso è, direttamente o indirettamente, destinato, attraverso le più variegate e articolate espressioni. Naturalmente non tutta la programmazione può esaurirsi in didattica per progetti, ma il pensiero che ne sta alla base (far leva sulla motivazione degli alunni, spostare l’asse di attenzione dall’insegnante agli alunni, scegliere quei contenuti più rilevanti dal punto di vista della sensibilità dei ragazzi) può permeare i diversi momenti dell’offerta formativa. Ma l’insegnante è oggi sollecitato anche sviluppare “competenze interculturali”- (D. Demetrio, G. Favaro. Didattica interculturale, Milano, Franco Angeli, 2002)- non esclusivamente per far fronte all’ovvia constatazione di classi multietniche ma per:

scoprire la dimensione unica, individuale della cultura dell’altro; il che implica una apertura e un dialogo con l’altro e una riflessione sulla nostra cultura interiorizzata.
saper gestire e mediare le interazioni tra “pari” e “altri” l’incontro non avviene mai in astratto, ma attraverso contatti, difese, incomprensioni, conflitto.
saper tradurre in concrete attività e visibili gesti didattici i contenuti di apprendimento. Questi devono tener conto delle conoscenze etno-pedagogiche, ma anche del contesto in cui avvengono gli incontri interculturali di soggetti che costruiscono storie di vita condivisa.

L’azione interculturale è, in questo senso, una risorsa educativa innanzitutto per gli autoctoni, in quanto ricerca e possibilità di uno scambio e perchè proprio gli autoctoni sono a rischio, da membri della cultura dominante, di razzismo o paternalismo. E’ fondamentale prendere coscienza del fatto che non si incontra una cultura tout court, ma un individuo, una persona col suo vissuto, le sue emozioni, i suoi sogni e desideri, le sue aspettative. Essere e Avere, appunto.

Testi citati:

Ivano Gamelli,Quella volta che ho imparatoQuella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione (con Laura Formenti, Cortina, 1998).
Ivano Gamellli, Pedagogia del corpo. Educare oltre le parole. Meltemi, Roma 2001 -D. -Demetrio, G. Favaro. Didattica interculturale, Milano, Franco Angeli, 2002
Didattica per progetti , IRRSAE Lombardia, Milano 1999, a cura di F. Quartapelle

TRAILER

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