I quattrocento colpi (Truffaut, 1959)

Analisi tematica
Tra tutte quelle rappresentate all’interno de I quattrocento colpi, la famiglia è certamente l’istituzione sociale che dal film esce più malconcia.

Con pochi tratti essenziali, Truffaut riesce a darci un quadro preciso della situazione vissuta dal giovane protagonista. La collocazione di Antoine all’interno dell’appartamento, ad esempio, è indicativa della posizione di precarietà che occupa in seno alla famiglia: il suo letto, ricavato nell’angusto ingresso della casa, sembra suggerire la sua liminarità rispetto al nucleo familiare. Un’estraneità, questa, avvalorata dal fatto che Antoine dorme in un sacco a pelo, quasi che, al primo errore commesso, debba tenersi pronto a partire.

La madre, poi, sembra rinfacciare continuamente al ragazzo il fatto di essere arrivato a sproposito nella sua vita – lo ha avuto quando era ancora giovanissima – e forse di essere stato persino la causa del suo frettoloso matrimonio con un uomo che non ama. Non c’è da meravigliarsi se la prima scusa che viene in mente ad Antoine, per motivare l’ennesima assenza da scuola, sia l’invenzione della morte della madre. Nella spontanea ingenuità di questa bugia c’è tutto il risentimento nei confronti di una donna dalla quale sa di non essere stato mai amato: durante un colloquio al correzionale con una psicologa, infatti, Antoine confessa di aver saputo che la madre avrebbe preferito abortire.

Quanto al patrigno, poi, il film ne mette in evidenza più volte la sostanziale immaturità: l’uomo, con continue allusioni al proprio rapporto con la moglie, tende a coinvolgere il ragazzo in un’ambigua complicità che annulla la sua funzione paterna. Un ruolo che tuttavia l’uomo si affretta ad assumere in pieno quando Antoine si rende colpevole di qualche marachella: è proprio lui a consegnare il ragazzo alla polizia dopo che questi ha sottratto momentaneamente la macchina da scrivere dal suo ufficio.

La scuola, incarnata nell’odioso maestro (un personaggio grottesco che riassume su di sé tutte le altre figure repressive del racconto) è, nell’economia narrativa, solo la prima di una lunga serie di istituzioni sociali con le quali Antoine si ritroverà a fare i conti: se nel corso del film esiste una crescita del protagonista questa passa attraverso una piccola escalation criminale che lo porterà dalla scuola al correzionale.

I quattrocento colpi mostra, infatti, quanto sia ottusa e implacabile la logica degli adulti che si ostinano a leggere nel comportamento ribelle del ragazzo, diretto inconsciamente ad attirare su di sé l’attenzione degli altri, le premesse di un’inclinazione al crimine in realtà inesistente. Il dramma di Antoine, e più in generale di tutti gli adolescenti, è in fondo proprio questo: lanciare una serie di segnali cui raramente gli adulti riescono ad assegnare il giusto significato. All’interno di questa falsa dialettica, non essendoci possibilità di comunicazione, può esistere solo uno spostamento sempre ulteriore della trasgressione alle regole imposte dal mondo adulto.

L’omaggio reso da Truffaut al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza non risiede solo nella logica implacabile con cui è strutturato il racconto, ma anche nella capacità del regista di restituire, con una libertà stilistica fino ad allora mai sperimentata, un senso di complicità verso quel mondo trasmessa attraverso la forza di alcune immagini sicuramente memorabili. Una fra tutte può essere quella in cui, durante un dettato in classe, un compagno di Antoine pasticcia il quaderno con l’inchiostro, arrivando a strapparne tutti i fogli: una sequenza che diviene metafora dell’impossibilità per i bambini di star dietro alle regole dettate dagli adulti.

Analisi narrativa e stilistica

Al di là dello stile apparentemente spontaneo, privo di regole, con cui François Truffaut mette in scena le vicende di Antoine Doinel, I quattrocento colpi è, in realtà, un film le cui parti sono organizzate secondo una struttura ben precisa.

L’opposizione tra spazi interni ed esterni è il dato che colpisce maggiormente. La casa dei genitori del ragazzo, la scuola, il commissariato di polizia, l’ufficio della psicologa del riformatorio (che interroga il protagonista nel corso di un’unica lunghissima inquadratura fissa su di lui senza mai entrare in campo, quasi a sottolineare il carattere inquisitorio e al tempo stesso intimo del colloquio) sono tutti ambienti angusti, in cui tanto i personaggi quanto la macchina da presa si muovono a fatica: al termine del film il protagonista, definitivamente estromesso dall’ambiente domestico, verrà rinchiuso in una cella della gendarmeria molto simile a una gabbia, preludio alla prigionia cui sarà sottoposto in riformatorio. L’unico spazio chiuso che sembra sottratto al dominio del mondo adulto è quello della casa di René: composta da ambienti spaziosi, affollata da una pletora di strani oggetti (c’è perfino un cavallo impagliato a fare bella mostra di sé) è l’opposto speculare della casa dei genitori di Antoine. René, del resto, gode di una libertà pressoché assoluta dal momento che suo padre e sua madre, diversamente da quelli del suo compagno di banco, non si curano minimamente di lui: è ancora e soltanto un’altra forma di disinteresse nei confronti dei figli che sottolinea ulteriormente il tema della solitudine.

Gli spazi esterni, invece, rappresentano il polo opposto rispetto a quello dei luoghi chiusi or ora definito: le strade di Parigi sono riprese, forse per la prima volta nella storia del cinema francese del secondo dopoguerra, in piena libertà. Scendendo per le strade, filmando in mezzo alla folla, riprendendo sequenze praticamente dal vivo (come quelle dello spettacolo di Cappuccetto rosso al teatrino dei Giardini del Luxembourg e del luna park con il protagonista sulle giostre), Truffaut riesce a riprodurre uno sguardo che si impossessa degli spazi percorrendoli liberamente, facendoli propri allo stesso modo in cui Antoine e René, durante le loro scorribande, si muovono disinvoltamente per le vie della città.

A parte questi rari momenti di relativa serenità, il ritratto del giovane protagonista è essenzialmente quello di un essere solitario, diffidente, spinto ad allontanarsi da coloro che lo hanno sempre interrogato, sgridato, punito e, infine, isolato. Il film, del resto, incomincia proprio con una sorta di reclusione di Antoine, quando il maestro lo punisce relegandolo dietro la lavagna e, successivamente, impedendogli di partecipare alla ricreazione con i suoi compagni. L’evasione dal riformatorio della sequenza finale è, da un punto di vista strettamente narrativo, la conferma dell’inutilità della fuga ma, più intimamente, la volontà del ragazzo di allontanarsi dal gruppo cui, pur forzatamente, appartiene.

Lo sguardo di Antoine su cui la macchina da presa stringe l’inquadratura, dopo una lunghissima carrellata che lo segue negli ultimi metri percorsi prima di incontrare il mare, è quello della sorpresa di fronte a un spazio mai esplorato prima d’allora (in una conversazione con René il protagonista aveva espresso il desiderio di entrare in marina, pur ammettendo di non aver mai visto il mare) ma anche della scoperta della propria consapevolezza di essere ormai definitivamente solo di fronte all’immensità della vita.

Fabrizio Colamartino